Chi era Gianni Sassi? Un artista, un imprenditore o il direttore di una centrale nucleare?
da Quants numero 7, novembre 2023
Le torri Isozaki, Libeskind e Hadid, nell’area di City Life, a Milano, sovrastano un parco solcato da leziosi vialetti, percorsi da runner in sneaker e giacca antivento. Uno dei vialetti è intitolato a Gianni Sassi, che però viveva da tutt’altra parte della città, nel quartiere popolare di Calvairate, al quale era molto legato. Il vialetto ora si chiama Passeggiata Gianni Sassi. Sul cartello è scritto «Passeggiata Gianni Sassi. Imprenditore culturale 1938-1993». All’inaugurazione, nel marzo 2023, era presente una piccola folla. Dare un’occhiata a chi c’era quel mattino – un po’ come guardare i necrologi sui giornali – può rivelarci qualche piccolo indizio sul conto della persona e della sua eredità. Era presente a City Life il giovane assessore alla cultura Tommaso Sacchi (forse non solo perché c’era da tagliare un nastro, ma perché Sacchi eredita il ruolo da altri amministratori milanesi, che in passato ricevettero Sassi nel proprio ufficio, per discutere, magari, il finanziamento di un manifestazione culturale, come lo fu dal 1983 al 1993 il festival MilanoPoesia); erano presenti anche l’ex tastierista degli Area Patrizio Fariselli (la passeggiata Gianni Sassi, infatti, incrocia la passeggiata dedicata a un vecchio e fraterno amico di Sassi, cioè Demetrio Stratos, il cantante, esploratore della voce umana e fondatore degli Area), Jo Squillo (che ha avuto Stratos come padrino artistico e spirituale, quando Stratos alla fine degli anni Settanta insegnava musica nel centro sociale occupato Santa Marta, frequentato da giovani punk dell’epoca, come l’editore e scrittore Marco Philopat), il discografico Roberto Manfredi, Alberto Fortis, Omar Pedrini. E poi, oltre a molti amici, c’era anche un critico e giornalista, Giordano Casiraghi, autore di un libro ricco di voci e testimonianze: Gianni Sassi, la Cramps e altri racconti (Arcana, 2023).
Negli ultimi anni si è tornato spesso a discutere del lavoro di Sassi. È accaduto in occasione di una mostra, Gianni Sassi – Uno di noi, che gli ha dedicato a Milano la Fondazione Mudima (il catalogo, magnifico, è ancora disponibile). È stato celebrato anche in una serata organizzata al Teatro Lirico, sempre a Milano, e più di recente, nell’ottobre 2023, in una due giorni organizzata per lo IULM da un ricercatore di Letteratura italiana contemporanea, Filippo Pennacchio. Una mostra su Sassi è prevista per il 2024 negli spazi dell’ADI Design Museum. È la prova del grande prestigio di Sassi e del fatto che Milano è ancora popolata di persone che hanno condiviso con lui un pezzo della propria vita. Ma chi era Gianni Sassi? Ed è corretta ed esaustiva la formula «imprenditore culturale» con cui Sassi è omaggiato a City Life?
Nel libro di Casiraghi si racconta che la famiglia di Sassi era originaria di Varese e che il padre era iscritto al PCI. Si trasferirono a Milano, nel quartiere di Calvairate, quando Sassi aveva dodici anni. Da ragazzino fu insieme al padre un diffusore del quotidiano L’Unità. Era uno di quei volontari che la domenica mattina entravano negli androni dei palazzi, salivano le scale con il pacco di Unità sotto il braccio e bussavano alle case dei simpatizzanti per portare la copia del giornale. Parte della formazione originaria di Sassi, nato nel 1938, è avvenuta nell’ambito del comunismo italiano degli anni Cinquanta. Si può dire che in un certo senso la sua prima esperienza di promozione e attivismo culturale fu al servizio del PCI, facendo pratica degli strumenti dell’egemonia gramsciana.
Tra gli epiteti affibbiati a Sassi c’è quello di «inventore del marketing culturale», formula che col senno di poi non ne onora del tutto la figura. O forse sarebbe più interessante rendere giustizia al marketing culturale, ripensandolo a partire dalla libertà e dal gusto per la ricerca e la sorpresa che furono del suo presunto scopritore.
Nel 1962 Gianni Sassi fonda insieme all’amico Sergio Albergoni un’agenzia pubblicitaria. Si chiama Al.Sa. Albergoni è il copy e Sassi è l’art director. Il boom economico non si è ancora esaurito e in Parlamento governa una coalizione Dc-Pri-Psdi, guidata da Amintore Fanfani, capace di scelte oggi impensabili come la nazionalizzazione della rete elettrica. I clienti di Al.Sa. saranno, tra gli altri, marchi come Polistil (vende giocattoli, e prima si chiamava Politoys), Busnelli (arredamenti), Iris (ceramiche), Moët & Chandon (i famosi champagne). Per le campagne delle automobiline Polistil, Sassi e Albergoni nel 1969 coinvolgono come testimonial Paola Pitagora. Pitagora è un’attrice colta e popolare. Nelle foto ha occhi grandi e magnetici, che sembrano rivelare l’esistenza di un vasto mondo interiore e morale. Nel 1965 ha recitato nello scabroso I pugni in tasca di Marco Bellocchio e nel 1967 è stata Lucia Mondella nell’adattamento tv de I promessi sposi. È una frequentatrice della sinistra extraparlamentare e delle avanguardie (è legata sentimentalmente a Renato Mambor, pittore della pop art romana). Quindi, che c’entra Paola Pitagora con i maschi di otto anni e le macchinine giocattolo di Polistil? Pitagora posa per diverse immagini e viene usata in modo ironico, straniante, sempre accompagnata dai copy e dalle onomatopee di Albergoni, che virano il messaggio in direzione dell’assurdo. La proposta di Sassi e Albergoni è un’operazione in vago odore di surrealismo, ancora possibile in un mondo della pubblicità dove sono concessi un margine per sperimentare e un certo grado di scapigliatura. E dove, evidentemente, l’imprenditore – forse inesperto e campagnolo, come i cumenda ritratti nella commedia all’italiana – ascolta con riguardo l’intellettuale, che magari ogni tanto si prende gioco del cliente, pur di mettere in circolo qualche idea e un pizzico di caos. Lavorare giocando è consentito. Alla voce che critica, Sassi e Albergoni rispondono: «è importante andare un pochino più in là, perché può essere utile guardare dietro l’angolo». In un certo senso, la sfida di Gianni Sassi è vinta, laddove, invece, cede alla rassegnazione lo scrittore grossetano Luciano Bianciardi, che proprio nel 1962 è autore del libro più amaro sull’industria creativa e culturale milanese: il romanzo La vita agra. Come se in Sassi la milanesità predisponesse a quel fare instancabile e a quella fiducia nell’azione che mancano in Bianciardi, salito a Milano da una remota provincia toscana, dov’erano rimasti a vivere la moglie e i figli.
Sempre nel 1962 Gianni Sassi fonda a Calvairate un circolo culturale intitolato all’antifascista Giaime Pintor. Con lui c’è Mario Spinella, scrittore e letterato, di diverse generazioni più vecchio (Spinella fu addirittura segretario di Palmiro Togliatti). La vita di Sassi si svolge in buona parte a Calvairate e tra i tavoli del Lucky Bar di via Tito Livio, che diventa un secondo ufficio notturno, il suo quartier generale. Nel corso del tempo il Lucky Bar si trasforma in un porto di mare frequentato da artisti e intellettuali. Tra le tante complicità e alleanze strette da Sassi forse la più illuminante è quella coltivata con il personale del Lucky Bar: baristi, camerieri, tutti coinvolti e trascinati nei suoi cenacoli e nei suoi esperimenti culturali. Sassi fuma fino a tre pacchetti di Nazionali al giorno e indossa un cappello Borsalino con tre fiammiferi inseriti nella fascia. Fra gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, l’attività di Sassi è febbrile ed esplode in più direzioni. Il suo lavoro come art director (appreso da autodidatta) lascia un segno profondo nella storia della comunicazione. È un creatore di mondi, ambienti, estetiche, immaginari; ed è un propiziatore di scambi e occasioni che legano fra loro artisti, intellettuali e tecnici della comunicazione. All’inizio degli anni Settanta Sassi e Albergoni collaborano con l’etichetta discografica Bla Bla ed è in quel periodo che incontrano Franco Battiato, all’epoca coinvolto in una band, gli Osage Tribe. Durante un servizio fotografico per la promozione del disco, il volto di Battiato viene dipinto col Ducotone, la vernice bianca usata per le pareti di casa. L’idea è di Sassi. Battiato viene oggettificato, profanato, usato come un manichino e trasformato in una sorta di spettro glam rock, e poi fotografato mentre siede a gambe incrociate su un divano della serie Hidalgo di Busnelli. Nei giorni successivi si ritrova, suo malgrado, senza saperlo, testimonial di una ditta di arredamento. Lo slogan, scritto da Albergoni, dichiara: «Che c’è da guardare? Non avete mai visto un divano?».
È come se il nome di Gianni Sassi, che oggi intitola un vialetto a due passi dall’attico di Fedez e Chiara Ferragni a City Life, indicasse l’imbocco di un sentiero per il lavoro culturale che si smarca dall’infelicità e dalla sconforto patiti da Luciano Bianciardi e che non sfocia in nessuna prospettiva apparentabile con l’influencing di oggi.
Nel 1972 Sassi e Albergoni cambiano settore e creano una propria etichetta discografica, forse la più importante etichetta indipendente nella storia della discografia italiana. Si chiama Cramps. Di musica Sassi conosce poco o nulla, ma guidato dall’istinto immagina che in Italia ci siano un mercato e un pubblico pronti per un pop alternativo e per la musica colta e d’avanguardia. Se invece quel pubblico ancora non esiste o non è maturo, Sassi pensa che può essere incoraggiato, pungolato, estratto dal grembo viscido in cui si sta formando. Sassi e Albergoni, firmandosi Frankenstein (avendo entrambi il mito di Frankenstein, con tanto di poster in ufficio), scrivono i testi del primo disco degli Area, che s’intitola Arbeit macht frei, citando provocatoriamente la scritta all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Fariselli degli Area racconta a Casiraghi che Sassi era a tutti gli effetti parte del gruppo. Quando Stratos morirà nel giugno del 1979, ad appena 34 anni, verrà convocato un concerto-omaggio all’arena civica di Milano. Partecipano moltissimi artisti, diversi e distanti tra loro, ma uniti nella celebrazione del cantante (Casiraghi, che fu organizzatore a Monza del suo ultimo concerto, gli dedica alcune pagine toccanti): dagli orfani Area a Toni Esposito, da Branduardi, Venditti e Teresa De Sio a Eugenio Finardi e i Kaos Rock. Per il manifesto della serata, Sassi ha un colpo di genio, che è tanto uno sberleffo quanto la felice invenzione di un artista plastico: una pagina di Tv Sorrisi & Canzoni spiegazzata, appallottolata e maltrattata fino a prendere la forma di un cuore.
Fra gli anni Settanta e Ottanta Sassi fonda riviste come Alfabeta e l’enogastronomica La Gola – Mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale. Se da una parte La Gola può sembrare una ricerca che si orienta verso lidi più intimi, casalinghi, edonistici ma temperati, apparentemente disimpegnati e in sintonia con gli anni Ottanta del riflusso, dall’altra è un prodotto editoriale che anticipa la filosofia del cibo portata al successo da Slow Food (e oggi sfruttata nelle campagne di marketing territoriale più dozzinali). In precedenza aveva fondato Humus e Caleidoscopio, esempi di house organ eccentrici, pensati rispettivamente per il Gruppo Ceramiche Iris e per Busnelli. MilanoPoesia è invece un festival di cultura, arte e letteratura proseguito per dieci anni, dal 1983 al 1993. Poi nel 1993, ad appena cinquantacinque anni, Sassi muore, stroncato da un male incurabile. Al funerale è presente anche lo scrittore Giuseppe Genna. In uno dei suoi primi libri, Assalto a un tempo devastato e vile, Genna racconterà che Sassi era un provetto ballerino, proprio come il libraio ed editore milanese Primo Moroni. I due andarono insieme ad Amsterdam per partecipare a una gara internazionale di ballo fox-trot. Ballarono per giorni. Moroni vinse la gara e anche una Porsche. Scorrazzarono in Porsche per altrettanti giorni, poi finalmente tornarono a Milano, ma fusero il motore proprio in piazzale Ferdinando Martini, a Calvairate.
Sassi appare come l’incarnazione di uno strano e raro caso di calvinismo, dove il principio di piacere fu più forte del senso del dovere.
È come se il nome di Gianni Sassi, che oggi intitola un vialetto a due passi dall’attico di Fedez e Chiara Ferragni a City Life, indicasse l’imbocco di un sentiero per il lavoro culturale che si smarca dall’infelicità e dalla sconforto patiti da Luciano Bianciardi e che non sfocia in nessuna prospettiva apparentabile con l’influencing di oggi. Sassi portava con sé un’eredità e viveva in un determinato clima: era un figlio del dopoguerra, del popolo comunista e di un quartiere vivo; era un ventenne all’epoca del boom economico e soprattutto aveva intorno a sé una comunità e una generazione, e perciò dentro di lui non poteva che soffiare un certo spirito dei tempi. Nel libro di Casiraghi un vecchio amico di Sassi, il presidente della fondazione Mudima Gino Di Maggio, riferisce che «Gianni era in un certo senso il più calvinista tra noi, ma non ha mai lavorato per accumulare denaro, bensì per il puro desiderio di fare, intraprendere, organizzare. Certo gli piaceva il ruolo dell’imprenditore, era ambizioso come tutti noi, ma non si discosta da quel suo interno rigore etico verso la vita. Non amava avere, amava essere».
Fra gli epiteti affibbiati a Sassi c’è quello di «inventore del marketing culturale», formula che col senno di poi non ne onora del tutto la figura. O forse sarebbe più interessante rendere giustizia al marketing culturale, ripensandolo a partire dalla libertà e dal gusto per la ricerca e la sorpresa che furono del suo presunto scopritore. Secondo Eugenio Finardi (che pubblicò con la Cramps tutti i suoi primi dischi), Sassi era come il direttore di una centrale nucleare: «[…] metteva una barra di Finardi, una di Marchetti e Area e osservava la reazione a catena». La Cramps è la centrale nucleare dove giovani come Finardi e Alberto Camerini entrano in contatto con figure come Nanni Balestrini e John Cage.
Un’altra voce testimonia il rapporto di Sassi con il lavoro. È quella di Viviana Bucci, figlia di Franco Bucci, designer del Gruppo Ceramiche Iris. Bucci ricorda che «serio» e «professionale» erano tra le parole più ricorrenti nelle chiacchiere dell’imprenditore culturale. L’ex moglie Sandra Gasparinetti, intervistata da Casiraghi, lo ricorda con affetto. I due si conobbero al Lucky Bar, dove Sandra, figlia del titolare. Riconosce che sulla rottura coniugale tra i due pesò anche la scelta di Sassi di non avere figli. Forse perché era troppo preso dal lavoro. Leggendo i tanti racconti sbobinati da Casiraghi, Sassi appare come l’incarnazione di uno strano e raro caso di calvinismo, dove il principio di piacere fu più forte del senso del dovere.