Come il documentario di autofiction può essere una pratica femminista di indagine collettiva per tutte.
Il documentario di autofiction mette al centro il corpo e la soggettività del regista. Una pratica di indagine, quasi un’auto-inchiesta, che prende dal personale per uscire verso l’esterno, per creare una narrazione altra attraverso la scelta di uno sguardo delocalizzato.
Così hanno deciso di fare le registe Elizabeth Sankey e Franziska Kabisch. La prima dirige per MUBI Witches, un documentario misto a video-essay che esplora il rapporto tra le rappresentazioni della stregoneria e le problematiche legate alla salute mentale della donna; la seconda firma un cortometraggio intitolato Getty Abortions sulla comunicazione visuale dell’aborto nei media. Entrambe partono dalle proprie esperienze personali che poi intarsiano con fonti storiografiche, dati, ma soprattutto testimonianze di altre donne. Lo spazio del documentario diventa così un luogo di risignificazione di un discorso scritto da altri, dove le donne protagoniste – attraverso i loro corpi e non solo – prendono parola e avviano una nuova narrazione.
Lo spazio del documentario diventa così un luogo di risignificazione di un discorso scritto da altri, dove le donne protagoniste prendono parola e avviano una nuova narrazione.
Partiamo da una sequenza tratta da Getty Abortions, il desktop documentary di Franziska Kabisch: una serie di immagini stock di donne di spalle, che guardano qualcosa fuori la finestra o semplicemente il vuoto, a volte si toccano la pancia, altre volte sembrano nascondersi da qualcuno. Non hanno volto, non sono calate in nessun tipo di contesto sociale riconoscibile. Sono silhouette spersonalizzate. Solo una voce fuori campo, quella della regista, che ci racconta la sua esperienza di aborto. La regista costruisce sapientemente il suo film attraverso una narrazione divisa in tre parti. La prima è una storia di sofferenza: la sua visita al consultorio locale, l’attesa di tre giorni per meditare se vuole veramente sottoporsi alla pratica, gli sguardi di disgusto, il medico che le lascia un’immagine del feto, un gruppo di antiabortisti che la insultano fuori dalla clinica, e il conseguente crollo emotivo – la chiusura, l’umiliazione, il rammarico. È la narrazione che ci hanno fatto interiorizzare – dominata da quello che Erica Miller nel suo Happy Abortion definisce registro emotivo accettato: vergogna e senso di colpa – per poi svelare che quella che abbiamo appena visto non è la sua vera storia. Inizia quindi una seconda narrazione ed è la vera esperienza della regista con tanto di fotografia allegata. Il sorriso di Kabisch fuori dalla clinica, la sua voce che ricorda la sensazione di sollievo, non di vergogna.
Il documentario si conclude con un’indagine su come viene raccontato visivamente l’aborto e su come i movimenti anti-abortisti si siano appropriati dell’immagine del feto per fare propaganda pro-vita.
Il documentario si conclude con un’indagine su come viene raccontato visivamente l’aborto e su come i movimenti anti-abortisti si siano appropriati dell’immagine del feto – insieme a varie immagini stock di donne depresse, completamente decontestualizzate – per fare propaganda pro-vita. Laura Tripaldi descrive bene nel suo Gender Tech come le immagini ecografiche del feto siano una potente arma visiva: «Per la sua collocazione al confine ultimo del territorio del vivente, il feto è un avamposto della biopolitica; eppure, l’unico modo che abbiamo per osservarlo – per costruirlo culturalmente e scientificamente come un’icona della vita – passa attraverso la sua trasformazione in un corpo morto, chirurgicamente asportato dal contesto materiale che ne rende possibile l’esistenza. Se osservare un feto in un barattolo significa, come vorrebbero gli anti-abortisti, “guardare in faccia la realtà”, questa “realtà” che si sta guardando è stata resa possibile soltanto a condizione di un’implicita operazione di smembramento, che trasforma un corpo, quello del feto, in un soggetto, e, nello stesso colpo di bisturi, ne oggettifica un altro, quello della donna. I reperti macabri dell’embriologia del passato sono la testimonianza del fatto che ogni biopolitica è segretamente fondata su una necropolitica, cioè su una politica dei cadaveri».
Kabisch, che prima di essere regista è ricercatrice, isola sullo schermo le immagini utilizzate negli articoli online e nei magazine (soprattutto su Bravo Magazine, una rivista teen tedesca), per fare un’operazione di disvelamento: queste immagini sono messe in scena, attrici in studi fotografici ignare che la loro postura e il loro volto nascosto saranno utilizzati per manipolare le lettrici di articoli contro l’aborto. Kabisch riesce a servirsi della sua esperienza per liberare lo sguardo delle altre. Il personale diventa politico nella costruzione di un documentario che si pone come atto liberatorio. La regista desidera restituire un volto ai corpi delle donne subdolamente sfruttate. Decide di fare una ricerca sui vari portali di immagini stock scrivendo come parole chiave: “donna depressa”, “donna che sta male”, “donna che piange”. Cliccando sulle singole fotografie riesce ad arrivare al set completo, le attrici posano in tantissimi modi diversi, ma soprattutto hanno un viso. Kabisch le seleziona, le scontorna e le colleziona sullo schermo, popolandolo di volti radianti, poi aggiunge anche le sue fotografie (quella subito dopo l’aborto, una di quando ha tredici anni e una di com’è adesso), tutte le donne ci guardano per qualche secondo, poi partono i titoli di coda. Lo schermo diventa uno spazio di risignificazione. Getty Abortions è un documentario sulla riscrittura, sulla riappropriazione dello sguardo femminista all’interno di una narrazione fatta da altri, «il prendere corpo femminista resiste al fissaggio e possiede una curiosità insaziabile per le reti di posizionamento differenziato», per dirla con Donna Haraway. Questo posizionamento è un preciso scarto, in cui le fonti sono contemporaneamente storia e corpo, personale e pubblico. Come scrive Lea Melandri, «un io che diventa un noi».
Il punto di vista della regista viene incarnato: la ricostruzione dell’archetipo della strega funge da doppia legittimazione, sia dei personaggi femminili perturbanti e controversi appena visti, sia per sé stessa.
Nello stesso modo si pone Witches di Elizabeth Sankey, procedendo più per associazioni – la corrispondenza tra le donne malate e le donne che storicamente sono condannate per stregoneria – che attraverso una forma di collage sperimentale come nel caso di Kabisch. Nella prima parte del film Sankey costruisce una sorta di storia culturale della figura della strega attraverso i secoli, utilizzando la giustapposizione di immagini di pellicole cinematografiche cult da I Married a Witch (1942) di René Clair a Practical Magic (1998) di Griffin Dunne, passando per Changeling (2008) di Clint Eastwood, Rosemary’s Baby (1968) di Roman Polanski e sequenze di Possession (1981) di Andrzej Żuławski. Sankey mette in luce come le rappresentazioni delle streghe siano state storicamente collegate a donne che non rispettano le aspettative della società, quel mostruoso femminile di cui parla Jude Ellison S. Doyle.
Poi il documentario cambia e appare in camera il corpo della regista. Il suo punto di vista viene incarnato: la ricostruzione dell’archetipo della strega funge da doppia legittimazione, sia dei personaggi femminili perturbanti e controversi appena visti, sia per sé stessa. Elizabeth Sankey si siede di fronte alla camera in una stanza infestata da piante rampicanti, pochi mobili in legno (qualche mensola, una credenzina) e dietro una finestra con una grande tenda bianca in tessuto spesso che lascia filtrare una luce delicata. La regista racconta la sua esperienza di ospedalizzazione nel reparto psichiatrico a seguito di una forte depressione post-parto. Traccia un percorso intimo, superando il misto di vergogna e senso di colpa di cui parlavamo all’inizio, che Miller avvicina all’esperienza dell’aborto, ma che si può allargare a tutte le esperienze femminili considerate un tabù.
La donna qui è un agente inaspettato che rompe le catene della narrazione normata, ma forse il sillogismo che lega le parole donna-strega-cattiva è troppo debole e rischia di essere generico.
Sankey non si limita a utilizzare la camera per raccontare la propria storia, ma cerca di creare uno spazio condiviso dove altre donne possano sentirsi meno sole. Collettivizza la sua esperienza. Le testimonianze sono tante: per esempio quella di Catherine Cho, autrice di Inferno: A Memoir of Motherhood and Madness, un testo sulla sua esperienza di psicosi post-parto: la sua voce tratteggia una storia dell’orrore fatta di visioni del diavolo con fiamme negli occhi; ma soprattutto sono presenti una serie di interviste a donne che hanno attraversato il suo stesso percorso e che ha incontrato grazie al gruppo di supporto Motherly Love, al quale Sankey si è unita durante la sua malattia. Come ha raccontato in un’intervista al Guardian: «Ciò che ha veramente cambiato le cose per me è stato entrare a far parte di Motherly Love, un gruppo di supporto composto da donne di diverse origini che hanno affrontato problemi di salute mentale perinatale. Tutte loro mi capivano. Qualunque pensiero angosciante avessi, qualcun’altra l’aveva provato e, nonostante tutto, era riuscita a superarlo. Il gruppo è diventato una fonte fondamentale di speranza, sostegno e conoscenze pratiche, che sembravano non essere disponibili altrove. Sono state proprio queste donne a riconoscere la gravità dei miei sintomi e a spingermi a cercare immediatamente aiuto. Mi hanno salvato la vita, semplicemente condividendo le loro esperienze e facendomi sentire che non ero sola. Il suicidio continua a essere la principale causa di morte materna tra sei settimane e dodici mesi dopo il parto, rappresentando il 39% delle morti in questo periodo. Nonostante l’aumento dei fondi e della consapevolezza, i tassi di suicidio sono aumentati del 15% negli ultimi dieci anni. Penso che una parte significativa di questo dipenda dalla soffocante pressione che le donne sentono a dover essere perfette».
C’è anche da dire che il collegamento tra la psicosi post-partum e le rappresentazioni cinematografiche delle streghe rischia di semplificare eccessivamente un problema sistemico ben più radicato. La demonizzazione storica delle donne non ha sempre a che fare con questa patologia ma con un impianto ben più ampio di credenze misogine che considera le donne che non rispettano la condotta patriarcale di addomesticamento come “pericolose” e “fuori controllo”. L’idea che le donne siano state messe da parte o ignorate nel raccontare la loro condizione trova spazio nel documentario nella teorizzazione della filosofa Miranda Fricker della ingiustizia testimoniale, ovvero l’idea che le persone marginalizzate siano sottovalutate come testimoni e narratori delle loro stesse storie, condizioni e violenze, a causa di una serie di pregiudizi sistemici. La donna qui è un agente inaspettato che rompe le catene della narrazione normata, ma forse il sillogismo che lega le parole donna-strega-cattiva è troppo debole e rischia di essere generico. Come scrive Loayza sul New York Times: «Se ogni donna che si comporta male può essere definita strega, allora il documentario di Sankey troppo spesso funziona come un gioco di associazioni». Nonostante questo, ciò che più ci interessa è che tanto Witches quanto Getty Abortions si pongono come un atto liberatorio, uno spazio dove la testimonianza di Sankey e di tutte le donne intervistate permettono finalmente di scardinare il silenzio che circonda queste esperienze. È questo il vero obiettivo dei film: restituire visibilità e dignità alle donne, rimosse in modo sistemico dai racconti ufficiali, sia sullo schermo che nella realtà. Entrambi i film si fanno pratica femminista, partendo dall’esperienza delle registe e dal loro corpo per raccontare storie collettive sempre più urgenti.