La Tartaruga ripubblica l’opera omnia di una pensatrice chiave del femminismo italiano di seconda ondata, a partire da Sputiamo su Hegel.
da Quants numero 8, dicembre 2023
Il femminismo di terza e quarta ondata occidentale ha assunto, ai nostri occhi, il ruolo di una moneta di scambio relazionale, ammorbidendosi fino a diventare un accessorio che si porta in giro con facilità, usato (dagli uomini, ma non solo) come strumento di auto-posizionamento sociale, non compromettente e che permette a ciascuno di dipingersi come qualcuno di buono, che sa da quale parte è giusto stare.
A luglio di quest’anno, La Tartaruga — storica casa editrice femminista, ora pubblicata come collana da La Nave di Teseo — ha annunciato che ripubblicherà per intero l’opera di Carla Lonzi, una delle pensatrici chiave del femminismo italiano di seconda ondata. I suoi libri, negli anni successivi alla sua prematura scomparsa dovuta a un cancro ai polmoni, erano diventati oggetti di culto e di contrabbando: rivenduti a centinaia di euro nei seconda mano e su eBay, si potevano comprare solo su prenotazione alla Libreria delle Donne di Milano, che ancora ne possedeva le copie originali stampate negli anni Settanta. Il lavoro di ripubblicazione intrapreso dalla scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti, che è succeduta nella direzione editoriale alla fondatrice Laura Lepetit, è stato accolto con gratitudine ed entusiasmo da chiunque non fosse riuscito a procurarsi i suoi libri-feticcio. Prima della ripubblicazione, era diventato molto popolare un fotogramma della serie televisiva Rai-HBO L’amica geniale, nel quale il più famoso dei saggi di Lonzi, Sputiamo su Hegel, si trova su una scrivania, in cima a una pila di libri, insieme a un volantino di Lotta Femminista: si tratta di un libretto con la copertina verde scuro, il cui titolo integrale recitava Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale.
“Sputare su Hegel” vuol dire in senso forte rifiutare tutta la cultura, perché maschile e maschilista. Non soltanto il reazionarismo di destra, quindi, ma ancor prima i rappresentanti di uno schieramento politico (e teorico) che si vuole progressista: gli hegeliani datisi al marxismo, i freudiani e la psicanalisi, in breve tutti gli esponenti di una cultura maschile e maschilista che nulla ha fatto e nulla farà per cambiare la condizione della donna.
La nuova copertina è fucsia e riproduce un’opera di Carla Accardi, a sua volta femminista italiana e a lungo amica di Lonzi: dopo essere stata intervistata per il saggio Autoritratto (De Donato, 1969), Accardi diventa per Lonzi un’amica e compagna nel percorso femminista. Loro due, insieme a Elvira Banotti, elaborano insieme il Manifesto del gruppo di Rivolta Femminile, un testo cristallino che apre la raccolta Sputiamo su Hegel. Maria Luisa Boccia, scrittrice e politica italiana, sottolinea l’importanza che Lonzi accorda nel suo percorso femminista alla relazione di amicizia e di riconoscimento instaurata con Accardi: « Senza un rivolgersi di donna a donna, senza una forma, come che sia, di autorizzazione femminile […] una donna non si sentirebbe in diritto, e non si riconoscerebbe in grado, di “rivolgersi alle altre”», scrive in una monografia intitolata L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi. La collaborazione, durata un decennio, tra le due Carla si chiude alla fine dei Settanta per un dissidio che fa parlare Lonzi di un “inganno” al mondo delle donne: Accardi, artista affermata, non vuole rinunciare al riconoscimento che il mondo – per Carla Lonzi necessariamente maschile – dell’arte riesce a darle; al contrario, il suo femminismo le impone di proteggere e “sottrarre” i suoi pensieri più autentici a quel pubblico. Sotto questa luce va letto, anche, l’allontanamento di Lonzi dal mondo della critica d’arte da cui aveva preso avvio il suo percorso intellettuale; brillante allieva di Roberto Longhi e di Giulio Carlo Argan, tra il 1969 e il 1970 “scopre” il femminismo, forse dopo essere entrata in contatto con alcuni gruppi di femministe americane che praticano l’autocoscienza, i testi delle quali appaiono in Italia nel 1970. La scoperta del femminismo è per Lonzi «una festa», che la spinge ad abbandonare il milieu accademico nel quale aveva lavorato. La sua ultima pubblicazione come critica è proprio Autoritratto (1969), lavoro che comporta una «autoinvestitura come soggetto» in seguito alla quale il «rifiuto per la cultura» si rafforza e diviene definitivo. Chiuse le porte al mondo dell’arte, si spalancano quelle del femminismo: proprio nel luglio 1970 il gruppo di Rivolta Femminile pubblica il Manifesto che ne è l’atto costitutivo.
«Così facendo» scrive nei suoi diari «stavo dalla parte delle donne, anche se per il momento potevo poco comunicare con loro». La distanza tra la sua posizione e quella di Accardi è essenziale, e permette di chiarire il senso del femminismo di Lonzi, e della maniera in cui esso, come condizionamento esistenziale, ha intessuto la trama della sua vita.
Le proposte nette e chirurgiche del Manifesto, che non vanno intese se non come «un modo iniziale» di pensare il femminismo, tracciano il quadro di una riflessione che ancora oggi, dopo cinquant’anni, è radicale e rivelatoria: l’analisi delle prime righe è orientata allo scontro con la teoria critica dell’epoca, così come avverrà nelle pagine successive di Sputiamo su Hegel.
Non c’è traccia di quello che oggi si chiama approccio intersezionale, ovvero di una teoria che suggerisce che le categorie sociali, biologiche e culturali interagiscano su più livelli. Non c’è comunanza di intenti possibile, né possibilità di dialogo tra l’uomo e le vittime che ha sempre oppresso.
Il rischio che si pone nella lettura di una raccolta come questa è di non prendere sufficientemente sul serio le sue analisi, di farne degli slogan e poco altro, e di edulcorarle trattandole come provocazioni prive di un impianto teorico fondato.
“Sputare su Hegel” vuol dire in senso forte rifiutare tutta la cultura, perché maschile e maschilista. Non soltanto il reazionarismo di destra, quindi, ma ancor prima i rappresentanti di uno schieramento politico (e teorico) che si vuole progressista: gli hegeliani datisi al marxismo, i freudiani e la psicanalisi, in breve tutti gli esponenti di una cultura maschile e maschilista che nulla ha fatto e nulla farà per cambiare la condizione della donna. Il lavoro di queste prime pagine del Manifesto di Rivolta Femminile è martellante e impetuoso: contro il marxismo, con la sua lotta di classe che «esclude la donna» e l’ha venduta alla «rivoluzione ipotetica». La donna è «il grande oppresso della civiltà patriarcale»: non c’è traccia di quello che oggi si chiama approccio intersezionale, ovvero di una teoria che suggerisce che le categorie sociali, biologiche e culturali (etnia, classe sociale, sesso biologico…) interagiscano su più livelli. Nella lettura di Lonzi questo sguardo è assente: non c’è comunanza di intenti possibile, né possibilità di dialogo tra l’uomo e le vittime che ha sempre oppresso. Le posizioni espresse sono a tratti estreme, e la loro mancanza di sguardo d’insieme è stata, in seguito, contestata: «Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità. L’uomo nero è uguale all’uomo bianco, la donna nera è uguale alla donna bianca». Si potrebbe osservare che non si tratta d’altro che di un femminismo borghese, incapace di riconoscere nell’asservimento della donna – del suo “lavoro di cura” e del suo lavoro riproduttivo – uno strumento essenziale alla riproduzione del capitale, punto chiave dei femminismi marxisti (come avviene nelle analisi di Rosa Luxemburg e di Alexandra Kollontaj). La critica sarebbe però fuori fuoco: in prima misura, perché Lonzi riconosce a più ripresa la vicinanza che esiste tra «la coscienza marxista-leninista» come coscienza dell’oppressione e dell’ingiustizia e «sofferenze, bisogni e aspirazioni» delle donne. La sottomissione della donna non è però un’invenzione del capitalismo, che l’ha semplicemente ereditata e messa a frutto. Il primo oggetto di accumulazione originaria, l’oggetto sessuale, è la donna: «al marxismo sfugge la chiave emozionale che ha determinato il passaggio alla proprietà privata», ovvero una chiave erotico-emotiva radicata nel desiderio predatorio dell’uomo nei confronti della compagna.
Il punto centrale della riflessione anti-marxista lonziana è però un altro: al di là delle divergenze teoriche (sulle quali altre donne, come Elvira Banotti, compagna di Lonzi e di Accardi nei primi passi di Rivolta Femminile, si confrontarono con i marxisti), il femminismo di Carla Lonzi rifiuta l’impegno politico e il riconoscimento della donna in un quadro discorsivo patriarcale, che propone un’uguaglianza che è «dilemma imposto dal potere maschile» che non vuole in alcuna maniera rinunciarvi. Da qui seguono il rifiuto del matrimonio e della famiglia, «caposaldo dell’ordine patriarcale» che si regge sull’esclusione della donna dalla progettazione di un futuro rivoluzionario in cui possa a propria volta essere libera. Carla Lonzi rivendica una «deculturizzazione» che si basi sulla rinuncia alla «necessità ideologica» in favore di un radicamento nell’esistenza autentica: una nuova valorizzazione della maternità, esperienza «snaturata dal dissidio tra i sessi» ma che non per questo manca di essere «una nostra risorsa di pensieri e di sensazioni, la circostanza di una iniziazione particolare». È seguendo questa linea di pensiero, quella di una rivendicazione di libertà assoluta di un movimento delle donne che non è «internazionale, ma planetario», che anche pratiche su cui il femminismo politico degli anni Settanta imposta la sua lotta, come l’interruzione volontaria di gravidanza e i metodi di controllo delle nascite, non vengono salutati dalle donne di Rivolta Femminile come proposte salvifiche e liberatorie. Innanzitutto, perché nei gruppi di autocoscienza ogni donna ha la possibilità di prendere parola e di testimoniare alle altre e a un sé autentico la propria storia personale. Sul tema dell’aborto in particolare il dibattito era spesso acceso, come ha scritto e raccontato spesso Luisa Muraro, filosofa e tra le fondatrici della Libreria delle Donne di Milano e del gruppo Diotima: «Per alcune abortire era stata una liberazione, per altre fonte di sensi di colpa gravi […] Nelle nostre discussioni sull’imminente legge 194 non c’era ombra di trionfalismo e di rivendicazione. Si esigeva piuttosto che gli uomini smettessero di mettere incinte le donne e poi proibissero l’aborto» (da un’intervista del 2018 all’Avvenire). Carla Lonzi e le donne di Rivolta si muovono nella medesima linea, rifiutando una «maternità pagata al prezzo dell’esclusione». Esclusione dalla vita attiva, dalla progettualità come dal mondo lavorativo: una costrizione imposta dall’uomo, nelle mani del quale l’interruzione volontaria di gravidanza, in mancanza di un cambiamento sociale reale, non diventerebbe che un altro strumento di potere. Il principio fondamentale è che «Una donna non può essere obbligata a diventare madre. La maternità inizia con un sì». È la posizione di Muraro: se la donna decide di abortire, lo Stato deve aiutarla. Il punto è piuttosto «l’irresponsabilità sessuale degli uomini», alla quale sono dedicate le pagine dei saggi (contenuti nella raccolta) Sessualità femminile e aborto e La donna clitoridea e la donna vaginale.
Il percorso di Carla Lonzi è quello di un difficile e doloroso scardinamento delle dicotomie e delle soluzioni facili: al dogmatismo militante preferisce sempre la strada riflessiva che l’autocoscienza indica.
Il prezzo della gravidanza non viene pagato in quanto madri, ma in quanto madri costrette alla produttività in una società patriarcale: «non è il figlio che ci ha fatto schiave, ma il padre» scrive Lonzi in Sputiamo su Hegel. Al contrario, la maternità viene valutata positivamente come «il momento in cui […] la donna si disaccultura» e quindi si libera, nel corso di un viaggio durante il quale la sua coscienza «si volge spontaneamente all’indietro, alle origini della vita, e si interroga». Le posizioni di Lonzi sono radicali e delicate, perché si nutrono di un’esperienza di vita autentica, che rende testimonianza della complessità e della fragilità della condizione umana e della condizione della donna, che prende parola come un «soggetto imprevisto» che emerge dopo quattromila anni di silenzio e osservazione di vicissitudini dalle quali è sempre stata relegata a un ruolo di passività.
«Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita proposta dalla donna»: nel rifiuto del maschile, dell’impegno politico e della produttività risuona anche la piena volontà di prendere le distanze da ogni proposta che nasca come soluzione a false contrapposizioni che il patriarcato propone e a cui poi trova una soluzione che ne garantisca il perpetuarsi. Ecco allora la distinzione tra la donna lavoratrice e libera che rinuncia alla maternità e la donna costretta dalla cura dei figli a rinunciare alla propria indipendenza; o ancora la già citata distinzione di impianto freudiano tra la donna clitoridea e la donna vaginale, sessualmente matura perché capace di godere pienamente in maniera complementare al maschile.
Il percorso di Carla Lonzi è quello di un difficile e doloroso scardinamento delle dicotomie e delle soluzioni facili: al dogmatismo militante preferisce sempre la strada riflessiva che l’autocoscienza indica. L’uscita dalla militanza e dal lavoro intellettuale rappresenta anche la strada maestra per l’ingresso nella sola vita autentica possibile, una vita nella quale la donna possa liberarsi della sofferenza ed essere autonoma. Si tratta di una proposta estremamente ricca, esistenziale prima ancora di essere teorica, della quale il femminismo oggi ha più che mai bisogno: nell’osservazione e nel mantenimento della complessità, nella rinuncia alla lotta tra schieramenti, nell’assunzione di un punto di vista pienamente critico alla ricerca di una strada che sia sempre altra, e nell’affermazione, finalmente, di un femminismo che consista in un «punto di verità che viene alla luce».