È finito il desiderio?

Einaudi editore

È la tesi di un saggio di Luigi Zoja uscito da poco per Einaudi, ma è davvero così? E soprattutto che cosa significa?

da Quants numero 1, aprile 2023

Il sesso è in crisi. O meglio: il nostro Occidente, tardo-capitalistico-mondializzato-avanzato, sembra essere nel pieno di una recessione sessuale. Questa almeno è la tesi dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, che nel suo saggio La fine del desiderio. Perché il mondo sta rinunciando al sesso, si occupa della questione. Zoja non è il primo intellettuale a proporre un’analisi a tinte fosche della società contemporanea, e realisticamente non sarà l’ultimo. Dopo la fortunata diagnosi foucaultiana sulla “società del controllo”, varie definizioni-pop si sono succedute, nell’accademia (prima) e nel linguaggio corrente degli intellettuali à la page poi. Per il sociologo Zygmunt Bauman, all’inizio degli anni Duemila la nostra era una “società liquida”; per il filosofo sud coreano, professore a Berlino, Byung-Chul Han, una decina di anni fa eravamo una “società della stanchezza”. La diagnosi di Luigi Zoja, una somma di liquidità e di stanchezza post-capitalistica, è che siamo ormai diventati una “società senza sesso”. Zoja non è il primo a preoccuparsene: nel 2018, in epoca pre-pandemica, sull’Atlantic comparvero due articoli che si occupavano della stessa questione. I titoli erano: Why are young people having so little sex? e What’s causing the sex recession? Il soggetto interessato da questa accusa — il “chi” di questo non fare sesso — è ampio, la tendenza sembra intergenerazionale: da un lato, si osserva un calo fisiologico del desiderio complessivo di una popolazione che, grazie al miglioramento della qualità della vita, assiste a una crescita costante della propria speranza di vita. Almeno in linea teorica, e ancora una volta per ragioni fisiologiche, una popolazione anziana è tendenzialmente meno interessata al sesso rispetto a quanto lo sarebbe una popolazione molto giovane. Il ma proposto nel saggio riguarda tuttavia proprio i giovani, una fascia di popolazione rispetto alla quale un tempo sarebbe parso buffo preoccuparsi: la tendenza dettata nel XX secolo è stata quella di tentare di impedire che i giovani facessero troppo sesso, non certo di preoccuparsi che non ne facessero abbastanza. Sulla solidità di questo punto di partenza, che è il fulcro dell’analisi del saggio, Zoja s’interroga molto poco: è uno psicanalista, non un sociologo, e per quanto si appoggi sui dati solidi del britannico National Survey of Sexual Attitudes and Lifestyles (NATSAL), un sondaggio svolto una volta ogni dieci anni a partire dal 1990 all’University College di Londra, affrontando il saggio si ha l’impressione che la sua convinzione che qualcosa, nel desiderio, stia cambiando, muova più dalla sua esperienza nella pratica clinica che da un rigoroso studio di caso. Zoja racconta di aver osservato comparire nei suoi pazienti quella che chiama la “sindrome anti-erotica dell’orologio”, ovvero una tendenza (indifferentemente maschile e femminile) a controllare l’orologio al polso durante il sesso, perché si ha l’impressione che stia durando troppo, o perché ci si è ricordati di avere qualcosa di più importante o di più pressante da fare. Se immaginare giovani che portano orologi da polso è difficile, non ho invece difficoltà a immaginare qualcuno che, durante il sesso, getti l’occhio allo schermo del cellulare per controllare se ha ricevuto notifiche. Dello studio anglosassone Zoja fa spesso un uso strumentale, con lo scopo di consolidare la sua tesi, più che tenerlo come punto di ancoraggio per formulare questioni. L’uso strumentale di un sondaggio di questo tipo — di per sé completamente neutro, e usato per misurare soprattutto la salute sessuale della popolazione in maniera da indirizzare decisioni legate alla salute pubblica: prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili, vaccinazioni e così via —  così come una certa postura che anima il saggio intero, potrebbero essere contestati. 

Al di là di un dibattito sul rigore metodologico, il saggio articola due questioni molto ampie, innestate l’una sull’altra. La prima, per la quale Zoja prova a elaborare una risposta, si potrebbe riformulare in questa maniera: perché le fasce più giovani di una popolazione che è progressivamente più ricca, più sessualmente liberata, più bella e con sempre maggiori — almeno in linea teorica — possibilità di incontrarsi per andare a letto, fa statisticamente meno sesso delle generazioni che l’hanno preceduta? Insomma, come recitava il titolo di un pezzo di critica cinematografica, pubblicato online sulla rivista Blood Knife, Everyone Is Beautiful, And No One Is Horny: tutti sono belli, e nessuno è eccitato. La seconda questione è sottaciuta, ma sembra aprire un punto su cui è necessario soffermarsi: perché che si faccia meno sesso è un fatto significativo, al punto da destare interesse accademico e persino preoccupazione? A questa seconda domanda si può rispondere in due maniere differenti. La prima sarebbe quella di congedarla come una preoccupazione più o meno infondata, e di leggere il saggio di Zoja come la lunga lamentela dissennata dell’uomo anziano che urla contro le nuvole: O tempora, o mores! I giovani non hanno più voglia di fare l’amore. La seconda è più interessante: consiste nel chiedersi, se prendiamo per vera l’ipotesi, se questa tendenza dica qualcosa di noi. E, se sì, esattamente che cosa? 

Zoja e Badiou si domandano, con approcci diversi, se la mancanza quantitativamente misurabile di rapporti sessuali non sveli forse qualcosa di qualitativo e di più ineffabile, riguardo una scarsa capacità, nella contemporaneità, di costruire relazioni.

Alain Badiou è un filosofo francese, allievo di Gilles Deleuze. Badiou intervenne nel 2016 al festival di Avignone, uno dei grandi eventi culturali francesi, in una conversazione con il giornalista Nicolas Truong che venne poi pubblicata in Francia con il titolo di Éloge de l’amour. Il saggio si apre con una citazione in esergo di Arthur Rimbaud, poète maudit, tratta dal suo ultimo poema in prosa Une saison en enfer. Badiou, citando Rimbaud, dichiara: «L’amour est à réinventer, on le sait», «L’amore, si sa, è da reinventare». Badiou sceglie di non parlare strettamente di sesso — lo fa meno di Deleuze, indubbiamente, e meno di Zoja, che con l’occhio dello psicanalista lo legge come un fenomeno multi-significante, capace di dirci quasi tutto su quello che succede nell’inconscio collettivo — quanto piuttosto di desiderio, e soprattutto di amore. 

Uno degli effetti principali dell’onda lunga della rivoluzione sessuale è stato di arrivare a scindere in maniera decisa l’amore dalla vita monogama di coppia; e poi, in seconda battuta, il piacere e il desiderio sessuale dall’amore. Nel ventunesimo secolo, i siti di incontri online e in seguito le applicazioni di dating hanno applicato la scissione in maniera ancora più netta: perché allora parlare di amore per parlare del sesso? La risposta è che il sesso è un atto che si fa con qualcun altro — è un rapporto sessuale, sottolinea Badiou — e che finisce allora inevitabilmente per avere a che fare con il modo in cui costruiamo le relazioni con gli altri, il nostro vivere nel mondo, la nostra organizzazione sociale. Il rilascio ormonale legato al rapporto sessuale produce endorfine e dopamina, che producono una sensazione generalizzata di rilassamento e di benessere. Un’attività sportiva intensa funziona all’incirca nella stessa maniera, e allo stesso modo agiscono sui nostri cervelli le sostanze che ci causano dipendenze. Endorfine e dopamina sono gli ormoni che ci spingono a volere il sesso di nuovo, e che ci fanno provare soddisfazione alla fine dell’atto. A differenza del fumo di sigaretta e dei bicchieri di vino, i rapporti sessuali stimolano anche la produzione di ossitocina e prolattina, che vengono chiamati ormoni dell’attaccamento: contribuiscono alla costruzione di un legame tra madre e neonato — l’allattamento è un altro dei processi nel quale sono coinvolti — e tra partner sessuali. Nel rapporto sessuale l’altro, tendenzialmente, è sempre presente. Zoja e Badiou si domandano, con approcci diversi, se la mancanza quantitativamente misurabile di rapporti sessuali non sveli forse qualcosa di qualitativo e di più ineffabile, riguardo una scarsa capacità, nella contemporaneità, di costruire relazioni. E se questa atomizzazione sessuale estrema non sia un sintomo, ancora debole, di qualcosa che è in fieri o di forse già fatto, e che è indice di un progredire che potrebbe spaventarci. 

Va detto che, nel guardare al futuro, il saggio di Zoja pecca di etnocentrismo, volendo fare dell’Occidente industrializzato il mondo intero. Con l’eccezione di un brevissimo passaggio sceglie di ignorare il fatto che ci siano continenti interi, come l’America Latina, l’Africa e l’Asia, con tassi di natalità alle stelle, e dove le strutture socio-economiche sono tanto distanti da quelle Europee e Nordamericane da far apparire grossolana la necessità di metterlo in evidenza. Le due sole nazioni citate, Giappone e Cina, sostengono la sua tesi: come chez nous, anche nell’Oriente iper-sviluppato nessuno sembra più avere voglia di fare sesso. Secondo Zoja, quanto più le altre nazioni copieranno lo sviluppo dell’Occidente, «tanto più potranno ricalcare anche questo suo problema».  

In un editoriale pubblicato di recente, dal titolo Have More Sex, Please!, anche la sex columnist Magdalene J. Taylor ha sostenuto sul New York Times che statisticamente siamo più soli, e che statisticamente facciamo meno sesso: secondo il General Social Survey (GSS) del 2021, più di un quarto degli Americani intervistati non aveva fatto sesso nemmeno una volta nell’anno precedente. Si tratterebbe del dato più basso mai registrato, che però risponde a un trend generale, come si diceva, di calo di interesse per l’attività sessuale. Vista la natura intrinsecamente relazionale del sesso, sembra difficile non ipotizzare che si tratti di due fenomeni profondamente legati. La situazione sembra così grave da spingere Taylor a parlare di una nuova epidemia esplosa negli Stati Uniti: una “loneliness epidemic”. Secondo Luigi Zoja, però, il problema riguarda, in maniera specifica, l’Eros che resta “non compensato” anche nei gruppi dove la vita sociale è ricca e intensa. 

Le proteste del maggio francese, nel 1968, ebbero inizio nel campus dell’Università di Nanterre, appena fuori Parigi. Per arrivarci, dal centro città, si prende la RER A che attraversa il centro città, passando accanto alla Tour Eiffel e all’arco di Trionfo, per collegare la periferia ovest della città a quella a est. Il campus dell’università di Nanterre si trova esattamente all’uscita della stazione. All’epoca della sua costruzione venne pensato come un campus universitario immersivo e moderno, animato da professori che avevano scelto di lasciare la loro cattedra di prestigio alla Sorbona per insegnare, con metodi innovativi, a studenti cresciuti in un contesto meno agiato e meno borghese del Quartiere Latino. La protesta studentesca ebbe inizio perché gli studenti lamentavano letti troppo piccoli, che non permettevano di fare l’amore come avrebbero voluto, e perché le regole del campus vietavano che le ragazze dormissero negli studentati dei maschi. Fu tra gli studenti di Nanterre, e tra le loro questioni di letto (e, quindi, di principio), che la protesta studentesca prese a infiammare Parigi. (Gli studenti della Sorbona avevano, già qualche anno prima, ottenuto una concessione simile: nell’autunno del 1965 avevano protestato per tre mesi, al fine di impedire la costruzione di una loggia di concierge davanti allo studentato delle ragazze nella città universitaria). La liberazione della sessualità è stata per lungo tempo uno spazio di rivendicazione politico: nel Sessantotto, non soltanto in Francia, la speranza viva era quella di poter liberare contemporaneamente il proprio desiderio e di liberare sé stessi dalla costrizione al lavoro. La rivoluzione sessuale della fine degli anni Sessanta fu, in questo senso, una rivoluzione mancata. La liberazione si limitò a concedere una maggiore permissività rispetto ai comportamenti sessuali, senza che molto cambiasse sul piano della vita economica, o della vita sociale; una volta liberato il sesso e reintegratolo alle politiche del mercato, quello che si è ottenuto è stata una sua versione scarica, depotenziata e de-eroticizzata. Privato di ogni suo potere distruttivo il sesso sembra aver perso, in parte per questa stessa ragione, anche molto del suo potere attrattivo. L’ipotesi di Zoja è che di questa sovrabbondanza, un surplus, di stimolazione e di disponibilità erotica, l’inconscio collettivo si sia, semplicemente, “stancato”: anche l’Eros potrebbe nascere, crescere, declinare e, eventualmente, morire. 

La liberazione della sessualità è stata per lungo tempo uno spazio di rivendicazione politico: nel Sessantotto, non soltanto in Francia, la speranza viva era quella di poter liberare contemporaneamente il proprio desiderio e di liberare sé stessi dalla costrizione al lavoro.

La conclusione del saggio è angosciante nel suo pessimismo, nel segno del Disagio della civiltà di Freud. Nell’opera scritta tra le due guerre, il padre della psicanalisi sosteneva che la pulsione sessuale non potesse essere adeguata alla vita nella civiltà, e che una sua liberazione assoluta avrebbe decretato la fine della civiltà stessa. Zoja sembra iscriversi in questa linea, ipotizzando in ultima battuta che “il calo generale dell’eros possa manifestare una inconscia rinuncia dell’umanità alla vita, perché troppo faticosa”. Il fascino della lente psicanalitica finisce per diventare in ultima analisi il suo limite stesso: Freud, come Zoja, tenta di costruire una teoria del mondo, in grado di spiegare ogni fenomeno che vi appare in superficie rimanendo all’interno di un quadro dove agiscono soltanto forze inconsce, pulsionali da un lato e repressive dell’altro. Per quanto la postura dello psicanalista permetta di porre la questione in maniera interessante, e per quanto la teoria di un surplus inevaso di eros possa spiegare, in una certa misura, una parte del disinteresse contemporaneo nei confronti del sesso, uno schema di sole forze cieche (Freud la chiamò “psicodinamica”) che si limitano ad attivarsi e a circolare, è forse più efficace per descrivere il sistema di funzionamento di un circuito elettrico che l’intero movimento della società umana.

Laureata in filosofia morale all’Università Statale di Milano, sta conseguendo unmaster in etica contemporanea e antica all’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi. Ha collaborato con testate quali Vice, Rolling Stone e The Submarine.