Due boomer nella trappola

Nottetempo

Intervista a Alberto Piccinini e Giovanni Robertini, autori di Maxi-rissa. I diari della trap (nottetempo, 2025).

da Quants n. 22 (2025)

Ai vecchi, i giovani non sono mai piaciuti. È una storia antica, che si ripropone ciclicamente, rinnovandosi in forme sempre diverse. E così, puntuali come un orologio, gli adulti, i nostalgici del progressive rock, i cultori del cantautorato, hanno iniziato a mugugnare non appena la parola trap è entrata nel vocabolario collettivo. Giovanni Robertini e Alberto Piccinini lo sanno bene: da anni si occupano di musica e culture giovanili, e da anni si ritrovano circondati da amici, colleghi e familiari burberi e lamentosi. Così, su Rolling Stone, hanno dato vita alla rubrica Boomer Gang, uno spazio ironico in cui raccontano il presente musicale con uno sguardo acuto e disincantato. Da questa rubrica nasce Maxi-rissa. I diari della trap, edito da nottetempo: un libro che rielabora, approfondisce e dà una forma a intuizioni nate nel tempo, a partire dall’irruzione del rap nella cultura popolare italiana. Nel paese delle ronde anti-maranza e degli artisti in tribunale, il rap è un vero e proprio campo di battaglia culturale e politico, Maxi-rissa è quindi un’operazione tanto ambiziosa quanto delicata, che mette Robertini e Piccinini di fronte a una sfida non da poco: usare un tono leggero per raccontare temi che oggi dividono l’opinione pubblica.

Maxi-rissa è un’operazione tanto ambiziosa quanto delicata, che mette Robertini e Piccinini di fronte a una sfida non da poco: usare un tono leggero per raccontare temi che oggi dividono l’opinione pubblica.

Il posizionamento degli autori su queste vicende, la loro idea di giornalismo musicale e di scrittura, le radici sociali del conflitto tra generazioni, sono alcuni dei temi emersi nella lunga conversazione che ho avuto con Robertini e Piccinini. Un dialogo – autenticamente intergenerazionale – che ha permesso di mettere a fuoco analogie e divergenze nei modi di approcciarsi al rap e alle culture giovanili contemporanee.

«Ogni volta che sento puzza di moralismo, di qualcuno che esce fuori dicendo “ai nostri tempi era meglio”, “che schifo questa roba nuova”, allora aguzzo le orecchie» – mi dice subito Piccinini. «L’ho sempre fatto, non so nemmeno bene perché, forse perché sono cresciuto in un’epoca in cui le stesse identiche critiche venivano rivolte ad altre forme culturali. È successo col punk, e poi di nuovo con l’hip hop». Robertini invece ricorda bene il momento in cui la trap è diventata oggetto di discussione: «Era il 2016 o poco più avanti. In quel momento dirigevo Rolling Stone, e mi ricordo perfettamente le shitstorm che si scatenarono. Rolling veniva da una tradizione ben precisa, soprattutto negli anni precedenti: copertine dedicate ai grandi del rock, a figure mitiche. Una linea editoriale molto celebrativa. Arrivai io e proposi la copertina con Sfera Ebbasta. Quella cover segnò uno spartiacque, una rottura evidente. Sfera rappresentava tutto quello che quel mondo non era: un’estetica nuova, un linguaggio nuovo, un’attitudine che spiazzava. In quel momento ci trovavamo davanti a un movimento musicale in crescita, anche se ancora poco coordinato. Era ancora underground, se si può ancora usare quella parola, ma aveva già un’energia capace di rompere gli schemi. Il fatto che stessero sulle palle a tanti, per loro, era quasi un punto d’orgoglio. La Dark Polo Gang fu tra le prime a giocare su questa cosa: essere fieri di non piacere, anche agli altri rapper. Una fierezza ostentata, tipica di chi vuole rivendicare un’identità a parte, fuori dagli schemi».

«Ogni volta che sento puzza di moralismo, di qualcuno che esce fuori dicendo “ai nostri tempi era meglio”, allora aguzzo le orecchie».

Visto che entrambi hanno lavorato in televisione e in grandi riviste di settore, chiedo loro quale ruolo abbiano avuto i media nella costruzione di un’immagine macchiettistica della trap. «Sono due mondi molto diversi, che sia io che Alberto conosciamo bene» – comincia Robertini. «Uno è quello della televisione, entrambi ci lavoriamo come autori: lui a Blob, io ho fatto per anni Le Invasioni Barbariche, poi L’Assedio e altri programmi. Ricordo che già a Le Invasioni invitammo per primi i Club Dogo e Fabri Fibra. A L’Assedio sono passati artisti come Massimo Pericolo e Ketama. C’era una sorta di curiosità, anche un po’ antropologica, da parte della tv verso queste nuove espressioni culturali giovanili. Erano realtà che venivano apprezzate dai figli o dai nipoti di chi lavorava nei media mainstream, e che quindi entravano in punta di piedi anche in quegli spazi. I trapper, con le loro parole e le loro azioni, sono diventati un filone narrativo a sé. Rete 4 ci ha costruito sopra una vera saga: il presunto rapimento di Baby Touché da parte di Simba La Rue, la rappresaglia, gli scontri, gli inviti in studio. La televisione, soprattutto quella dei talk show di destra con un’impostazione securitaria, ha trovato nella trap il bersaglio perfetto. Perché nei testi c’è tutto quello che quel mondo lì rifiuta. E se a fare trap sono ragazzi di seconda generazione, tanto meglio: l’obiettivo diventa ancora più chiaro. Per quanto riguarda invece la critica musicale… Beh, ti racconto un aneddoto. A un certo punto, quando uscì il primo disco di Paky, l’ufficio stampa organizzò una specie di tour in un van nero coi vetri oscurati, per portarci a Rozzano. L’idea era farci “respirare” l’ambiente in cui era cresciuto Paky. Una gita nella piazzetta, come se fossimo in una zona di guerra. Quella era l’immagine che volevano far passare. Ma è chiaro che siamo al limite del grottesco. Quel van lì, in fondo, è la metafora perfetta di come l’industria, e spesso anche i media, raccontano questo mondo: una narrazione costruita, guidata da esigenze di marketing e da cliché narrativi. Il nostro tentativo, in questo libro, è stato anche quello di fare un po’ di esercizio di critica culturale, di allargare lo sguardo, di fare giornalismo nel senso più ampio, anche un po’ di reportage, se vuoi».

Lo sguardo di Piccinini sul giornalismo musicale è ancora più fosco rispetto a quello del collega. «Forse è una cosa un po’ provinciale, ma ho sempre letto molto di più la stampa musicale inglese e americana. E purtroppo mi sembra che qui ci manchi ancora tanto. Ci sono poche cose che davvero mi entusiasmano, che mi piace leggere. Alla fine, uno dei problemi veri è proprio questo: la qualità, l’onestà intellettuale. Quanto riesci a raccontare davvero? Quanto riesci ad andare a fondo? È difficile, lo capisco. Con il tempo, tendi a riproporre quello che conosci, la tua storia, le tue certezze. È qualcosa che succede in modo quasi automatico, psicologicamente inevitabile. Ma se vuoi fare questo mestiere in modo interessante, devi sforzarti di restare aperto a ciò che ti succede intorno, anche se magari ti sfiora senza che tu te ne accorga. Io ora ho un figlio di 17 anni. Anche lui è diventato una voce che ascolto, un punto di osservazione. Forse perché in lui ritrovo un’innocenza, uno sguardo fresco che anche io avevo, un tempo». È proprio questa ricerca di autenticità, secondo Piccinini, a muovere la scrittura di Maxi-rissa. «Questa, in fondo, era la motivazione principale del libro: cercare un modo onesto di raccontare, non tanto per spiegare una volta per tutte cosa sia la trap, anche perché è un fenomeno in continuo movimento, alcune delle persone di cui parliamo oggi magari tra pochi mesi saranno già passate di moda, o dimenticate, o torneranno con nuove forme. Ma ci interessava soprattutto trovare un modo di scrivere, un modo di osservare, che ci rappresentasse. Una scrittura che si facesse anche esercizio, uno strumento per restare svegli. Ci sono sguardi molto diversi nel modo in cui osserviamo questo fenomeno. C’è lo sguardo sociologico, quello antropologico, che magari ci portiamo dietro dagli studi universitari. Poi ci sono prospettive più leggere, più umoristiche, altre più artistiche. E anche questo libro nasce da un intreccio di tutti questi approcci».

«La trap ha dato voce a chi non ce l’aveva: le seconde generazioni, fino a quel momento praticamente mute nello spazio pubblico».

La domanda inevitabile, a questo punto, è cosa renda la trap diversa rispetto ad altri movimenti culturali giovanili emersi negli ultimi decenni. «Mi vengono in mente, prima di tutto, due cose semplici, due verità ormai note. La prima è che la trap italiana nasce completamente fuori dai radar, lontana dai discografici e dalle loro imposizioni. All’inizio nessuno ci credeva davvero. L’idea che certi movimenti americani potessero funzionare anche in Italia sembrava assurda alle major, quindi tutto parte in modo indipendente, autoprodotto, con un approccio do it yourself. E nemmeno più con i campionatori: bastava scaricare una base da YouTube e registrare con l’autotune. Un processo produttivo estremamente semplice, ma proprio per questo accessibile. E così le tracce cominciano a circolare dal basso. Poi, naturalmente, questo circuito viene quasi subito assorbito dall’industria. Appena girano un po’ di soldi non c’è più alcun interesse a restare underground. Anche questo è interessante: il fatto che l’obiettivo diventi da subito firmare con una major, con tanto di macchina, orologi e casa alla mamma. Tutto quel pacchetto lì. La seconda cosa, e anche qui, mi sento quasi banale a dirlo, è che la trap ha dato voce a chi non ce l’aveva. Alle seconde generazioni, che fino a quel momento erano praticamente mute nello spazio pubblico. Le conoscevamo solo con la maglia della nazionale addosso o quando comparivano in qualche notizia allarmistica al telegiornale. Erano entità astratte, sempre raccontate da altri. Poi arrivano loro, da Baby Gang in poi, e iniziano semplicemente a fare musica. Non si propongono come portavoce, non parlano per nessuno. Ma iniziano a esistere, a esprimersi. E già questo è un passaggio fondamentale».

Piccinini torna sul tema del denaro, sottolineando un aspetto che secondo lui è centrale nel racconto della trap: «Credo che l’ossessione dei trapper per il denaro sia uno dei fattori più interessanti di questo movimento. È davvero un riflesso del mondo in cui viviamo. Non ci sono altri valori alternativi in giro, o comunque sono in ombra. E questo non è un discorso moralista: è solo prendere atto di ciò che è. La trap lo mostra in modo diretto. Mostra il blocco, la collana, la borsetta di marca, la ragazza. E alla fine, se ci pensi, quel tipo di immaginario è lo stesso sogno dell’impiegato medio di Abbiategrasso. Per questo la trap è importante: perché racconta qualcosa di molto profondo, che ci riguarda tutti e che accade sotto i nostri occhi ogni giorno. A partire dalla rima di Guè «il mondo è solo troie e milioni, lo dice Ice Cube e pure Berlusconi», nel libro c’è un intero capitolo dedicato al “Berluscaverso”. Perché a pensarci bene Berlusconi è parte integrante di questo immaginario. Bandana, yacht, ostentazione, edonismo: c’era già tutto».

«L’ossessione dei trapper per il denaro è un riflesso del mondo in cui viviamo: non ci sono altri valori alternativi in giro, e la trap lo mostra in modo diretto».

L’assoggettamento della trap alle case discografiche è stato pressoché immediato. Ma qual è stato, secondo gli autori, il ruolo delle major nella diffusione di questo genere? «L’industria discografica? Vogliono farci solo soldi, punto» – esordisce Robertini. «Hanno capito che c’era un’opportunità e si sono buttati. Mi ricordo alcune ‘gite professionali’, diciamo così, per fare interviste con artisti come Rondo e la Seven 7oo, appena presi sotto l’ala della Warner. Era evidente che li avevano acquistati in blocco, come un pacchetto. Ma non sapevano bene cosa farci. Avevano intravisto un potenziale guadagno, ma non avevano gli strumenti per gestirlo. E forse, paradossalmente, è stato un bene che fossero così impreparati. Perché nel frattempo questi artisti si autopromuovevano da soli, usavano i social, comunicavano direttamente con chi li ascoltava. Alla fine è musica venuta fuori da Internet, ignorando le regole convenzionali del mercato. Alla fine, i discografici servono solo per una cosa: il bonifico. Sono lì per quello. I trapper usano le etichette come casse automatiche, bancomat. Lo scopo è incassare, il resto se lo fanno da soli. Le case discografiche oggi sopravvivono grazie a Spotify, è la piattaforma che le tiene in vita, altrimenti sarebbero tranquillamente sparite già dieci anni fa. Adesso, con lo streaming, sono riuscite in qualche modo a riprendere il controllo della situazione».

Concludo chiedendo ai due autori come abbiano deciso quale tipo di voce adottare nel libro. Robertini spiega: «Abbiamo preso il materiale di anni della rubrica Boomer Gang e cercato di dargli una voce unica, mantenendo però lo spirito con cui è nata: il tono di chi osserva, ragiona, ma non si prende troppo sul serio. Perché l’idea non era “spieghiamo la trap agli italiani”, ma piuttosto: raccontiamola dal nostro punto di vista, quello di chi la segue, la ascolta, la commenta ogni giorno, anche un po’ per deformazione professionale. C’è dentro anche un po’ di provocazione. Già il nome, Boomer Gang, era un gioco. Siccome intorno a noi tutti parlavano male della trap, ci siamo detti: ok, allora cominciamo a parlarne bene. Anche solo per rompere la noia». Piccinini prosegue su questa linea: «C’è anche questo gioco, che in fondo è un gioco vecchio. Come quando si è cominciato a rivalutare i film spazzatura italiani: ecco, ne parli bene per provocazione, per divertimento, ma poi finisce che qualcosa di serio salta fuori. E infatti anche noi, partendo da questo gioco, siamo arrivati a tirare fuori questioni un po’ più importanti, come il rapporto tra la trap e le seconde generazioni, o cosa rappresenta davvero questo genere dal punto di vista culturale. Però all’inizio, davvero, tutto nasce da una rubrica un po’ provocatoria».

Giornalista che si occupa di musica rap, sottoculture giovanili e comunità marginalizzate. Ha collaborato con Rivista Studio, Rolling Stone, Outpump, Lucy.Sulla Cultura e altre testate. Dirige il magazine indipendente oltreoceano, dedicato alla cultura della comunità afroamericana.