Produci consuma crepa. Sbattiti fatti crepa. Riempiti di borchie, rompiti le palle, cotonati i capelli, rasati i capelli, crepa crepa crepa.

Interno4 edizioni

40 anni di CCCP Fedeli alla linea

da Quants numero 7, novembre 2023

Era il 1983. Era il 1983 di “Vamos a la playa” sulle radio d’estate e del Drive In alla tivù in autunno quando nei circoli dell’underground italiano iniziò a circolare la cassettina demo di una band sicuramente punk, tendente all’hardcore – i pezzi erano urlati e in almeno un paio di casi tirati oltre i duecento battiti al minuto –, però con la particolarità assai poco italiana di non avere un batterista, ma una batteria elettronica. Era invece il 1984 di Orwell quando due dei pezzi di quella cassettina diventarono un 45 giri stampato dalla molto effervescente etichetta bolognese Attack Punk Records. In copertina c’era scritto “Ortodossia”, mentre sul retro una didascalia bianca ammoniva: “prezzo massimo lire 3.000” (in quel tempo i 45 giri stampati in Italia venivano sulle 3.500 lire). I CCCP Fedeli alla linea erano ufficialmente nati, anche se ci vorranno altri dodici mesi – e una ristampa di Ortodossia, unita a un nuovo singolo “picture disc” dal meraviglioso titolo Compagni, cittadini, fratelli, partigiani – perché il nome passi dai circuiti cosiddetti antagonisti alle pagine degli allora vendutissimi settimanali di costume tipo L’Espresso e Panorama. Avanti veloce di circa quarant’anni: 12 ottobre 2023, ai Chiostri di San Pietro, Reggio Emilia, inaugura la mostra Felicitazioni! CCCP Fedeli alla linea 1984-2024 (in cartellone fino al prossimo 11 febbraio). Nelle foto della vernice i quattro CCCP – Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, la soubrette Annarella Giudici e l’artista del popolo Danilo Fatur – sono bellissimi: ognuno invecchiato in un suo modo peculiare, nessuno in quelle maniere feroci o grottesche che noialtri, di poco più giovani, spiamo con terrore nello specchio o nelle foto dei conoscenti di Facebook.

Difficile calcolare l’esatta distribuzione dei significati dentro ’sto quarantennale. Quanta nostalgia? 50%? E quanto desiderio di trasmissione verso le nuove generazioni? Quanto “no future”? (Nel senso del tempo che ha smesso di evolversi, incagliato com’è in cicli di revival sempre più stretti). A questo punto c’è sempre qualcuno che dice, in genere con grande sussiego, che “Ferretti già era vecchio allora, nel 1984”. Verissimo: Ferretti è l’unica rockstar italiana (ma mica solo italiana) per cui il tempo è un incidente relativo. Questo però lo si deduce solo studiando la sua biografia come fosse quella di un santo, o di un martire. Giovanni Lindo nasce nel settembre 1953 a Cerreto Alpi, una frazione dell’Appennino reggiano dove neanche l’avvento della televisione riuscì a scalfire la dimensione contadina. Nasce pochi mesi dopo la morte del padre per una peritonite, e cresce felicemente selvaggio in mezzo alla natura, allevato principalmente da una amatissima nonna. L’arrivo dell’età scolare irrompe come una fiaba di Heidi alla rovescia, con Giovanni Lindo tradotto in città, dentro un collegio dai ritmi rigorosissimi, dove l’unico rifugio sono le letture, vaste (per quanto potessero esserlo in un collegio cattolico) e ossessive. L’adolescenza, che coincide col famoso Sessantotto, lo mette in contatto coi primi capelloni di Reggio Emilia, che lo affascinano per il senso di libertà che sembrano incarnare. Sfugge d’un soffio la morte per la medesima patologia che uccise suo padre, all’insaputa della madre s’iscrive alla FGCI (la federazione dei giovani comunisti italiani), legge Lotta Continua, frequenta il DAMS, scopre i Roxy Music (anche se il primo concerto in assoluto cui s’intrufolò furono i fricchettonissimi Jethro Tull). La sua fiducia nella politica crolla nel 1977, a Bologna, durante i giorni del Convegno nazionale contro la repressione; mentre ragiona su che fare della propria vita, per una serie di coincidenze fortuite viene arruolato dalla USL di Reggio Emilia come operatore psichiatrico. Lo sarà fino al 1982, anno nel quale decide di andare a fare il punk a Berlino.

Erano punk con la batteria elettronica, come si è detto, e questo – nell’Italia musicale diffidente verso tutto ciò che odorasse anche solo lontanamente di disco music – li metteva automaticamente dalla parte del torto.

Un punk nel quale, guardandolo in controluce, s’intravede perfettamente il lascito delle generazioni precedenti, dunque le radici contadine – anche nei momenti di maggior distanza Cerreto Alpi rimarrà sempre il suo porto sicuro – e pure la fede religiosa. Il che ci porta all’oggi; al controverso (secondo alcuni) oggi. Ferretti che nel 2015 è ospite di Atreju, la manifestazione della corrente giovanile di Fratelli d’Italia (uno scatto con la futura premier Giorgia Meloni tornerà ovviamente molto di moda nell’autunno 2022); Ferretti che in un’intervista al Fatto (19 ottobre 2022) dichiara di averla pure votata, Meloni, e cha dal giorno in cui è stata eletta «…tutte le mattine le dedico una preghiera». Però pure Ferretti che nella stessa intervista dice: «Io sono profondamente antifascista, sono antifascista da secoli. Questa dove abito è una casa di un antifascismo viscerale». E poi Ferretti cattolico non esattamente progressista («Quando il cardinale Ratzinger è diventato Papa mi sono inginocchiato davanti alla televisione piangendo per la commozione, la gioia»: L’osservatore romano, 6 gennaio 2010) e naturalmente Ferretti antiabortista. I vecchi fan sbuffano, sminuiscono, fanno battute, sopportano. Qualcuno (per fortuna) ne rileva però la profondità d’uomo pur nella sconfinata differenza di vedute, si rallegra per il vecchio punk che ha trovato una sua dimensione di pace, e talvolta ravvisa pure un’interessante continuità col desiderio di assoluto che si leggeva in certe righe dei CCCP.

Anche visti e vissuti in tempo reale, i CCCP furono un’anomalia ben strana da digerire. Erano punk con la batteria elettronica, come si è detto, e questo – nell’Italia musicale diffidente verso tutto ciò che odorasse anche solo lontanamente di disco music – li metteva automaticamente dalla parte del torto. (Tranne per quelle frange con un po’ meno di prosciutto sugli occhi, che ne coglievano la prossimità con certe cose tedesche parecchio marziali e bellicose, tipo Deutsch Amerikanische Freundschaft ed Einstürzende Neubauten). Rivendicavano una sorta d’impegno – si definivano “punk filosovietici” perché “stanchi di vivere all’americana” –, solo non si capiva quanto fosse una posizione seria e meditata e quanto una posa satirica. Si facevano precedere da volantini talmente zeppi di parole da ricordare certi ciclostili del decennio precedente. I fratelli punk, ultima sottocultura engagé nell’era del disimpegno post-politico anni Ottanta, li guardavano con sospetto; i cugini new waver erano incuriositi, ma anche guardinghi verso certa retorica extraparlamentare percepita come teatrale e roboante. Alla fine quelli che abboccheranno con più gusto saranno i giornali patinati, cui non pareva vero trovarsi un’etichetta già bella e pronta (“filosovietismo!”) per circoscrivere e trasformare in trend un sentimento di maggiore rilassatezza e superamento della guerra fredda che già da diverse parti s’iniziava a respirare: il KGB dal volto più o meno umano di Gorky Park (film del 1983 diretto da Michael Apted, e tratto dal romanzo di Martin Cruz Smith); la classica storia di asilo politico in Mosca a New York di Paul Mazursky (1984, meglio però il titolo originale Moscow on the Hudson), le storie simmetriche di defezione russo-statunitense dell’ottimo Il sole a mezzanotte di Taylor Hackford (1985); i Frankie Goes to Hollywood che sulla copertina del singolo “Two Tribes” schiaffano un murale di San Pietroburgo raffigurante Vladimir Lenin (e nel relativo videoclip mettono in scena una lotta nel fango tra i sosia di Ronald Reagan e Konstantin Černenko). E, per tornare a casa nostra, la splendida macchietta tv del venditore comunista di pedalò Maurizio Ferrini dentro Quelli della notte di Renzo Arbore, che vista anche la calata emiliana era una specie di doppelgänger di Ferretti e soci (pure l’assonanza Ferretti/Ferrini!).

I CCCP ci hanno fatto il dono di capire che il punk non è una lezione di cultural studies né una ristampa gatefold in vinile bianco ed edizione limitata. È anche quello, certo, ma dopo: in origine è una roba che non dovrebbe esattamente rassicurarti. Non dovrebbe farti uscire uguale a com’eri entrato.

Del resto: la glasnost’ e la perestrojka volute da Michail Gorbačëv muovono i primi passi tra il 1985 e il 1986; il 9 novembre 1989 cade com’è noto il Muro di Berlino. In mezzo, c’è l’intera storia dei CCCP; che in una delle prime interviste mainstream (a Pier Vittorio Tondelli su L’Espresso) dichiarano: «Scegliamo l’Est per ragioni etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo, alla plastica l’acciaio» (ma puntualizzano anche: «Siamo filosovietici e non filorussi»). Tormentone, quello del filosovietismo, che li accompagnerà fino al 1987 («Siamo, certo, filosovietici e in qualche modo siamo i nipotini di Togliatti, per questioni di età. Siamo emiliani spudoratamente legati alla nostra regione forse perché essa stessa è la più filosovietica delle province dell’impero»): anno della firma con la major discografica Virgin Records, accolta dai fan della prima ora con la serenità che si può immaginare. La temuta svolta “commerciale” è in realtà un colpo di teatro magistrale: il singolo “Oh! Battagliero” è a tutti gli effetti un pezzo di liscio («Un grande valzer emiliano che farebbe invidia a Casadei» dichiararono ai tempi i diretti interessati), foderata da una copertina dal lettering littorio (ops!) dove Fatur era una specie di insetto umanoide steampunk con falce e martello in mano, mentre il lucidissimo testo perculava – fra gli altri – gli stessi fan dei CCCP («Battagliero / un giaccone color nero marca la diversità»).

Ma il momento più bizzarro di una carriera già parecchio eccentrica sarebbe arrivato nel 1988, quasi un anno dopo la pubblicazione dell’album Socialismo e barbarie, ovvero il duetto con la disco queen Amanda Lear nella cover della sua hit del 1977 “Tomorrow”. Operazione fantastica dal punto di vista dell’esplorazione dei paradossi del mercato pop (l’emancipatissima Amanda era, nel mondo dei lustrini, tanto punk quanto i CCCP) ma suicida rispetto alla difendibilità “artistica” di fronte ai già citati fan in giaccone color nero: e questo nonostante avvenisse nel momento di minima fascinazione collettiva per le anticaglie disco pop, e quindi in fondo fuori da qualsiasi possibile imputazione di opportunismo retromaniaco. (Fra l’altro: nelle intenzioni originali la cover e il duetto sarebbero dovuti essere Pensiero stupendo con Patty Pravo…). Un paio di apparizioni televisive in contesti un po’ troppo sbrilluccicanti furono abbastanza per far esplodere le accuse d’esser diventati “fedeli alla lira”, e rendere definitivamente turbolenti i rapporti tra la band e il suo pubblico. Rapporti che entreranno definitivamente in crisi durante la seconda edizione del festival Arezzo Wave, il 22 aprile 1988, al Palasport “Le Caselle” di Arezzo, quando il pubblico – cinquemila e più persone venute per sentire “Spara Jurj, spara” ed “Emilia paranoica” – si trovò di fronte ad Allerghía, “atto unico di confusione umana” aperto da Annarella con le profetiche parole «Arezzo mi attrezzo per il tuo disprezzo», e in cui l’unico momento “musicale” sarà Ferretti che – dopo aver precisato: «Non siamo qui per fare le cose che voi vi aspettate» – intona il canto alpino della prima guerra mondiale “Il testamento del capitano”…

In We Are Who We Are – la serie tv creata e diretta da Luca Guadagnino – il gruppo di fluidissimi (per etnia, genere e visoni del mondo) protagonisti e protagoniste balla come pazzi su “Emilia paranoica”, in un modo zero lezioso che ne coglie per contro perfettamente il senso selvaggio e liberatorio.


«Il NO FUTURE dei punk ha un passato remoto e una storia recente e si impone come comportamento, contro qualsiasi ideologia, riconosciuto e fatto proprio da infimi gruppi di giovanissimi ovunque. L’alienato mentale, come si usava – osava? – dire, è la più bassa condizione umana possibile in questa civiltà. Bene. Le forme estetiche che fanno di un uomo un matto sono la convenzione base e unica del punk. Il punk è visivamente un alieno. C’è dell’altro. Per i matti le catastrofi possono essere un sollievo perché alleggeriscono la pressione psichica che la società esercita in modo intollerabile su di loro. Per i punk le catastrofi sono lo scenario sociale futuro, se non lo scenario quotidiano personale».
(Da un volantino del 13 aprile 1987, che in effetti dice tutto quello che c’era da spiegare sui CCCP).

Come la rivoluzione, il punk è bello e lindo – con la elle minuscola – quando lo leggi sui libri, e scomodo quando ti ci trovi in mezzo (un momento di simpatia retroattiva per quei cinquemila che nel 1988 andarono per sentire “Emilia paranoica” e trovarono il libro di storia dei loro nonni). I CCCP ci hanno fatto – a noi che li abbiamo visti in tempo reale, e forse un po’ anche ai millennial venuti subito dopo – il dono di capire che il punk non è una lezione di cultural studies né una ristampa gatefold in vinile bianco ed edizione limitata. È anche quello, certo, ma dopo: in origine è una roba che non dovrebbe esattamente rassicurarti. Non dovrebbe farti uscire uguale a com’eri entrato. Il punk non è neanche una mostra, certo: non fosse che una mostra adesso c’è («Non una collezione di cimeli o ricordini, ma una grande immagine attrattiva in ogni stanza adatta a rubare il primo sguardo, incoronata da tutta una serie di sorprese a espandere il discorso», la descrivono i diretti interessati).

Dovessimo scegliere un’immagine da portar via da Felicitazioni! (e dal notevole catalogo a corredo), forse la scelta cadrebbe su quel bianco e nero di Ferretti giovanissimo e allucinato con giacchetta scura dove spicca la scritta home made “me ne frega”. Volessimo stampare una t-shirt con su una frase dei CCCP da regalare ai nostri figli o nipoti, avremmo solo l’imbarazzo della scelta: «Non studio non lavoro non guardo la TV, non vado al cinema non faccio sport» (“Io sto bene”); «Produci consuma crepa» (“Morire”); «Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio un piano quinquennale la stabilità» (“Live in Pankow”). Servisse invece un appiglio per dimostrare come i CCCP appartengano alla modernità tutta e non solo al loro specifico frame spazio-temporale, beh, c’è pure quello: la scena in We Are Who We Are – la serie tv creata e diretta da Luca Guadagnino – dove il gruppo di fluidissimi (per etnia, genere e visoni del mondo) protagonisti e protagoniste balla come pazzi su “Emilia paranoica”, in un modo zero lezioso che ne coglie per contro perfettamente il senso selvaggio e liberatorio. Senza nessuna zavorra di nostalgia e cultural studies. «Aspetto un’emozione sempre più indefinibile, sempre più indefinibile», come cantavano i CCCP. «Da Reggio a Parma, da Parma a Reggio, a Modena a Carpi, a Carpi al Tuwat, a Carpi al Tuwat, a Carpi al Tuwat».

Ha scritto libri ("Discoinferno", "Oh oh oh oh oh: i Righeira la playa e l’estate 1983"), vicediretto giornali (Rolling Stone Italia), condotto programmi su Radio2 Rai ("Planet Rock", "Suoni & Ultrasuoni" e "Weekendance"), creato format di music streaming (TIMmusic) e content per voice assistant (SOLO).