L’atto materiale non è una cosa semplice

edizioni nottetempo

Nottetempo ha ripubblicato Le italiane si confessano di Gabriella Parca, raccolta di dubbi e drammi delle donne degli anni Cinquanta. Ma quanto sono cambiate le cose in questi decenni?

da Quants numero 10, febbraio 2024

Nella serie televisiva Mad Men, trasmessa dalla HBO dal 2007 al 2015, Betty Draper è una giovane e bionda casalinga americana, ha due bambini ed è sposata a un brillante pubblicitario con cui vive in una villetta con giardino nei sobborghi di New York. Dopo aver iniziato a mostrare sintomi di un disturbo depressivo, Betty consulta uno psichiatra, al quale racconta le sue angosce, che sono quelle di tutte le casalinghe americane del Dopoguerra: è giovanissima e dopo aver finito l’università si è rinchiusa in casa, non ha progetti né più ambizioni, sospetta che suo marito la tradisca a Manhattan nelle numerose notti in cui non rientra a casa per dormire. Lo psichiatra di Betty, pagato da quello stesso marito, dopo ogni seduta gli telefona e gli riporta ognuna delle confessioni della sua paziente.

La condizione storica della donna è definita da due situazioni complementari: l’impossibilità di prendere la parola in pubblico, ovvero di avere una voce, e l’indisponibilità degli uomini ad ascoltarla. Il libro di Gabriella Parca Le italiane si confessano, ripubblicato da Nottetempo con una prefazione di Chiara Tagliaferri e pubblicato per la prima volta nel 1959, mette a fuoco il proscenio dal quale le donne parlottano e sussurrano: lo spazio privato della vita sentimentale e affettiva delle donne italiane prende parola attraverso la pubblicazione di trecento lettere inviate alle rubriche di “piccola posta” dei femminili italiani. Gabriella Parca, che ne curava le risposte, ebbe l’intuizione straordinaria di dividere per temi quelle considerate troppo “scabrose” e dunque non pubblicabili dai giornali, e convinse l’editore Parenti a darle alle stampe.  La prima edizione ebbe una tiratura limitata a qualche centinaio di copie, che rimasero in larga parte invendute. Gabriella Parca ha raccontato in seguito che, forse per cortesia o per vero intuito, fu un libraio, e non l’editore, a dirle che il suo libro sarebbe stato letto «in seguito». Così, in effetti, accade: Le italiane si confessano diventa un caso editoriale quando il critico letterario Paolo Milano, il primo a occuparsene, ne scrive sull’Espresso e ne parla come di una rivelazione. Da quel momento si susseguono articoli che colpiscono Gabriella Parca «come sassate»; la principale delle accuse era, evidentemente, la ragion d’essere del rifiuto iniziale, da parte degli editori delle riviste, alla pubblicazione delle lettere: ci sono cose di cui non è bene parlare, perché «i panni sporchi si lavano in casa». Nell’Italia dell’epoca è inaccettabile riconoscere in pubblico quanto gli uomini italiani siano ipocriti e meschini: nelle lettere si susseguono storie di violenze intra-familiari, uomini adulti che si innamorano di preadolescenti, dongiovanni sposati che costringono le loro compagne a sottoporsi ad aborti rischiosi e illegali, raccontati una volta dalla prospettiva della moglie e la successiva da quella dell’amante; entrambe soffrono della medesima crudeltà. Riconoscere, nelle donne che si raccontano, delle pari agli uomini è ancor più inammissibile: le autrici di queste lettere sono individui complessi e tormentati dalle vite interiori ricche e strazianti, nelle quali compaiono le pulsioni più proibite. La libido è mescolata al desiderio d’affetto, e ne risulta una straziante tenerezza della carne che viene bastonata dall’incontro con il mondo. Nel film del ’72 La maman et la putain il regista Jean-Eustache fa dire alla sua protagonista, in un monologo finale di lacrime e ubriachezza «Pour moi, il n’y a pas de putes. Il n’y a pas de putains. Et qu’est-ce que ça veut dire, putain ? ».

Nella forma di domande poste a un oracolo, le lettere che compongono questo libro assumono la forma letteraria ipotetica del diario corale. E il diario rappresenta per le donne, secondo la femminista italiana Carla Lonzi, la «forma di espressione più congeniale alla loro ricerca di sé». Lettere e diari danno voce e respiro all’esperienza femminile, in ragione di una collettiva «difficoltà a esporsi pubblicamente scrivendo liberamente di sé»: difficoltà che, sempre secondo Lonzi, «ha scoraggiato e infine fatto tacere le donne». Il titolo che Carla Lonzi dà al libro in cui pubblica il proprio diario fa risuonare l’ambivalenza costitutiva della possibilità, per le donne, di prendere la parola in pubblico: Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

La principale delle accuse era, evidentemente, la ragion d’essere del rifiuto iniziale, da parte degli editori delle riviste, alla pubblicazione delle lettere: ci sono cose di cui non è bene parlare, perché «i panni sporchi si lavano in casa».

Che cosa domanda davvero chi scrive alla posta del cuore? Una risposta incisa nella pietra, che sia netta come il responso di un oracolo. Nel tempio di Delfi la scritta recitava: «conosci te stesso» – la fonte è Platone, che lo fa dire a Pausania, nel Carmide – e il responso significa: per conoscere il mondo devi conoscere, prima di tutto, te stesso. Psicanalisi ante litteram. Ma a differenza dell’oracolo e dello psicoanalista, la posta del cuore conforta e guida, e in questo senso somiglia più al prete o al rabbino: il ruolo viene ripreso dalle giornaliste, divenute consigliere spirituali dopo la morte di Dio. È il Novecento, addio confessione. All’epoca del “caso Parca”, anche l’Osservatore Romano si occupò del libro, traendone questa stessa conclusione, e cioè che «le donne dimostravano di non avere più fiducia nel confessore, nel padre spirituale». Ma la perdita di fiducia, rispetto alla quale l’Osservatore Romano ha un’intuizione molto lucida, non corrisponde a un allontanamento dalla fede: molte delle ragazze che scrivono queste lettere tengono anzi a specificare a più riprese di essere molto religiose: alcune, dopo aver «ceduto», ovvero fatto l’amore con un ragazzo senza essere sposate, raccontano di non essere più riuscite a comunicarsi perché sopraffatte dal senso di colpa, al punto di mentire al confessore. Piuttosto, le italiane si confessano alla “piccola posta” perché costrette nella impasse di una morale contraddittoria, ed esattamente come Betty Draper imparerà nel Bildungsroman che è la sua storyline in Mad Men, sanno di non avere attorno nessun ascoltatore fidato; né il prete né lo psichiatra le salveranno dalle loro depressioni o dalle loro travolgenti angosce.

Nelle lettere de Le italiane si confessano vengono affrontati tutti gli aspetti possibili del dramma amoroso: uno dei temi ricorrenti è quello del rapporto sessuale, e di conseguenza quello della perdita della verginità, che si ripete in quasi ogni lettera come un’ossessione. Compaiono fidanzati insistenti che chiedono alle ragazze la famosa “prova d’amore”, in una versione centrifugata e ribaltata del mito biblico della caduta nel peccato. Nel suo commento alla Genesi, Agostino scrisse che la donna, nata dalla costola di Adamo, era troppo lontana da Dio in perfezione per somigliargli spiritualmente e che, per questo, il suo corpo non poteva che portare in sé già il seme del peccato, che avrebbe indotto l’uomo in tentazione. Sempre Agostino riporta nelle Confessioni di avere a lungo pregato, durante i suoi anni di conversione: «Da mihi castitatem et continentiam, sed noli modo» («Signore, dammi la castità, ma non subito»). Le italiane che scrivono alla piccola posta vengono spesso costrette dai fidanzati a scegliere tra la morale e l’amore che hanno per loro. Una di loro scrive: «quando una ragazza è stata messa in prova […] non può più andare avanti a Gesù di bianco. Io non cederò mai, perché voglio andare davanti a Gesù di bianco, ma ho paura che lui mi pianta». Un’altra, dopo aver «ceduto», domanda se il suo fidanzato abbia dei doveri verso di lei, e vuole sapere se debba «finire con arma» le loro vite. Un’altra ancora, innamoratasi senza essere ricambiata di un ragazzo con cui finisce per fare l’amore, pensa di doversi ritirare in un convento, perché «restando fuori non farei altro che peccare e poi ne morirei di dolore». Le storie raccontate sono spesso drammatiche e violente: vi appaiono aborti (clandestini) imposti da uomini (ammogliati) ad amanti giovanissime, minacce di omicidio-suicidio, terrore di – ancora una volta – aver perso la verginità inavvertitamente, con giochi d’infanzia o in seguito a violenze subite da bambine da parte di uomini più anziani, con conseguente timore di essere abbandonate e umiliate dal promesso sposo. Una ragazza lucana racconta di aver così perso l’onore quando era «una fanciullina», senza averlo potuto raccontare a nessuno; e teme di non potersi fidanzare con un altro, perché non vuole «ingannare nessuno». La sua lettera, pubblicata, riceve risposta da un’altra ragazza, alla quale è accaduta la stessa cosa: «la più terribile per una ragazza (perdere l’onore)». Il trauma della violenza è ricoperto dalla vergogna e dal senso di colpa, che si accompagnano al terrore di essere rovinate per sempre – terrore che si traduce nel dramma di rimanere “zitelle” per tutta la vita. Non era raro, all’epoca, che giovani spose venissero uccise dopo la prima notte di nozze perché il marito aveva nutrito dei dubbi sulla loro purezza: il rifiuto di ingannare il fidanzato cui non si è confessato di aver già «ceduto» a un altro si spiega allora come dilemma morale, ma acquista un aspetto più spaventoso osservato alla luce di una vera e propria angoscia di sopravvivenza. Le donne sanno, da Antigone a seguire, che la punizione per quelle che infrangono la morale è, facilmente, la morte.

Riconoscere, nelle donne che si raccontano, delle pari agli uomini è ancor più inammissibile: le autrici di queste lettere sono individui complessi e tormentati dalle vite interiori ricche e strazianti, nelle quali compaiono le pulsioni più proibite. La libido è mescolata al desiderio d’affetto, e ne risulta una straziante tenerezza della carne che viene bastonata dall’incontro con il mondo.

Il rovescio della trama sono gli uomini, descritti nella maggior parte delle lettere come sessualmente rapaci, violenti, gelosi e crudeli: quando nel 1965 Gabriella Parca pubblica I Sultani, un saggio-inchiesta che documenta l’atteggiamento dei maschi italiani nei confronti del sesso e delle donne, per la rivista TIME viene fotografata mentre spara al poligono. Scrivono che sta «sparando al mito del maschio latino». Ed è vero che anche nelle storie de Le italiane gli uomini appaiono come i cattivi delle fiabe, dei Barbablù in erba occupati a infilzare le infinite farfalle-mogli in un mondo del quale hanno, ancora, il pieno controllo; ma non c’è nessun espediente magico né il cacciatore arriverà nella piccola casa nel bosco al momento giusto per salvare Cappuccetto Rosso. Al contrario, come nella versione postmoderna di Angela Carter, la bambina affronta faccia a faccia il lupo ed è costretta (metaforicamente, e non) a spogliarsi. Ci si potrebbe domandare cosa ne è stato della discendenza delle donne che hanno scritto queste lettere, e tanto delle donne che le hanno scritte quanto di quelle che non l’hanno fatto ma hanno in fin dei conti vissuto la stessa vita – Paolo Milano scrisse sull’Espresso che in queste lettere «tante centinaia di donne diventano una donna sola». Ovvero, ci si potrebbe proporre di tracciare un grossolano bilancio per considerare quanto la condizione femminile sia progredita dall’epoca di queste lettere, che appaiono al lettore oggi come distanti anni luce e, ugualmente, crudelmente vicine. Ma un lavoro di questo tipo non farebbe che mettere in luce ovvietà luminose e sconfortanti insieme: ovvero che certamente le donne italiane non sono oggi schiave degli uomini come lo sono state nel secondo dopoguerra; e ciononostante, il furore e la frustrazione dati dal fatto di rappresentare una paradossale “maggioranza oppressa” delle donne di oggi non sono dissimili da quelli delle loro nonne. Per averne conferma basterà aprire le pagine di nera di un qualsiasi quotidiano nazionale, pronto a ricapitolare con dovizia per ogni femminicidio tutti i particolari dell’ennesimo dramma della gelosia, che consiste nella tragedia di una donna ammazzata da un uomo che l’amava troppo.

Le donne italiane non sono oggi schiave degli uomini come lo sono state nel secondo dopoguerra; e ciononostante, il furore e la frustrazione dati dal fatto di rappresentare una paradossale “maggioranza oppressa” delle donne di oggi non sono dissimili da quelli delle loro nonne.

Pier Paolo Pasolini, che di questo libro curò una prefazione, scrisse di averlo trovato molto divertente: Gabriella Parca gli rispose che nel suo libro non vi era niente di simpatico o buffo, rilevando la cecità dimostrata dallo scrittore-poeta nel ridurre a divertissement lettere dove emergono con forza la fragilità e l’incertezza delle donne – sono pur sempre, scrive Parca, «drammi di donne». E non può forse stupire che il Pasolini critico della cultura di massa arrivasse a idealizzare la condizione di donne poco istruite costrette a una schiavitù domestica letta in chiave alternativamente pre o anti capitalistica. La condizione di alienazione della donna ha evidentemente ben poco di romantico, nonostante il tentativo pasoliniano di proporne una nuova chiave di lettura, secondo la quale, pure esclusa dalla vita pubblica e dalla piena partecipazione alla sua stessa esistenza di essere umano autonomo, la donna «ha goduto di tutti i privilegi che  l’amore dell’uomo le dava: ha vissuto l’esperienza straordinaria di essere serva e regina, schiava e angelo».

L’accusa di conformismo che lo scrittore fa alle donne di queste lettere appare sinistra: la donna ancora in uno stadio primitivo di autocoscienza non può che essere vittima della morale conformista e delle conseguenze che il potere, che essa subisce senza mai detenerlo, la condanna a subire. L’istituzione matrimoniale non prevede alcuna dialettica schiavo-padrone, e l’alienazione in quella che Parca descrive, richiamando il sociologo Erving Goffman, come una «istituzione totale» è senza via di scampo. Le donne di queste pagine si riconoscono, al contrario, costrette in una morale cui è impossibile rispondere pienamente. Una di loro scrive una lettera che viene pubblicata nella sezione del libro intitolata “C’è stato un altro”: racconta di aver avuto fin dall’adolescenza rapporti sessuali con ragazzi diversi, cioè di aver cominciato a «far l’amore con l’uno e con l’altro»: il suo dramma è quello di essersi sempre affezionata – «s’intende» – ovvero di essersi «data» per amore, per tenerezza e affetto, a dei ragazzi che l’hanno poi abbandonata. Il suo stupore è senza fine: perché, si domanda, i giovani pensano male di una donna che vuole a propria volta, senza dover essere supplicata, fare l’amore con loro? La sua situazione è il contraltare esatto di quella di molte delle ragazze che scrivono queste lettere, alternativamente costrette dai fidanzati ad avere rapporti sessuali o incapaci di ammettere persino a se stesse e a un interlocutore anonimo la forza del loro desiderio. L’autrice invece riconosce di esserne sopraffatta fino alla vergogna, e non è in grado di conciliare i suoi sentimenti con gli insegnamenti secondo i quali certi peccati si possono commettere soltanto dopo il matrimonio. Nella limpidezza della sua lettera non c’è traccia di senso di colpa: soltanto un dispiacere pungente, e il senso di smarrimento di chi non può accettare, per costituzione o per temperamento, di sottoporsi a una morale ipocrita e meschina: «Secondo me, quando si vuol bene a una persona, l’atto materiale è una cosa semplice come il bacio […] quando voglio bene a un ragazzo mi vengono spontanee. E non penso affatto come tante ragazze a civettare, ma mi affeziono sempre pensando a un domani».

Laureata in filosofia morale all’Università Statale di Milano, sta conseguendo unmaster in etica contemporanea e antica all’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi. Ha collaborato con testate quali Vice, Rolling Stone e The Submarine.