Che cos’è la realtà? Edoardo Camurri, giornalista e scrittore, lo chiede a sé stesso e al lettore in un libro molto particolare, Introduzione alla realtà (Timeo), con un gatto in copertina dallo sguardo allucinato. Di questo, di tv, di radio e di una pietra, parla nella lunga conversazione a seguire.
Nella prima risposta che Edoardo Camurri ha dato per questa intervista, si manifesta di colpo un’immagine, un fotogramma accecante. È un bagno di sangue, selvaggio, una scena alla Quentin Tarantino, che continuerà a lampeggiarmi in testa per giorni. Nato nel 1974 a Torino e laureato in filosofia teoretica con Gianni Vattimo, Camurri è un apprezzato conduttore televisivo e radiofonico, un giornalista, uno scrittore e un amante della letteratura di James Joyce, del quale non parleremo in questa conversazione. Non parleremo neppure di un programma di approfondimento culturale, 141 episodi in onda su Rai 3 tra il 2022 e il gennaio 2024. Si chiamava Alla scoperta del ramo d’oro. Oltre a fregiarsi di un titolo splendido, è stata una trasmissione amata, anche se con masochismo impareggiabile è stata poi falciata via dal palinsesto. A maggio 2024 Camurri ha pubblicato per l’editore Timeo un piccolo libro: Introduzione alla realtà. Appena 110 pagine, ma scritte come un esperimento psichico e letterario. Il tono di voce, originale e insolito, entra nella mente del lettore, stimolandone la memoria e l’autocoscienza, a partire da una domanda radicale sullo statuto della realtà e sul nostro essere al mondo.
L’incontro con Edoardo è via Zoom, in un tardo pomeriggio di metà ottobre. Prima domanda: che cosa hai scoperto ultimamente? Edoardo ci pensa un po’ su, alza lo sguardo, poi ecco, trovato, mi racconta di uno strano episodio, di un sanguinoso incontro tra sapienti, che si celebrò tanto tempo fa, in un paese molto lontano…
«In queste settimane mi sono imbattuto nella storia del Concilio di Lhasa. Ne scrive un sinologo francese degli anni Cinquanta. La storia è questa: nell’VIII secolo dopo Cristo, si radunano a Lhasa, in Tibet, i più grandi sapienti dell’Oriente. Arrivano dall’India, dalla Cina, dal Giappone. Da una parte ci sono quelli che potremmo ribattezzare i “subitisti”, cioè chi dice che all’illuminazione si può giungere improvvisamente. E poi ci sono i gradualisti, di tradizione indiana. I gradualisti sostengono che all’illuminazione si può arrivare solo seguendo delle regole, con un percorso stabilito eccetera. Subitisti e gradualisti discutono per tre anni di fila. Alla fine perdono i miei amici subitisti e loro, per la vergogna, si ammazzano, si evirano e tutto finisce in un cruento e clamoroso bagno di sangue. Finisce così, a sciabolate. È un mondo e un modo di vedere che per noi è quasi irraggiungibile. C’è qualcosa di perfino comico e di buffo in questo finale. Non è una storia stupenda?
I subitisti, devo dire, mi fanno pensare a un’altra figura che si trova nel tuo libro. La figura del sapiente come sbadato. Ovvero il sapiente che inciampa nella verità.
In un certo senso sì, è così. Per un subitista, che fondamentalmente ha un’impostazione che proviene dalla scuola tantrica, ogni aspetto della realtà è una danza di Shiva, una porta attraverso la quale ci si può liberare e trovare l’illuminazione. L’inciampo è una delle grandi regole dell’illuminazione. Ogni inciampo è un contatto profondo con la realtà. E lì c’è Shiva, c’è lo Spanda, la vibrazione universale.
Com’è arrivato questo strano libro? All’improvviso o lo incubavi da tempo?
È un libro che covavo da tantissimo. Infatti faccio sempre la battuta che ci ho messo cinquant’anni a scrivere cento pagine. Dentro ci sono tutte le cose che mi fanno compagnia fin da quando ero ragazzino. C’è un filo rosso che parte da lontano e da sempre mi suggerisce cosa devo fare, cosa devo leggere, cosa mi deve interessare. E poi c’è una motivazione più personale. Mi sono detto che valeva la pena lasciare alle mie figlie un testo che loro leggeranno, o non leggeranno, quando vorranno, grazie al quale sapranno quel che diceva e pensava loro padre a cinquant’anni. È un libro breve. Ho cercato di riportare tutto alla massima semplicità. Mi sono dato delle regole da seguire, un po’ come fece il regista Lars Von Trier con il famoso Dogma. La mia prima regola: vietato consultare altri libri mentre scrivevo. Volevo rinunciare a tutta una serie di appoggi e sicurezze.
«Faccio sempre la battuta che ci ho messo cinquant’anni a scrivere cento pagine. Dentro ci sono tutte le cose che mi fanno compagnia fin da quando ero ragazzino. C’è un filo rosso che parte da lontano e da sempre mi suggerisce cosa devo fare, cosa devo leggere, cosa mi deve interessare».
Ci sono una partenza, un crescendo e un finale…
Il libro ha una sorta di bilanciamento energetico. Tutta la prima parte è dura e compressa. Come nel Big Bang. C’è questa esplosione, poi il tempo rallenta e nella seconda parte si dilata, si libera e si manifesta. Il libro inizia con la nascita di un essere vivente, un’esplosione incontrollabile, potentissima, che tutti noi conosciamo nel momento in cui veniamo al mondo. Gli gnostici avrebbero detto che vieni gettato dentro la realtà. E nella realtà c’è tutto ciò che precede il bambino. Ci sono le lingue, ci sono le storie, ci sono i genitori, c’è la famiglia e poi ci se tu, un esserino che sta piangendo, che sta prendendo fiato. La realtà è ciò che ti sta di fronte e ti resiste. La realtà è un muro che si oppone. Nello stesso tempo la realtà è anche fame, bisogno di realtà. Ho bisogno di respirare, ho bisogno di mangiare, ho bisogno di affetto. Immediatamente noi vediamo che la realtà si muove come una sorta di contraddizione in termini. È piena e vuota nello stesso tempo. È come il respiro. Il respiro è un movimento che insieme, appunto, inspira ed espira l’aria. La prende, la lascia. È un movimento basato su una contraddizione, su una sorta di doppio vincolo schizofrenico. E la realtà s’impone come un tiranno a cui obbedire. Bisogna accettare che la persona che ti prende in braccio quando nasci o l’animaletto che ti lecca e ti offre calore, sia tua madre, sia tuo padre. Occorre accettare la lingua o i codici di comportamento. Occorre iniziare subito, industriarsi, accettare. È la prima manifestazione del potere. O mi obbedisci o stai fuori. Ma la realtà è tanto ciò che resiste, quanto chi si ribella a ciò che resiste.
A un certo punto scrivi che i carcerieri sono gli individui più importanti della nostra vita. Frase che ho trovato straordinaria. Chi sono i carcerieri?
I carcerieri sono coloro che ci danno la realtà. È la funzione carceraria della realtà. Chi ti fa obbedire è fondamentalmente un carceriere. Il carceriere è quello che ti dice «io impedisco che tu scompaia, che diventi irreale, ma tu devi accettare le regole del gioco». Quindi da un certo punto di vista, per paradosso, il carceriere è la figura più importante che abbiamo, perché è quella che ci consente di essere reali, ma a un prezzo altissimo.
Porfirio: «La vita di un sapiente è una vita sbadata»…
Quando ho letto quella frase ho fatto un salto così sulla sedia. Ma che meraviglia! Finalmente, no? Porfirio la scrive nel terzo secolo dopo Cristo, in un libro che sono le sue sentenze, ovvero una specie di super riassunto delle Enneadi di Plotino, un trattato potentissimo di tutto il pensiero neoplatonico. La sbadataggine va intesa come capacità di non dare troppo peso alla realtà, il che non significa considerare la realtà un’illusione, ma ricordarsi di non rimanere troppo attaccati alle cose. Lo sbadato è quello che arriva tardi agli appuntamenti, che è sempre un po’ altrove e tendenzialmente è una persona non competitiva.
Qual è il rapporto tra il carceriere e lo sbadato?
Se lo sbadato è davvero sbadato, probabilmente è molto difficile che incontri un carceriere. Magari ne incontra tanti, ma è così distratto che non gli dà tutto il peso, il valore che il carceriere pretenderebbe di avere. Lo sbadato è una figura walseriana. Pensa ai personaggi dei romanzi di Robert Walser. Robert Walser esce a farsi una passeggiata, incontra un sacco di gente, si toglie il cappello, saluta tutti, non dà troppo peso alla realtà, è gentile con tutti, ha un sorriso per tutti, anche se magari gli altri sono degli stronzi pericolosi e tremendi.
«Ho cercato di riportare tutto alla massima semplicità. Mi sono dato delle regole da seguire, un po’ come fece il regista Lars Von Trier con il famoso Dogma».
Da dove arriva il gattone in copertina? Anzi, prima dimmi del tuo vero rapporto con i gatti…
Vivo con tre gatti. Uno è qua (Edoardo gira la webcam verso uno dei gatti, seduto in poltrona, nda). Si chiama Ada, tutta rossa. Poi c’è la gatta nera che si chiama Amelie, ribattezzata Mimma. E poi c’è suo fratello, grigio, che si chiama Tre. A proposito di sbadataggine: qualche tempo fa Mimma era caduta dal terrazzo, cosa di cui né io né mia moglie ci eravamo accorti. Solo dopo diverse ore la sentiamo miagolare. Per recuperarla dall’anfratto in cui si era cacciata abbiamo dovuto chiamare i pompieri. Insomma, è stata una cosa lunga. Quando è tornata in casa le abbiamo dato da mangiare, l’abbiamo un po’ coccolata e abbiamo controllato che fosse tutto a posto. Poco dopo ho sentito un tic-tic-tic provenire da un’altra stanza. Ho aperto la porta e ho trovato Mimma che, come se niente fosse, stava giocando con una pallina di carta. Lì ho capito che i gatti sono dei veri maestri spirituali, dei maestri di sprezzatura.
Da dove arriva quello in copertina?
È un lavoro di Louis Wain, il più importante illustratore di gatti in epoca edoardiana, il reinventore del gatto nell’ambito della pubblicistica. Tempo fa avevo fantasticato di scrivere un libro su Wain. La sua storia personale è drammatica. Inizia a disegnare gatti per consolare la moglie malata, poi a un certo punta disegna gatti sempre più strani, trasfigurati, probabilmente in conseguenza di qualche alterazione neurologica e dell’insorgere della schizofrenia. Ho proposto a Timeo di scegliere uno dei gatti di Wain per la copertina. Corrado Melluso e Federico Antonini hanno accettato con entusiasmo. Come dice sempre Corrado, Federico ha preso il gatto poi lo ha “fritto” e ha ottenuto così l’immagine che ora è in copertina.
A proposito di gatti: nessuno ha ancora veramente capito a che cosa serve fare le fusa. Il suono delle fusa è un “drone”, un tipo di suono che in varie culture è associato a uno stato modificato di coscienza.
«Il libro inizia con la nascita di un essere vivente, un’esplosione incontrollabile, potentissima, che tutti noi conosciamo nel momento in cui veniamo al mondo. Gli gnostici avrebbero detto che vieni gettato dentro la realtà».
Qual è stato il tuo rapporto con Gianni Vattimo?
È stato mio insegnante all’università, il mio maestro, gli ho voluto bene. Non era una persona, diciamo, banalmente gioiosa, ma nascondeva una sofferenza, che si poteva cogliere. Allo stesso tempo era capace di trasmettere il sapere con vera grazia e leggerezza. Dopo la sua morte mi sono messo a rileggerlo, e l’ho assaporato in modo diverso, anche perché quando ero ancora uno studente sentivo l’ermeneutica come un peso, una gabbia.
Come hai iniziato a lavorare in tv?
E.C.: A Torino collaboravo con Adelphi, scrivevo per il Domenicale del Sole 24 Ore e per il Riformista. Un giorno mi chiama Lorenzo Mieli, che in seguito diventerà un produttore importantissimo. Mieli mi dice che legge e apprezza quello che scrivo, quindi mi propone, pur non avendo io nessuna esperienza, di condurre un programma tv di cultura, società e cazzeggio insieme a Stella Prudente, in onda sul satellite su un canale chiamato Planet 430. Su Planet 430 andavano in onda anche Luca Telese, Vittorio Zincone e Jacopo Zanchini. Mi sono subito trovato molto bene, specialmente con i colleghi.
Qual è stato l’incontro più bello fatto in tv?
Quello con la pietra gatto. Il programma si chiamava Viaggio nell’Italia del Giro. Eravamo sempre a spasso per l’Italia, insieme a un gruppo di colleghi molto affiatato. Una sera eravamo, mi pare, in Puglia, sul Gargano. Gianni Miraglia (scrittore e performer, nda) faceva parte del cast del programma, nei panni del personaggio del “forzuto”. Dopo cena, mentre saliamo in macchina, vediamo apparire Gianni con una pietra gigantesca tra le braccia, un masso di calcestruzzo. La prende e la mette in macchina. La pietra aveva delle vaghe sembianze feline. Io guardo Gianni, scoppio a ridere e in quel momento decidiamo che la pietra gatto sarebbe stata sempre con noi, che ci avrebbe seguito ovunque, nonostante pesasse una tonnellata. Con la pietra gatto realizzammo degli stop motion che poi mandammo in onda e piacquero moltissimo a un noto storico del cinema. La pietra restò a Gianni, che però voleva regalarla a me. Così me la portò in treno da Milano a Pesaro, dov’ero impegnato per un incontro con i Pop X. Gianni arrivò veramente a Pesaro con la pietra gatto. Io presi la pietra e me la portai a Roma, direttamente in radio dove ero in onda al mattino per una puntata di Pagina 3. La pietra è ancora con me. Sta qui sul terrazzo.
«La realtà è tanto ciò che resiste, quanto chi si ribella a ciò che resiste».
Dov’eri il giorno in cui la radio ha compiuto cento anni?
Forse a casa che dormivo. Come diceva Juan Rodolfo Wilcock: «Al primo accenno di impegno morale, mettersi a letto».
Da molti anni sei tra i conduttori di Pagina 3 (il programma di approfondimento delle pagine culturali e dello spettacolo in onda dal lunedì al venerdì su Radio Tre, nda). Che giudizio dai delle pagine culturali dei quotidiani?
Le trovo sempre più deludenti. Da una parte c’è una buona dose di marchette, dall’altra prevalgono l’assenza di scrittura, di stile, prevalgono meccanismi di cui dovremmo francamente liberarci, come l’istigazione all’anniversario e alla ricorrenza, per cui si scrive sempre a partire dal centenario di tizio o dal decennale di caio. Questo modo di lavorare è un prodotto della pigrizia e un riflesso della sfiducia nei confronti dei lettori. Lavorare nel servizio pubblico, per quanto mi riguarda significa rispettare l’intelligenza dei lettori. Sulle riviste on line, che ritengo parte della mazzetta al pari dei grandi quotidiani, trovo invece materiale più stimolante; trovo intellettuali, scrittori e scrittrici che scrivono di qualcosa perché quel qualcosa a loro piace e ritengono importante condividerlo con gli altri. Vale la regola di cui parla Jack London alla fine di La crociera dello Snark: «ne parlo perché mi piace». È questo il primo gesto culturale. Prova a dire qualcosa d’interessante. Accendi il tuo fuoco e aspetta che qualcuno si sieda con te intorno a quel fuoco. Mi sembra il più valido precetto di politica editoriale.
In tv c’è ancora spazio per fare cose belle?
Credo che uno spazio per fare qualcosa di bello ci sarà sempre, in tv o altrove. Dobbiamo combattere il malocchio che ci piace gettarci addosso, il disfattismo, frasi fatte come «questo non funziona» e «questo non si può fare», anche perché nessuno sa mai che cosa funziona o non funziona per davvero. La verità è che non esistono regole. Lanthimos ha iniziato a girare film con gli amici, da ragazzino, con una telecamerina, senza pensare all’ Oscar, ma per fare quello che gli piaceva. L’unica regola valida, insomma, è sempre quella di Jack London.