Si può solo dire nulla

Il Saggiatore

È uscito per Il Saggiatore un volume monumentale, di 1736 pagine, intitolato Si può solo dire nulla, curato da Luca Buoncristiano e Federico Primosig, che raccoglie tutte le interviste concesse da Carmelo Bene tra il 1963 e il 2001.
Abbiamo chiesto un commento a Giancarlo Dotto, che di Bene è stato amico, collaboratore e co-autore della autobiografia.

da Quants numero 3, giugno 2023

Va intanto riconosciuto il giusto merito al volume, Si può solo dire nulla, e ai suoi due curatori, Luca Buoncristiano e Federico Primosig. 1736 pagine. Vale a dire, una micidiale arma di sterminio oltre che una prova di sterminato amore. So quello che dico. E non fatevi fuorviare, taccagni, dalla tentazione di risparmiare dieci miserabili euro scegliendo la versione light tavoletta. Fatevi un po’ di muscoli, perdiana, che ne avete bisogno, deperibili latticini! 

L’altra sera, nella mia casa di Bahia affacciata sull’Atlantico, l’ho sollevato, il tomo, e l’ho fatto cadere dall’alto su una blatta gigante che si credeva invincibile come Capitan America e aveva scambiato il mio pavimento per una pista da ballo (più o meno come Diego Armando Maradona in quel celebre video dove, da aspirante suicida e ormai scarafaggio definitivo, inguardabile anche a se stesso, ballava in ciabatte e mutande el Bombon Asesino dei Los Palmeras).  È morta senza fare un fiato (la blatta), forse un lieve, stridulo gemito, ma non ci giurerei.

Di solito, per questo genere di cose, delitti e castighi, mi servo di un romanzo qualunque di Fiodor. Basta e avanza, ma se vuoi il meglio che c’è oggi nel mercato, se vuoi la perfezione, l’imponente creazione di Buoncristiano e Primosig fa al caso vostro, non teme confronti. Cavallette, topi, scarabei, calabroni, vespe killer. Ci puoi abbattere anche un (cattivo) cristiano se lo prendi alla tempia.

Insomma, per tornare all’elogio, un libro estremo e consigliabile per tanti motivi, a cominciare dal fatto che dare la morte, sia pure a uno scarafaggio, è comunque una cosa estrema.

Un magnifico Uno contro Tutti, nello stile di Carmelo (cosa fece, in fondo, in quelle due memorabili disfide il Saraceno dagli occhi di Zombie, se non scaricare le sue 1700 tonnellate di grandine su una platea di rammolliti masochisti, venuti fin lì in fila indiana smaniosi d’essere fatti mondanamente e ghandianamente a pezzi?). A Carmelo, che era ed è uno spettacolare Zombie (ci torneremo, anche se a lui andava più a genio accreditarsi come Nosferatu, «vivo, ahimè, per sempre») sarebbe certo piaciuto questo volume del Saggiatore. Peccato davvero non sia più biologicamente assemblato per riuscire a tenerlo tra le dita gialle di nicotina e sfogliarlo. Gli sarebbe scappato, tra una sorsata e l’altra del suo tazzone d’orzo, uno dei suoi proverbiali ghigni di compiacimento accompagnato da uno sbattimento di palpebre (andavo spesso nel suo covo di via Aventina per scoprire ogni volta quanto fosse tenero e spiritoso l’Orco che sbatteva le palpebre a più non posso). Come gli sarebbe piaciuto, per altri versi, apprendere che i balordi della setta di David Koresh, per darsi il suicidio di massa, avevano scelto un ranch nel Texas alle pendici di una collina che si chiama Monte Carmelo (lo dico solo perché l’ho appena visto in tivù).

Bisogna essere due volte pazzi solo per concepirlo un volume così. Se poi lo fai anche è roba da internamento perpetuo. Tanto per capirci: l’equivalente, in quanto a dismisura, del tunnel scavato a suo tempo dall’abate Faria, non si sa se per scappare dalla galera o darsene una più interessante

Bando alle ciance. Si può solo dire nulla. Bisogna essere due volte pazzi solo per concepirlo un volume così. Se poi lo fai anche è roba da internamento perpetuo. Tanto per capirci: l’equivalente, in quanto a dismisura, del tunnel scavato a suo tempo dall’abate Faria, non si sa se per scappare dalla galera o darsene una più interessante. Luca e Federico si sono scelti la loro fuga e la loro galera.  Un’impresa senza precedenti. A mani nude. La conferma ennesima di qualcosa che ho potuto testimoniare centinaia di volte: Monte Carmelo ha sempre istigato, istigava di brutto, la pazzia altrui. La liberava quando non c’era (i casi più penosi), la scatenava quando c’era e lì era il Maracanà dei tempi d’oro. Risate cosmiche. Ne ha lasciata di gente dispersa in qualche deserto a invocare il suo nome. Con Carmelo non c’era scampo. O ti proteggevi con quintali di cerume o il suo canto ti stecchiva. E non serviva nemmeno capire. Che tanto parlava, non sapendo lui stesso, Bene, dove andasse a parare. Parlava a sé, tra sé, al solo scopo di sorprendersi. Carmelo Bene a Carmelo Bene, autorizzato da non si sa chi.

Luca e Federico, come migliaia di altri, più di altri per via della loro tara certamente congenita, si dichiarano bontà loro stecchiti, onesta ammissione, messi al tappeto da uno che, pur avendolo respirato da qualunque orifizio, avevano appena sfiorato sulla soglia di qualche camerino. Ne sono stati chimicamente sopraffatti. Più di quanto la loro mente potesse sopportare. L’hanno ascoltato più di quanto fosse prudente fare. Avete presente la storia di quei soggetti temerari, che si espongono alle micidiali radiazioni di non so quale nuvola pestifera nel Rumore bianco di Don deLillo, poi diventato film? Di questo parliamo. Intossicazione acuta.

Ora, considerato che, perdere il filo, perdere in assoluto, scavando da talpe gallerie infinite, è l’unica attività che abbia un senso (come avrebbe dovuto dire Boniperti all’epoca se non fosse stato Boniperti, il teorico dell’idiota «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta», e pensare che aveva tutte le carte in regola per farcela, frequentando, assiduamente e inutilmente, Carmelo nello stesso Bagno del Forte dei Marmi, a una tenda di distanza) e considerato anche che ogni lascito orale di Carmelo, suoni afasici, balbettii, grunt inclusi, era un evento, ci aspettiamo ragionevolmente adesso dalle due epiche talpe la seconda impresa, entro il 2050: che si presentino un giorno, benedetto il Signore o il Saggiatore, o chiunque altro, con una nuova antologia, quindicimila pagine sui monologhi privati di Carmelo (circolano qua e là registrazioni clandestine, nastri segreti, voci trafugate sottobanco e custodite come reliquie in qualche teca dalle migliaia di fans). Meravigliosi assolo. Di quando, che so, dopo aver magari cucinato un gigantesco pescespada alla brace per i suoi ospiti, piccole comunità, li intratteneva fino all’alba. Le interminabili notti alcoliche, che quasi sempre sfociavano in risse, nei rifugi sparsi del Carmelo orante, tra il Forte (dei Marmi), Il Castello (di Otranto) e le Mura (dell’Aventino). Tutti i bunker di Carmelo, violabili solo da uomini fortunati e donne adoranti, ma soprattutto belle e disponibili. Buoncristiano e Primosig non ci deludano. Ho confidenza abbastanza, soprattutto con il primo, per insistere. Non possono fermarsi qui. Che ritornino a scavare nella loro eletta galera. Vadano fino in fondo. È una questione d’onore.

Tanto per cominciare, e non importa se in realtà abbiamo cominciato già da un pezzo, e continueremo sempre cominciando, per l’ovvio orrore della fine, questo volume scaldamuscoli, ammazzainsetti, Beneccentrico e Benedicente, che dio lo benedica, dovrebbe costare molto di più, almeno 200 euro. La gente dovrebbe farsi male comprandolo in attesa di farsi Bene leggendolo. I libri belli, come le cose e le donne belle, dovrebbero sempre essere sempre pagati a caro prezzo,  anche quando qualcuno di loro, per uno slancio incomprensibile di generosità, vorrebbe concedersi gratis. Dirò di più, le cose sono veramente belle solo quando c’è qualcuno disposto a svenarsi per averle. Metaforicamente e letteralmente.

Conosco meglio Buoncristiano. Se non lavorasse già, a sua detta, in un’azienda che fabbrica aerei da guerra (così credo di aver capito, ma non ci giurerei, e comunque mi piace pensare che sia vero) sarebbe lui stesso una macchina da guerra, un probabile serial killer (non sarà un caso che ha dedicato anche un affettuoso omaggio a Charles Manson). Ha pure gli occhi siberiani d’ordinanza. Al momento, per fortuna del consorzio umano, si limita a setacciare i fondali del Monte Carmelo. Che Primosig sia fuori di sé, fuori di testa, basta incrociarlo due secondi e non avere dubbi. Mentre gira a tempo pieno il mestolo delle sue elucubrazioni. Cose geniali, spesso, si capisce, e lui ogni tanto sa che farsene.

Ci tengo a dirlo, anche se dirlo qui non ha senso (nel frattempo ho sterminato una cavalletta enorme, grande come un pipistrello, sempre con il metodo Si può solo dire nulla ma si può sterminare tutto, infallibile. Sarà stato Carmelo truccato da vampiro, venuti a punirmi per quanto sto scrivendo, o intento a sperimentare l’ennesimo modo di morire in versi?): l’intervista più enorme mai fatta a Carmelo toccò a me, nella terrazza ventosa di Otranto, in faccia ai turchi che, nella testa di Carmelo non hanno mai smesso di sbarcare, impalare e massacrare. Privilegio di cui non so darmi pace, l’intimità col Turco, e di cui conservo una privatissima testimonianza orale (una trentina di nastri) che ogni tanto ascolto per dare voce alla cenere. Era più che altro lui, come sempre, a risuonare l’infinita tastiera della sua fisarmonica, avendomi a fianco come devoto pretesto. Quanto basta, quel minimo, per giustificare il nome in copertina. Si può solo dire nulla. Nessuno come lui.

Monte Carmelo ha sempre istigato, istigava di brutto, la pazzia altrui. La liberava quando non c’era (i casi più penosi), la scatenava quando c’era e lì era il Maracanà dei tempi d’oro. Risate cosmiche. Ne ha lasciata di gente dispersa in qualche deserto a invocare il suo nome. Con Carmelo non c’era scampo. O ti proteggevi con quintali di cerume o il suo canto ti stecchiva.

Volete farvi bene? Aprite una pagina a caso. Una qualunque. Apro una pagina a caso. 1492, la scoperta dell’America. Ci trovo, questa è bella, Aldo Busi, il giorno in cui, truccato da inviato di un giornale, si mette sulle tracce di Bene, come un cane da tartufo, disponibile in parte ad amarlo, molto deciso a farlo a pezzi al primo sgarbo. Carmelo di sgarbi ne propina a decine e a Busi non resta che intingere la punta del pennino nel cianuro del suo narcisismo ferito e umiliato. Vendetta tremenda vendetta. Busi alla guerra con Bene. Busi che carica a testa bassa e va in brodo di giuggiole solo quando raccoglie il commento di una signora nel foyer. «Carmelo Bene? Ha un aspetto marcescente…». Non si poteva dir meglio, esulta Busi. 

Tenetelo sul comodino accanto al letto (assicuratevi che sia solido, almeno di legno massello). Aprite altre pagine a caso. C’è di tutto. Un circo. Giornalisti per lo più. Babbei, coglioni, pettegoli, ma anche amici e intelligentoni. Gente saputa. Alcuni si sono fatti un mazzo così per essere all’altezza dell’incontro, hanno studiato a fondo Teresa d’Avila, imparato tutto della Beata Ludovica Albertoni e di Giuseppe da Copertino, i più secchioni sono arrivati a leggere qualche pagina di Derrida. Tenteranno in questo modo, senza riuscirci, di esistere una volta ammessi alla presenza dell’uomo esperto da sempre nella magia nera del «cancella il prossimo tuo come non fosse te stesso». Una volta al cospetto del Bene, le provano tutte (la prima volta è sempre scioccante). Si fanno muti. Tacciono. Si appoggiano sulle sue frasi, chiosandole o replicandole. Espedienti da cocorite. Carmelo li usava come sgabelli, i giornalisti o chi per loro. Carmelo era anche un test infallibile: il tuo coefficiente di coglioneria. Centinaia di loro hanno goduto un’ora o forse due d’intimità con lui e ne sono usciti inverosimilmente illesi. Gli stessi di prima. Non si sono fatti modificare. Nemmeno dall’odio. Capite? Lui accomodava le natiche sulle loro inutili domande per caricare come un toro, nel deserto di una parola tutta da inventare.

In questo era sempre molto generoso. Non si risparmiava. Se ne fregava del contesto. Lo doveva a se stesso. Carmelo Bene a Carmelo Bene. Il cerchio era quello. Magico parecchio. Ogni tanto, raramente, si affezionava a qualcuno di  questi sgabelli (Carmelo era un affettivo vero) e lo includeva nel suo sé. Privilegi che bastavano a giustificare una vita. L’odore di Carmelo, delle sue Gitanes. Quella volta che “fece suo” il mio Elvis Presley, solo perché aveva saputo quanto mi piacesse. O quella volta, sempre a Otranto, che mi lesse tutti i Canti di Leopardi. Solo per me. Nella stanza più bella del suo Immemoriale. Una delle sue ultime volte. Il cancro già gli mangiava il diaframma.

Altri, i più morbosi, chiedevano d’intervistarlo per il solo piacere di farsi umiliare, sodomizzare. Cercavano la sfida. Li agitava la rivalsa. In realtà, bramavano il pugno da kappao e sempre lo trovavano. Ne uscivano con le ossa rotte e, per vendicarsi, lo stroncavano. Vigliaccucci della tastiera. Ne sono sfilati eserciti in quasi mezzo secolo. Per i più temerari e narcisi la voluttà era la disfatta in diretta televisiva. Cascavi sempre male nel frontale con Carmelo, a cominciare dal fatto che lui non aveva un frontale, ma solo profili. E sguardi obliqui. E liquidi. Lo spasso maggiore di quelle 1736 pagine: il tentativo spasmodico dei più di accreditarsi preso di lui, sproloquiando più di lui o cercando di prenderlo in castagna, con qualunque pretesto, perché ti trucchi se non esisti, sei fascista, sei Carmelo Bene anche al mercato quando compri due etti d’insalata o parli alla portiera del condominio? Il tentativo è quello di esorcizzarlo. Snudarlo, imbrattarlo con la materia fecale del quotidiano. A chi? A uno che aveva oscurato anche i cessi di casa perché non fosse misticamente evidente la discontinuità tra la vita e la merda?

C’era solo un modo di stare decentemente a lato di Carmelo Bene, mai di fronte. Lo sguardo mite, rapito e allo stesso tempo ignaro di Franco Citti nella memorabile inquadratura del Costanzo Show. Carmelo imperversa e lui si limita ad amarlo, lievemente e Benevolmente stordito, senza preoccuparsi di capire. Perché sa che qualcosa di buono, di enorme, di generoso sta comunque accadendo lassù, accanto al panciotto di Costanzo, anche se ai più appare che Carmelo stia solo insultando una giovinetta qualunque, venuta lì tra l’altro nella speranza di farsi insultare.

«Oh, parete proprio morti» diceva il grandioso Zombie con gli occhi a palla, dopo una pausa che Eduardo avrebbe applaudito a scena aperta. Neri e maliardi. Gli occhi. Merito assoluto a Buoncristiano e a Primosig l’aver preso il testimone della maratona, d’essersi fatti carico con quest’impresa di tenere viva l’impresa del grandioso Zombie: «Mi ostino a vivere perché anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi». Amava citare. De e da Sade. Mentre le sue ceneri, le ceneri del mio amico Carmelo, beate loro, non hanno bisogno di ricorrenze per ballare il cha-cha nell’urna che prima a Otranto e ora, di recente, pare, trasferite nel cimitero di Vitigliano, lo hanno restituito, il bambinaccio, alla stratosfera, dove sono ammessi solo gli addetti ai capolavori. Nulla che lo sotterri davvero. E quando ci provano, ecco che spuntano dal nulla i due, due sembianti che più dissimili non si può, due ossessioni, la stessa ossessione, ad alimentare la leggenda del morto vivente, perché si parli di lui con la scusa che si può solo dire nulla.

Privilegio di cui non so darmi pace, l’intimità col Turco, e di cui conservo una privatissima testimonianza orale (una trentina di nastri) che ogni tanto ascolto per dare voce alla cenere. Era più che altro lui, come sempre, a risuonare l’infinita tastiera della sua fisarmonica, avendomi a fianco come devoto pretesto.

Alla mancata fine del suo strepitoso viaggio, tra madonne turchine, pinocchi, tamerlani e amleti, angeli di gesso e demoni di carne, voci dalle torri, e poi solo sospiri e rantoli, in fondo al riso e poi la smorfia, ubriacandosi di tutto, di donne, di vino, di amici, di versi e di polvere, per essere proprio sicuro di non aver lasciato nulla d’intentato, e poi solo cenere, Carmelo insiste. Persiste. Continua a invaderci il Turco, come quando cantava le arie di Rossini per i corridoi della sua casa di Otranto. Fosse nato oggi, nella piena gogna del post-sub umanesimo imperversante, l’eventuale Carmelo Bene non sarebbe nemmeno notato. Non ci sarebbero più occhi e orecchie per riconoscerlo. Invece che un dannatissimo mito vivente, costola del famigerato Acmet Pascià, riconosceresti a fatica il suo sosia in qualche polverosa strada della campagna salentina. Un anonimo squilibrato in preda alle sue farneticazioni. Nella migliore delle ipotesi, un brillante avvocato di provincia. I suoi occhi obliqui e il suo eloquio sfrenato, invece che nei grandi palcoscenici del mondo, avrebbero fatto strage di cuori tra le signore nelle aule di tribunale del Foro di Lecce.

Si può solo dire nulla. Puoi ammazzare i ragni, ma non puoi ammazzare i vampiri. Tornare da dove si è venuti, senza essere mai stati, Carmelo Bene è stato questo: un’equazione perfetta. L’ultimo umanista. È stato inesorabile in vita e lo è in morte. Ci ha costretti ad amarlo con l’imperativo credibile del non avrai altro dio all’infuori di me. Divinità e sacerdote di se stesso, un altare implacabile.

«Mi sembrate degli zombie…». Era lui lo Zombie. Intelligentissimo e coltissimo guitto. Le due cose insieme hanno fatto il capolavoro. Il più improbabile e godibile dei capolavori.

Scrivente in senso lato, docente di comunicazione. Ha scritto e scrive, tra le altre testate, per L'Espresso, Panorama, Sette, La Stampa, Corriere della Sera, Il Foglio, La Gazzetta dello Sport, Vanity Fair, Max. Ha collaborato come autore e opinionista con La7, Mediaset e Rai. Ha pubblicato per Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Piemme, Feltrinelli. Autore delle biografie di Carmelo Bene, di cui è stato collaboratore ventennale, Maurizio Costanzo e Ornella Vanoni. Di recente ha pubblicato per Gog Edizioni "Il Dio che non c’è".