Nel 1975 Brian Eno, artista, musicista, inventore della musica ambient e incidentalmente anche una delle più grandi menti del Novecento, fonda un’etichetta, la Obscure Records, con la quale pubblica dieci album in tre anni. Tra questi ci sono capolavori di Gavin Bryars, David Toop, John Cage, Michael Nyman, Penguin Café Orchestra e Harold Budd.
Oggi l’italiana Dialogo ripubblica l’intero catalogo della Obscure in uno splendido cofanetto, disponibile in LP e CD, con tutti gli album rimasterizzati e un prezioso libro di accompagnamento. Per gentile concessione dell’etichetta pubblichiamo due dei testi che contiene.
da Quants numero 8, dicembre 2023
Obscure Records Cryptic Locomotion
di David Toop
La Obscure Records è nata nel bel mezzo di un decennio tumultuoso. Forse tutti i decenni lo sono, ma gli anni Settanta si distinsero per l’intensità delle lotte. Le conquiste sociali del dopoguerra venivano ferocemente contestate dalle forze conservatrici, che vedevano nella parola “liberazione” – quella delle donne, dei neri, dei lavoratori, degli omosessuali, degli animali, e altri movimenti progressisti – il rischio di una deriva verso l’anarchia, da combattere a tutti i costi.
Dalla religione alla politica fiorivano nuovi culti e fazioni. Lo ha raccontato Andy Beckett nel suo saggio sulla Gran Bretagna degli anni Settanta, When the Lights Went Out: «. . . L’estate del 1975 fu febbrile, un boom di cospirazioni e proteste». Un fermento che a tratti minacciò di inghiottire la scena della musica sperimentale del Regno Unito, come quando la svolta verso la militanza per il partito Comunista, il marxismo-leninismo e il pensiero maoista di due dei membri più in vista della Scratch Orchestra – Keith Rowe e Cornelius Cardew – portò alla scissione del gruppo.
La musica della Obscure non era turbolenta o selvaggiamente conflittuale, ma incanalava il rifiuto verso alcune tendenze consolidate del modernismo del XX secolo – il mondo del serialismo, della grande serietà, delle partiture ultra-complesse, della musica elettro-acustica accademica e del free jazz. Per quanto mi riguarda, dal 1971 ero immerso nella nascente scena free improv londinese, e lavoravo principalmente con il batterista Paul Burwell. Decidemmo di chiamare il nostro duo Rain In the Face, collaboravamo con il poeta sonoro Bob Cobbing, l’artista Marie Yates, il danzatore butoh Mitsutaka Ishii, il poeta-performer Carlyle Reedy e l’innovatore del live electronics Hugh Davies.
Insieme a Davies ci unimmo a un piccolo gruppo di musicisti che inventavano e costruivano i propri strumenti.
Nel 1974 ho curato e co-pubblicato con Paul un libretto dedicato a questo gruppo, composto da me, Paul, Hugh, Max Eastley, Evan Parker e Paul Lytton. Il titolo era New/Rediscovered Musical Instruments. Al momento della pubblicazione, una copia fu inviata a Brian Eno, che in risposta mi telefonò a casa per parlarmi della sua nuova impresa, un’etichetta discografica che avrebbe promosso varie forme di musica sperimentale. Così nel 1975 Max Eastley e io condividemmo il quarto LP pubblicato dalla Obscure, New and Rediscovered Musical Instruments, con un lato a testa: le registrazioni delle sculture sonore ipnoticamente inquietanti di Max sul primo, le mie composizioni sul secondo.
La musica della Obscure non era turbolenta o selvaggiamente conflittuale, ma segnalava un rifiuto di alcune tendenze consolidate del modernismo del XX secolo – il mondo del serialismo, della grande serietà, delle partiture ultra-complesse, della musica elettro-acustica accademica e del free jazz.
Fin dagli inizi di Rain In the Face ho scritto e interpretato canzoni, spesso utilizzando cut-up e metodi casuali per dare forma ai testi. Ero anche sempre più interessato alla bioacustica. Dagli uccelli agli insetti, ai mammiferi marini, ai pipistrelli, agli elefanti e ai topi, le entità non umane comunicano con segnali sonori che operano al di fuori della gamma del nostro udito. Che cosa ci dice questo rispetto alla realtà e alla percezione, per come è definita dagli esseri umani? Un programma televisivo sulle balene della Groenlandia e i loro suoni a bassa frequenza giocò un ruolo essenziale nell’intensificare il mio interesse, e nella primavera del 1975 iniziai a strutturare un brano basato su quell’idea. Rimasi profondamente colpito anche dall’antica musica di corte del gagaku giapponese, insieme alla danza bugaku, alla musica di corte coreana e all’aak, la musica dei santuari confuciani. Realtà musicali interrelate, originarie dell’India, del Sud-est asiatico e della Cina, che venivano suonate (e ballate) a un ritmo estremamente lento, e che combinavano due elementi principali: un suono torbido e penetrante, originato dai flauti alti, dall’organo a bocca e dall’oboe a canne di bambù spezzate, che si univa a tonalità eterogenee, punteggiate in modo deciso da strumenti a percussione e archi in una struttura ritmica di cicli concentrici che l’etnomusicologo Jaap Kunst ha definito “colotomica”. Era come se all’etereo, al respiro o all’assenza si potesse dare coerenza temporale e strutturale senza perdere la forza evocativa del vuoto.
Affascinato com’ero all’epoca dalle pratiche sciamaniche, dalla trance e dalle tecniche divinatorie, concepii il mio pezzo come una sorta di rito oracolare che esplorava il tempo, ascoltando il silenzio. «L’arte è un oracolo», scrissi in una specie di partitura, «che plasma una contro-struttura nella struttura; attraverso vaghi riflessi di una forma. Come la balena della Groenlandia lancia le sue basse pulsazioni e i suoi gemiti nel freddo del mare».
Per come l’avevo ideata, l’opera era divisa in sette parti: prima dell’inizio, dopo la fine, tre blocchi di suono in lento movimento, due brevi silenzi. La stessa struttura è stata applicata al mio lato del disco – tre brani con due brevi silenzi a intramezzarli – e a una delle canzoni, “The Chair’s Story”, il cui testo è ripetuto tre volte con pause a separarle; ogni ripetizione è accompagnata da flauti di bambù autocostruiti di diverso tipo: traversi per la prima sezione, percussivi per la seconda, suonati nell’acqua per la terza. Per queste sezioni sono stati sovraincisi diversi flauti, ma le tracce registrate in precedenza sono state silenziate durante ogni sovraincisione. Una strategia in grado di restituire ritmi insoliti e aleatori, uniti ad accordi mutevoli, che mi fu ispirata da un nastro di richiami di rane australiane trovato negli archivi sonori della BBC.
Questa era allora, e rimane ancora oggi, una musica indefinibile, inclassificabile. Sperimentazione? Ricerca? Musica Classica?
Qualsiasi tentativo di chiuderla in una casella pare destinato al fallimento perché a ogni ascolto la natura prismatica e multiforme di questa estetica sembra trasformarsi in qualcosa di diverso dagli ascolti precedenti.
“L’intera sequenza di musica da ballo inclusa in un lato di questo disco…”. Ho scritto nelle mie note di copertina originali. “Do the Bathosphere”, cantata con voce acuta su un pianoforte aperto, era sia un tormentone con un proprio ballo inventato chiamato batisfera (come in “The Locomotion” di Little Eva), sia un incantesimo per immergersi nelle profondità (psicologiche o spirituali). Forse lo scopo era proprio quello di immergersi insieme alla balena bowhead, seguendola nelle sue ruminazioni solitarie, per imparare il suo linguaggio, ma in questo caso il batiscafo per l’esplorazione delle profondità marine era un mero veicolo sferico di bathos, che pur mirando al sublime era concepito in modo consapevolmente assurdo, come un respiro tremolante e indifeso. A un certo punto mi trovai immerso anche nel funk, nel soul e nella disco: c’era qualcosa di palesemente perverso, ma (almeno per me) anche di assolutamente logico in questa enfasi sulla danza, ed è per questo che ho voluto citare Alvin Cash di St. Louis, la cui discografia degli anni Sessanta – “Twine Time”, “The Philly Freeze” e “Keep On Dancing” – era specializzata in hit dance R&B. Non c’era motivo di pensare che il ballo dovesse essere limitato a un periodo o a uno stile specifici. In quel periodo visitavo lo zoo di Londra per studiare animali come i lenti loris e i potto notturni (i cui movimenti pazienti e silenziosi sono noti come “locomozione criptica”) o le grandi lucertole del rettilario che stavano in piedi senza muoversi per lunghi periodi, per poi cambiare improvvisamente posizione, quasi più velocemente di quanto l’occhio potesse afferrare. In molte delle uscite della Obscure si possono trovare richiami a canzoni popolari e a musica strumentale di varie epoche. Questo, di per sé, segnava una differenza rispetto alle precedenti generazioni di sperimentatori. La mia voce acuta e l’autoipnosi per “The Chair’s Story” sono state ispirate dallo sciamanesimo e dalla musica trance, ma anche da Smokey Robinson che canta “I’ll Try Something New” o da Sly Stone che mormora, geme e ringhia in “Time” e “Just Like a Baby”. Sebbene nel 1975 fossi in grado di articolare queste idee e connessioni, anche se in modo criptico, per la maggior parte non ero in grado di convincere nessuno a prenderle sul serio, tanto meno a sostenerle. Con la Obscure Records, Brian Eno ha offerto la rara opportunità che si potesse compiere un miracolo del genere, e per questo gli sono eternamente grato.
Dall’Oscurità Verso La Luce
di Carlo Boccadoro
La Obscure Records sembra prendere vita da un groviglio di contraddizioni: essere un’etichetta musicale fondata da un uomo di pensiero (Brian Eno) che si autodefinisce “non-musicista”; pubblicare dischi dichiaratamente non commerciali e farseli distribuire dalla Island Records, storica etichetta che ha introdotto decine di gruppi rock, reggae e dub in tutto il mondo, da Bob Marley a John Martyn, dai Roxy Music agli Sparks, dai Black Uhuru ai Traffic; essere al di fuori dalle logiche dell’industria discografica e allo stesso tempo lavorarci assieme; queste contraddizioni, però, non fanno altro che accrescere il fascino di questi dieci album che continuano ancor oggi dopo decenni ad apparirci, nella cupa austerità delle loro copertine, simili al monolite presente nel film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio, vere e proprie porte aperte verso universi musicali paralleli e sconosciuti.
La Obscure è stata, nella sua esistenza di soli tre anni, la voce di un fenomeno culturale importantissimo, la scuola compositiva anglo-americana degli anni Sessanta e Settanta ribellatasi alle Accademie che anche in Inghilterra seguivano ciecamente (o sordamente?) le avventure della scuola di Darmstadt, scegliendo invece di gettare le basi di un’avanguardia orgogliosamente alternativa a essa, dove le suggestioni del minimalismo che provenivano da Oltreoceano venivano filtrate attraverso una cartina di tornasole carica di memorie che comprendeva secoli di storia (pensiamo alle opere di Michael Nyman e Gavin Bryars, con i loro riferimenti al mondo della musica elisabettiana di Henry Purcell e John Blow o alle variazioni sul Canone in Re Maggiore di Johann Pachelbel realizzate da Brian Eno).
Le briciole che la Obscure Records, come Pollicino, ha lasciato sul proprio cammino in pochi anni sono servite a un paio di generazioni di musicisti per ritrovare la strada di una ritrovata libertà espressiva e uscire dall’oscurità in cui i cascami delle avanguardie avevano rinchiuso la cosiddetta Nuova Musica.
Allo stesso tempo essa accoglieva al suo interno le suggestioni dell’alea di John Cage e i suoni elettronici provenienti dal mondo della sperimentazione rock, creando uno stile musicale di assoluto rigore che però (ecco un’altra apparente contraddizione) raggiungeva immediatamente una platea di ascoltatori più vasta di quella che generalmente segue la musica contemporanea classica, senza fare il minimo compromesso stilistico ma attraverso le sonorità seducenti del The Sinking of Titanic di Bryars oppure le risonanze di Decay Music di Nyman, passando per le suggestioni pre-ambient di Discreet Music di Eno, l’implacabilità ritmica delle Machine Music di John White, o introducendo al pubblico europeo pagine dell’allora totalmente sconosciuto John Adams nonché gioielli nascosti dal catalogo di John Cage.
Composizioni che talvolta si affidavano a calcoli matematici e procedimenti automatici innescati dall’autore e poi proseguivano automaticamente, dando però vita a partiture tutt’altro che fredde o
prive di espressività, anzi ricche di suggestioni poetiche.
Questa era allora, e rimane ancora oggi, una musica indefinibile, inclassificabile. Sperimentazione? Ricerca? Musica Classica?
Qualsiasi tentativo di chiuderla in una casella pare destinato al fallimento perché a ogni ascolto la natura prismatica e multiforme di questa estetica sembra trasformarsi in qualcosa di diverso dagli ascolti precedenti.
Come definire allora il corpus artistico di questa straordinaria avventura le cui radiazioni hanno investito con discrezione decenni di musica scritta successivamente in tutta Europa e di cui tuttora si trovano le tracce nel DNA di moltissimi compositori anche delle ultime generazioni?
Forse andrebbe considerata come una rivoluzione silenziosa, senza manifesti, proclami o chissà quale chiasso mediatico, assolutamente British nella sua discrezione.
Dischi usciti quasi in sordina, sottobanco, senza alcun battage pubblicitario, che tuttavia sono passati di mano in mano trasformando con le loro idee nuove il pensiero di chiunque si trovasse a incrociare il loro percorso.
Le fresche invenzioni melodiche e la sottile ironia di Simon Jeffes con la Penguin Cafè Orchestra sarebbero state impensabili, assolutamente tabù, solo una decina di anni prima, così come i collages tra inni spirituali statunitensi e nastro magnetico dell’ American Standard di John Adams, altro compositore che ama giustapporre materiali della contemporaneità con memorie storiche, in aperta polemica con l’estetica dell’amnesia coltivata dai nipotini di Pierre Boulez.
Le briciole che la Obscure Records, come Pollicino, ha lasciato sul proprio cammino in pochi anni sono servite a un paio di generazioni di musicisti per ritrovare la strada di una ritrovata libertà espressiva e uscire dall’oscurità in cui i cascami delle avanguardie (prive ormai della spinta iniziale e chiuse in un elegantissimo castello autoreferenziale abitato da epigoni dei Maestri) avevano rinchiuso la cosiddetta Nuova Musica: sono state il modo per approdare verso la luce di una Musica Nuova.