Nel caleidoscopico mondo della gastronomia, dove l’esperienza culinaria si fonde con il gusto della narrazione, si distingue una nuova e singolare guida gastronomica.
da Quants numero 10, febbraio 2024
Un piccolo gioiello, dalle sembianze di un taccuino, che si apre con la saggezza di Brillat-Savarin: «La qualità più indispensabile del cuoco è la precisione: dovrebbe essere anche quella dell’invitato». Questa citazione si erge a monito, richiamando il commensale ad assumersi le sue responsabilità, e funge da apertura a trenta racconti di visite gastronomiche, narrati con raffinata eloquenza, avvenute nell’arco di quindici mesi e commentate animatamente all’interno del gruppo WhatsApp “Hardcore Gourmet”.
Cosa aspettarsi dalle sue ottantacinque pagine? Troveremo le prospettive incantate del Noma, l’estro culinario di Bottura, l’abbraccio caloroso di Villa Crespi, il rigore di Crippa, l’atmosfera londinese di Madame Pic, le lattine sorprendenti di Bob Noto, la luce radiante dell’Eleven Madison, e poi Paul Klee, il viaggio di Alice attraverso lo specchio, l’universo di Jorge Luis Borges, la musica dei Beatles, le pennellate di Jackson Pollock, il “crescendo rossiniano”, il Gattopardo, i pensieri di Blaise Pascal – e sono solo alcune delle suggestioni evocate tra le sue pagine. Si comprende immediatamente, anche solo sfogliandola, che la guida racconta non solo ciò che si assaggia, ma anche l’atmosfera e le impressioni che circondano ogni esperienza, con uguale passione per il cibo e per la letteratura.
Si comprende immediatamente, anche solo sfogliandola, che la guida racconta non solo ciò che si assaggia, ma anche l’atmosfera e le impressioni che circondano ogni esperienza, con uguale passione per il cibo e per la letteratura.
La sua nascita è il frutto di un lungo processo, culminato nel 2022 con la materializzazione dell’idea di “Hardcore Gourmet”. Il piccolo volume omonimo, firmato da Davide Cavagnero, Stefano Bianco e dagli altri otto compagni del gruppo, pubblicato da Visiogeist nel 2023, trova la sua formula in una peculiare fusione di racconto, giudizio e “storytelling”.
Davide Cavagnero, astigiano, sommelier e scrittore, lo considera «un unicum nel suo genere», perché si differenzia dalle altre guide per la sua capacità di essere più di una semplice fonte di informazioni. La sua struttura invita a maneggiarla più volte, come una frase di un libro che si sottolinea per coglierne ogni sfumatura. La scuola Holden, background dell’autore, si percepisce e permea l’approccio letterario, mentre il contributo di Stefano Bianco parte dalla definizione del nome e dei parametri di giudizio.
L’obiettivo è audace: superare i confini della critica tradizionale per intrecciare cibo, letteratura e filosofia. L’idea di “Hardcore” sottintende un approccio che va oltre la mera degustazione, cercando quei momenti di svolta che trasformano una cena in un’esperienza indimenticabile. Non è solo la qualità gastronomica a definire il giudizio, ma il tratto Hardcore che si insinua nei dettagli: un piatto che divide le opinioni, uno scambio di idee con lo chef, un abbinamento fuori dall’ordinario, l’attenzione impeccabile della sala, una scelta stilistica che rivela professionalità.
L’idea si nutre poi delle suggestioni nate tra chiacchiere informali, alimentando una discussione più ampia che ha origine in primis nella famosa chat. Un collettivo di una decina di persone (arricchito anche dalla partecipazione delle rispettive compagne di vita e di mangiate) con in comune una grande passione, quella della buona tavola e della condivisione, che converge in un pensiero nel quale si intrecciano anche il gusto per l’arte e la letteratura.
Un approccio che va oltre la mera degustazione, cercando quei momenti di svolta che trasformano una cena in un’esperienza indimenticabile.
Il processo di valutazione non si limita a parametri classici, ma abbraccia sottili sfumature, dalla semantica del menu al rapporto tra cibo e bevande.
L’approccio letterario-filosofico traspare in ogni recensione, con l’autore che parte da un piatto per poi divagare attraverso spunti che si collegano ad artisti e autori più o meno noti. Le idee fuoriuscite dalle conversazioni vengono amalgamate in un unico flusso narrativo: «Mi appassiona aver concepito questa soluzione di un periodo che prende vita e si conclude al termine della recensione: un’unica frase ricca di punteggiatura, un flusso di coscienza, un blocco compatto», racconta Cavagnero, «nella mia mente riecheggiano le voci della chat, e le incito a esprimersi con la propria visione, arricchendo il dialogo con i loro contributi».
Il connubio tra cibo e letteratura dunque emerge naturalmente, senza forzature stilistiche, manifestando un richiamo irresistibile.
«Personalmente, trovo piacere nel dialogare con gli chef, siano essi stimolanti come Da Dina o totalmente intellettuali come Piazza Duomo. Quel gusto per l’Oriente, con il suo rigore e la sua grazia, mi ha persino richiamato alle forme poetiche dell’haiku. Inizio da un piatto e mi lascio trascinare in divagazioni attraverso spunti che si collegano all’arte e alla letteratura tenendo a mente i dieci parametri individuati».
Ogni ristorante viene infatti valutato su dieci parametri, dalla materia al flow, e posizionato in un curioso “quadro semiotico” in cui i ristoranti si collocano tra due ascisse, che vanno da Comfort Zone ad Avanguardia, e ordinate (da Old-Fashioned ad Hype). I criteri di valutazione, plasmati nel quadrato semiotico, offrono una visione chiara e immediata, permettendo di farsi un’idea immediata di ogni locale.
L’esperienza culinaria diventa, così, un’indagine delle contraddizioni umane, delle disparità sociali e del ruolo fondamentale che il cibo gioca nella costruzione della nostra identità e del nostro destino.
L’obiettivo era trovare una razionalizzazione per un’esperienza che sfugge alla categorizzazione in percentuali o categorie, come i blasonati macarons. Inizialmente l’idea era basarsi su parametri classici, successivamente sono stati inseriti elementi più originali, come le voci memento e energia. Vale la pena esplorare quali sono i vari aspetti chiave dell’esperienza gastronomica secondo Hardcore Gourmet:
IMPATTO: Il viaggio inizia prima del tavolo. L’esperienza al ristorante inizia prima di sedersi a tavola, analizzando la correttezza delle informazioni online, le modalità di prenotazione, e l’accoglienza in sala.
MATERIA: Oltre le etichette, il cuore del cibo. Il valore del cibo nel piatto è il fulcro, oltre le etichette di territorialità, tradizionalità, e sostenibilità, e si mette in risalto la qualità al netto delle preparazioni.
TECNICA: La maestria necessaria. La grandezza di uno chef sta nella capacità di eseguire procedure con metodo e rigore, perché il genio non ha significato senza una solida tecnica di base.
MENTE: Esplorando il processo creativo, si pone l’attenzione sulla ricerca di equilibrio tra artigianalità, originalità, estemporaneità e calcolo.
BERE: Identità attraverso le bevande. La proposta delle bevande contribuisce all’identità del ristorante, e si prendono in considerazione profondità della carta, gestione della cantina, e attenzione del personale durante la scelta.
FLOW: Il Ritmo Invisibile dell’esperienza in sala. La sala imposta il ritmo del servizio, con un parametro che riflette l’orchestrazione degli incastri tra attese, pause e servizio effettivo.
ENERGIA: L’empatia, la discrezione e la partecipazione della sala definiscono l’esperienza, evidenziando l’importanza dell’umanità e della dedizione di chi lavora.
PROGETTO: Oltre la sperimentazione, lo sguardo verso il futuro. Il progetto del ristorante va oltre la sperimentazione fine a sé stessa, riflettendo la rotta e l’identità dello chef e del suo staff.
PREZZO: Oltre la cifra finale, una valutazione completa, che considera proposta del cibo, qualità, ricercatezza della materia, dimensione delle porzioni, e vari altri aspetti.
MEMENTO: L’impronta emotiva del pasto. Dopo, si valuta cosa resta: la voglia di raccontare l’esperienza, la soddisfazione o il fastidio per un’occasione mancata.
Quando si vuole sapere quale esperienza, secondo gli hardcore gourmet, sia stata la più memorabile, la risposta è sicuramente da ricercare nell’ultimo parametro, quello che rimane indelebile nella memoria e ci si porta dietro per sempre, come il “primo” Celler, considerato indimenticabile da tutti. Quando si parla di esperienze da non ripetere, invece, emergono inaspettatamente alcune realtà a tre stelle, soprattutto se il dolce è a base di pelle di merluzzo e cioccolato.
Ogni valutazione, espressa con un punteggio da 1 a 100, contribuisce a creare un quadro completo, arricchito da stimoli e spunti culturali. Oltre alla pura recensione tecnica, la guida si distingue per la sua capacità di trasformare il mangiare in una forma di permanenza, un racconto che va oltre la semplice degustazione.
L’obiettivo era trovare una razionalizzazione per un’esperienza che sfugge alla categorizzazione in percentuali o categorie.
La recensione più inaspettata? Senza dubbio l’ultima, quella del ristorante Hawthorne dello Chef Julian Slowik, che, per chi si ricorda, si trova su un’isola immaginaria, la Tybee Island. Qui il claim è “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Dimmi dove mangi e ti dirò come morirai.” Gli hardcore gourmet non potevano esimersi dal commentare l’iconico The Menu, il film di Mark Mylod che attraverso il cibo si fa portavoce di critica sociale. Si racconta come l’alta cucina nel ristorante immaginario vada oltre l’esperienza gastronomica per diventare un palcoscenico, analizzando dinamiche sociali e denunciando le sovrastrutture distorte di cui il mondo della ristorazione è infestato. Il locale, infatti, appare come l’Olimpo di happy few come broker, registi e imprenditori, che appaiono vuoti pure nel loro benessere materiale. La cucina, secondo Slowik, diventa un patibolo che simboleggia la mancanza di rispetto per ciò che si consuma e l’iperbolizzazione del superfluo. Hawthorne si presenta come un luogo metaforico che scompone e analizza la società contemporanea attraverso il prisma del cibo e dell’alta cucina. L’esperienza culinaria diventa, così, un’indagine delle contraddizioni umane, delle disparità sociali e del ruolo fondamentale che il cibo gioca nella costruzione della nostra identità e del nostro destino.
Anche per questo, la guida si distingue per la sua libertà, mescolando locali distanti tra loro, ma accomunati dall’appartenenza al mondo del fine dining. Il punteggio più alto va, all’unanimità, al Celler de Can Roca di Girona, ma la diversità delle recensioni riflette l’eterogeneità dei gusti degli autori.
Una volta chiuso il libro, sorge il pensiero che sarebbe meraviglioso se ognuno, seguendo l’antica tradizione dei gourmet, tenesse un taccuino in cui non si limitasse a prendere appunti, ma si cimentasse – come gli autori hanno fatto con gusto sopraffino – nella creazione di storie. Perché vivere le esperienze è certamente appagante, ma forse è solo narrandole che si riesce a comprenderne l’essenza più profonda.