Nel suo ultimo libro Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri (Il Saggiatore, 2023) lo scrittore britannico Geoff Dyer riflette sul polimorfismo di due delle idee più universali – e temute – dell’esperienza umana: l’invecchiamento e la fine.
da Quants numero 10, febbraio 2024
Ci sono due concetti che, al contrario di quella inglese, la lingua italiana esprime usando la stessa parola. Mentre gli anglosassoni possono distinguere tra “latest” e “last”, noi dobbiamo accontentarci dell’aggettivo “ultimo” per definire sia l’elemento più recente di una serie, sia quello che alla serie stessa mette fine. Una sovrapposizione non da poco, che spinge la mente degli italofoni a elaborare come potenzialmente senza seguito qualsiasi cosa con cui si entri in contatto.
La “finitudine” di tutto ciò che orbita nel percorso dell’esistenza umana, individuale e universale, è, probabilmente, il primo grande pensiero filosofico con cui ci scontriamo, quando veniamo al mondo. Intrinsecamente legato alla nozione di mortalità — il grande sotteso della vita stessa, con cui siamo costretti ad avere a che fare in ogni istante della nostra esperienza terrena — l’idea di “fine”, di interruzione, di imperpetuità, di limite, di distacco è tuttavia una delle più difficili da accettare. Un pasto, un film, una serata, un’abitudine, una relazione, una carriera, una vita: dalla nascita alla morte, ogni componente del nostro quotidiano, anche se a volte solo momentaneamente, finisce. Imparare a elaborare questi traumi, far sì che col passare del tempo perdano posizioni sulla scala delle priorità per lasciare le prime ad accadimenti di portata sempre più grande e importante, rientra nel fisiologico percorso di crescita e maturazione di una persona. Un’esperienza condivisa, che però l’unicità dei punti di vista e delle inclinazioni di ognuno rende infinitamente diversa e irripetibile nell’assegnazione del peso e della rilevanza degli elementi sulla scala.
La “finitudine” di tutto ciò che orbita nel percorso dell’esistenza umana, individuale e universale, è, probabilmente, il primo grande pensiero filosofico con cui ci scontriamo, quando veniamo al mondo.
Geoff Dyer, per esempio, ha deciso di intitolare il suo ultimo lavoro (nel senso di più recente) Gli ultimi giorni di Roger Federer, nonostante del campione di tennis svizzero si parli ben poco al suo interno.
Non solo: come racconta l’autore stesso, la scintilla che ha dato il via alla stesura del manoscritto è scoccata il 10 gennaio 2019, durante la conferenza stampa in cui un altro numero uno della racchetta, il britannico Andy Murray, ha annunciato la possibilità di un ritiro dai campi. L’idea, nata da questo evento inatteso, sarebbe stata quella di raccontare i momenti finali delle carriere di diverse personalità che si sono distinte nella loro pratica, e di completare l’opera prima del ritiro di King Roger. Missione compiuta: quando Darth Federer ha giocato la sua ultima partita, il 23 settembre 2022, il libro era già sugli scaffali inglesi da quattro mesi e mezzo.
Prima di Dyer, Roger Federer era stato un’ossessione per un altro scrittore (ed ex promessa del tennis): David Foster Wallace. Lontanissimo nel tempo dall’era del declino (se così si può chiamare l’ultimo periodo sul campo dello Swiss Maestro), nel lungo saggio/reportage pubblicato nel 2006 sul New York Times con il titolo Roger Federer come esperienza religiosa, l’autore americano supera – come sempre – la cronaca sportiva per raccontare lo spazio trascendente in cui il giocatore trasporta gli spettatori che hanno la fortuna di vederlo in azione di persona. Perché, come ricorda in apertura, «il tennis in tv sta al tennis visto dal vivo come un video porno sta alla realtà sentita dell’amore umano».
I tre motivi per cui il tennis, e in particolare quello giocato dal prodigio di Basilea, sia stato uno degli interessi più forti per Wallace lo racconta in modo ineccepibile Marco Belpoliti nel suo commento, per Doppiozero, proprio a quel saggio: «La prima ragione risiede nell’analogia sottile che esiste tra tennis e scrittura letteraria: entrambi giochi solitari, fondati sul talento e sull’estro, attività fortemente individualiste, basate su piccoli colpi, agilità improvvise e eventi minuscoli che cambiano il corso di un’intera partita, o di un romanzo. Per Foster Wallace (e Federer) il tocco è tutto. La seconda ragione è detta nelle prime pagine del libretto: la bellezza. L’obiettivo dei giochi di competizione non è la produzione di bellezza, ma praticato ad alto livello, lo sport produce bellezza: quella del tennis è la “bellezza cinetica”, quella della scrittura la “bellezza morale”. La terza ragione riguarda il corpo, com’è detto nella prima nota (D. Foster Wallace è scrittore di lunghe note): Federer mostra come con il corpo umano, destinato a morire, si può produrre qualcosa di metafisico; Federer si sottrae alle leggi della fisica coi suoi colpi.» Se a questo paragrafo sostituissimo il nome dello scrittore americano con quello dell’autore del libro di cui stiamo parlando, non ci sarebbe nessuna discrepanza. Il quarto motivo, quello che ha spinto Dyer nel suo intento, Wallace non ha mai potuto conoscerlo. Il modo in cui il campione ha affrontato il viale del tramonto, la grazia con cui ha accettato le sconfitte, l’aver continuato a giocare anche dopo aver perso il primo posto nel ranking mondiale – perché innamorato dello sport, della disciplina, della vita sui e intorno ai campi, sono arrivati molti anni più tardi della fine che lo statunitense ha scelto per la sua esistenza.
Prima di Dyer, Roger Federer era stato un’ossessione per un altro scrittore (ed ex promessa del tennis): David Foster Wallace.
Se David Foster Wallace pensava al tennis giocato più come a un esercizio di trigonometria che a una performance atletica, Geoff Dyer si affida alla precisione e al simbolismo dei numeri per la struttura del suo manoscritto. Le fonti di ispirazione dietro l’impianto formale sono tre, all’apparenza molto distanti, eppure capaci di creare una coerenza inscalfibile: Friedrich Nietzsche – che è anche la figura a cui è dedicato più spazio nella narrazione – e i loop del suo eterno ritorno; William Basinski, con la progressiva dissoluzione fisica e sensoriale dei Disintegration Loop; e The Clock di Christian Marclay con la sua ricostruzione potenzialmente infinita dello scorrere del tempo. Così, il libro si articola in tre parti – che l’autore assicura nulla hanno di attinente ai tre canti danteschi, anche se è difficile crederci – ognuna suddivisa in sessanta sezioni, il numero per antonomasia dell’unita di misura del tempo – i secondi che formano un minuto, i minuti che riempiono un’ora. Le narrazioni e le progressioni di argomenti, che ricorrono e ritornano in innumerevoli loop, si snodano in ottantaseimilaquattrocento parole esatte: una per ogni secondo che compone un giorno. Un gioco sagace che l’autore non si è imposto a priori, ma che è nato in relazione spontanea con il materiale e il contenuto, e che culmina in un epilogo, un post scriptum che non serve solo ad arrivare al numero perfetto di battute, ma soprattuto per omaggiare la necessità di addenda tipica della produzione nietzschiana.
Le cose che finiscono, le ultime opere degli artisti e il tempo che fugge sono gli interstizi che Geoff Dyer va a scandagliare. Le carriere che deragliano, l’ostinazione di chi non lascia il suo posto nonostante una sopraggiunta e palese incapacità più o meno senile, i lunghi addii, le morti improvvise. L’arte, la letteratura, la musica, lo sport: le passioni dell’autore diventano il terreno per una ricerca che si muove tra serietà e umorismo, come tra fiction e non-fiction. «Quando ho iniziato a pensare di scrivere questo libro avevo appena letto Slightly Exaggerated di Adam Zagajewski», racconta Dyer a Mark Ford in un incontro per la London Review of Books. «In cui non c’è un tema unificante, non capivo se fossero pezzi del suo diario o saggi che aveva scritto. Non si capiva cosa stessi leggendo se non che era tenuto insieme da questa incrollabile dedizione alla vita delle idee. Ovviamente c’erano alcuni pensieri fissi a cui continuava a tornare, riguardo alla religione e così via, ma mi piaceva l’idea che il libro fosse in realtà solo un contenitore della coscienza dell’autore; che ci fosse un soggetto nozionale ma la chiave fosse proprio la coscienza autoriale».
Le carriere che deragliano, l’ostinazione di chi non lascia il suo posto nonostante una sopraggiunta e palese incapacità più o meno senile, i lunghi addii, le morti improvvise. L’arte, la letteratura, la musica, lo sport: le passioni dell’autore diventano il terreno per una ricerca che si muove tra serietà e umorismo, come tra fiction e non-fiction.
E la coscienza autoriale, dietro il soggetto nozionale della fine, in questo caso è quella di un uomo che, a sessantacinque anni, si rende conto di stare invecchiando, e vuole analizzare – forse per esorcizzare – tutti i modi in cui i suoi punti di riferimento culturali hanno affrontato questa ultima parte della propria vita. Per questo, la produzione ultima degli artisti diventa il tema centrale e fondante del testo. La differenza tra “lateness”, la tardività, e “lastness”, l’essere ultimo, è uno dei paradossi su cui indugia più spesso, riconoscendo come ci siano casi in cui grandissimi artisti sono arrivati alle loro ultime opere senza che queste fossero tardive, quindi senza la possibilità di riflettervi con una percezione più matura; e di come, nei casi opposti, una debilitazione possa essere la chiave d’accesso per una produzione artistica superiore, che possa andare oltre alla giustezza di quando si è al massimo delle potenzialità tecniche e fisiche – ragionamento che applica sia alla voce di artiste come Billie Holiday e Maria Callas, sia alla palette cromatica dei dipinti di un anziano William Turner, più gialla e pastosa. Ed è sicuro quando afferma che bastano singoli momenti di incommensurabile grandezza a sostenere la sofferenza della loro irripetibilità nel corso di una vita: il gol di Maradona contro l’Inghilterra ai Mondiali del Messico nel 1986, per esempio, o Sulla Strada di Jack Kerouac.
La coscienza autoriale, dietro il soggetto nozionale della fine, in questo caso è quella di un uomo che, a sessantacinque anni, si rende conto di stare invecchiando, e vuole analizzare tutti i modi in cui i suoi punti di riferimento culturali hanno affrontato quest’ultima parte della propria vita.
«Se è così difficile cominciare/immaginate come sarà finire.»
Geoff Dyer ruba alla scrittrice e poeta premio Nobel Louise Glück i versi dell’esergo in cui è più facile riconoscersi di sempre. Vale per la scrittura, per la facilità con cui le parole cominciano a scorrere una volta violata la superficie bianca del foglio; vale per l’esperienza umana, in cui il coraggio, la spontaneità, l’irruenza si affievoliscono con il passare degli anni – fa sorridere il commento rassegnato dell’autore che, quando parla dei suoi gusti musicali attuali, afferma di essere “immaturato”, dato che il suo amore per il jazz con l’età si è trasformato in una passione per la house e la techno. Ma è “The End” dei Doors, ormai un classico più da vecchie glorie del rock che da giovani selezionatori di suoni, ad aprire il primo capitoletto del libro – l’ultimo brano del disco d’esordio della band, e l’ultimo suonato profeticamente dal vivo nella loro carriera -, che introduce la presa di coscienza della profonda differenza generazionale e culturale tra il mondo dei genitori dello scrittore, che vedevano la pensione come un traguardo agognato fin da giovanissimi, e il suo, in cui andare in pensione significa essere uno scrittore che non ha più niente da offrire e che, soprattutto, non riesce più a farsi pubblicare.
«Ho finito il libro! Ho scritto a un amico. Ora, dopo sei mesi in cui non ho fatto quasi niente, mi chiedo se non sia piuttosto il contrario. È stato il libro a finire me?» racconta l’autore nel poscritto. La risposta giusta può arrivare citando un altro classico della canzone, italiana questa volta, rimasto fuori dalla narrazione quasi sicuramente solo per questioni di incompatibilità linguistica: «L’importante è finire».