Il tempo di un’amicizia

NR Edizioni

Vincitore del Premio Pulitzer, in Stay True lo scrittore taiwano-americano Hua Hsu racconta la sua giovinezza nella California degli anni Novanta, tra fanzine e musica alternativa, e di come la scomparsa di un amico può cambiare melodie familiari.
La costruzione dell’identità, la linea d’ombra alla fine dell’adolescenza, le trappole della memoria, gli anni Novanta, l’amicizia: ciascuno può trovare nel libro il focus che preferisce.
Un memoir dolce e profondo che tocca tutti questi temi ma che può essere letto semplicemente come la storia di due ragazzi alla ricerca di loro stessi, in senso riflessivo e non, in un tempo che oggi pare lontanissimo.
In questo piccolo speciale, la sua traduttrice ci racconta com’è stato trasferirne stonature e disarmonie da una lingua all’altra, segue la nostra intervista all’autore.

da Quants numero 13, 2024

All’inizio del suo libro, Hua Hsu scrive che c’era un momento in cui il tempo trascorso in macchina non era mai troppo, in cui ogni tragitto veniva quantificato nel numero di canzoni necessarie per compierlo, in cui ogni infatuazione era leggendaria e impossibile da superare, in cui si sperimentavano solo i momenti più alti e più bassi dell’esistenza e si era fermamente convinti che un giorno tutto quello che si stava provando si sarebbe tradotto nella storia più triste di sempre. La sua giovinezza si è condensata invece in Stay True. Tracce di un’amicizia (NR Edizioni, 2023), con cui Hua Hsu ha vinto il Premio Pulitzer 2023 per la categoria memoir – definizione in cui lo stesso scrittore taiwano-americano non sembra riconoscersi del tutto –, ma più che triste, il suo è un racconto luminoso, saggio e temperato. Se il desiderio di assoluti, di gioie immense e di disperazioni infinite, è qualcosa che svanisce a poco a poco dopo la giovinezza, è forse questa lenta evaporazione che Hsu è riuscito a mettere su carta con estremo nitore.

Questa è la storia che si legge dentro Stay True ed è la storia di come le persone entrano nella vita e poi scompaiono lasciando delle crepe in cui si incistano memorie e canzoni, di come i solchi nei cuori spezzati assomigliano a quelli dei 45 giri.

Ambientato nella placida e distesa California – uno stato in cui lo stesso paesaggio sembra disegnato per essere osservato dai vetri di un’auto in corsa – Stay True è la storia di Hua Hsu, figlio di immigrati taiwanesi nella Bay Area all’alba della Silicon Valley, un ragazzo timido e cerebrale, appassionato di musica alternativa e autore di fanzine, che dopo il liceo si iscrive all’università di Berkeley per studiare cinema o forse scienze politiche o forse solo per incontrare il mondo. Silenzioso, scettico e altezzoso, intento a classificare compagni di corso in base alle loro preferenze musicali e sé stesso in base a ciò che detesta, Hua incontra Ken, un estroverso e popolare compagno di università nippo-americano, «bello in modo sfacciato», la cui voce «non tradiva tracce di insicurezza». «La prima volta che ho incontrato Ken, l’ho odiato», confessa Hsu: ne odia l’ottimismo, la disinvoltura e il fatto che non si vergogni ad amare un gruppo melenso come i Dave Matthew Bands o poco pretenzioso come i Pearl Jam. Come in tutte le grandi storie d’amore, però, i ragazzi diventano amici inseparabili, uniti da rituali e tradizioni inventate sul momento che però hanno tutto l’aspetto di essere state tramandate da generazioni. «Le amicizie hanno molte monete di scambio» dichiara Hua nel suo libro, «qualcuno può piacerci perché ci tira su di morale e ci dà speranza, qualcun altro perché ci fa sempre ridere»; riflettendo su un passo di Aristotele sul carattere effimero delle amicizie giovanili, aggiunge poi che esiste «una dimensione dell’amicizia rivolta al futuro, la consapevolezza che si diventerà adulti, o forse distanti».

Se la scomparsa dell’amico e la sua presenza fantasmatica offrono lo spazio per una riflessione sulla natura dell’amicizia, il libro di Hua Hsu, sotto un’apparenza così limpida e di raffinata semplicità, assomiglia a una meditazione sul tempo e sulla storia.

Cosa sarebbe accaduto alla loro amicizia, però, non lo saprà mai, perché, persino alle latitudini temperate, nei campus liberali della Bay Area, dove «il tempo scorre lento» e «vuoi che accada qualcosa», mentre «la vita avviene da un’altra parte», la storia può tornare a fare le sue incursioni e una mattina, dopo una festa come tante, il corpo di Ken viene ritrovato senza vita in un vicolo, ucciso dopo essere stato rapinato. A Hua Hsu e ai suoi amici resta il compito di scrivere questa storia, di vivere all’ombra di una scomparsa insensata, di ricostruire il passato a partire dalle fotografie rimaste, dai ricordi che si confondono, dalle battute che perdono il contesto e dalle melodie che improvvisamente appaiono troppo allegre.

Questa è la storia che si legge dentro Stay True ed è la storia di come le persone entrano nella vita e poi scompaiono lasciando delle crepe in cui si incistano memorie e canzoni, di come i solchi nei cuori spezzati assomigliano a quelli dei 45 giri. In Stay True Hua Hsu si impegna a ricomporre la propria giovinezza mentre questa si allontana e bisogna evocarla perché resti qui con noi. Stay True però non è soltanto un inno alla giovinezza, al momento della vita in cui ogni emozione sembra assoluta, definitiva, in cui ogni incontro, canzone e coincidenza sembrano avere il potere di modificare la direzione della vita per sempre, influenzare l’evoluzione e la successione degli eventi. Se la scomparsa dell’amico e la sua presenza fantasmatica offrono lo spazio per una riflessione sulla natura dell’amicizia, il libro di Hua Hsu, sotto un’apparenza così limpida e di raffinata semplicità, assomiglia a una meditazione sul tempo e sulla storia. Una sofisticatezza che ho scoperto meglio traducendolo: da quando Gianluca Di Tommaso mi ha offerto di tradurre questa storia per NR Edizioni, ho compreso perché la definizione di memoir – ampia certo, eppure a suo modo restrittiva – potesse non andare a genio al suo autore.

Il passato remoto, quello prossimo e il futuro convergono in questo libro, dove la filosofia di Aristotele si mescola alle riflessioni di post-strutturalisti francesi come Michel Foucault e Jacques Derrida, e i millenni che dividono la Grecia dalla Francia del Novecento e dalla Bay Area di fine secolo si confondono tra loro nel modo singolare che appartiene agli studenti universitari, esposti a idee e teorie che faticano a posizionare su una mappa o sulla linea del tempo.

Tra fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, mentre internet connette le reti neuronali e conoscitive di tutto il mondo, quello che vivono Hua Hsu e i suoi amici appare oggi come l’ultimo momento storico in cui il futuro sembrava distendersi di fronte agli occhi delle persone, aperto e pieno di possibilità, spedito in avanti come una freccia scoccata da un arciere esperto, rapida e immune alle oscillazioni gravitazionali.

Figlio di due genitori che avevano passato la propria giovinezza a studiare, a impegnarsi, ad assicurarsi una vita protetta dalle incertezze riservate agli immigrati, al di là del loro grado di istruzione, Hsu è un americano di prima generazione, che cresce in un paese in cui le possibilità sembrano illimitate e il futuro continuamente soleggiato; ma è proprio quella cultura del progresso che rimodella il tempo, piegandolo su sé stesso. Quando infatti Hsu frequenta ancora il liceo, il padre decide di tornare a vivere a Taiwan, il paese che aveva lasciato decenni prima, e così inizia a comunicare con il figlio via fax: a un tratto, il tempo diventa relativo, la notte di un figlio diventa il mattino di un padre, in un dialogo che va avanti da remoto.

Tradurre Hua Hsu ha significato per me imparare a riportare temporalità diverse su uno stesso piano – e quando non tempi, almeno spazi. L’inchiostro stampato sulla carta da fax consegna una voce paterna che appare lontana e antica, mentre è solo in eterna differita e sbiadita dalla distanza. Questa asincronia, dopo trent’anni di comunicazioni virtuali, oggi ci risulta forse più ovvia, ma resta nondimeno straniante il modo in cui i nostri ricordi delle altre persone possano essere legati a luoghi e momenti in cui quegli stessi individui erano presenti solo come voci, come parole su uno schermo. Nel caso di Stay True era per me necessario comprendere e convogliare la spettralità che pervade quelle conversazioni tra padre e figlio e che, adesso che scrivo, mi rendo conto pare presagire il carattere fantasmatico con cui Ken infesterà il resto del libro.

A un certo punto del libro, infatti, Hsu ricorda di quando lui e Ken guardavano in loop La Jetée, il magnifico cortometraggio di Chris Marker del 1962: nei ventotto minuti che lo compongono un uomo è chiamato a viaggiare nel tempo per salvare la civiltà dall’apocalisse, per «convocare il passato e il futuro a salvare il presente», ma è perseguitato da un ricordo della sua infanzia – una donna che aspetta un uomo all’aeroporto e che non riuscirà ad abbracciare. Si scopre poi che il ricordo in realtà è una premonizione della sua stessa morte. Affascinati dai paradossi e dalle possibilità contenuti nel film e facendo ricorso alle proprie conoscenze basilari di fisica e di Heidegger, i due amici diventano ossessionati da La Jetée: «Lo guardammo e lo riguardammo; e ogni volta, il suo mondo finiva».

Allo stesso modo, a prescindere da quello che desideriamo leggendo Stay True, Ken morirà e il punto non è forse capire quando o perché, ma comprendere piuttosto come quello strappo nella trama del tempo sembri risucchiare tutto il resto; comprendere come l’esistenza di Hua Hsu sia determinata da un incontro che avviene nel futuro e da una scomparsa che è accaduta nel passato. Il modo in cui l’autore muove infatti la narrazione è all’apparenza convenzionale – è, all’apparenza, la sequenza dei fatti che portano a quel nodo, a quel fatto cruciale – ma prestando attenzione alle tracce e agli indizi che lo scrittore dissemina qui e là, si può cogliere una sorta di ricorsività che caratterizza il libro. Il richiamo che lo studente sente verso La Jetée è lo stesso che prova verso il Saggio sul dono di Marcel Mauss, in cui il sociologo francese teorizza che la pratica del dono si basi su una dilazione di tempo, su una promessa e un’apertura generosa a un futuro in cui verremo ripagati. E assume una nuova risonanza quando scopriamo che Mauss aveva dedicato quello scritto ai suoi colleghi morti come soldati durante la Prima Guerra Mondiale e che allora quel saggio è una ricompensa o forse un regalo rivolto al passato.

Insomma, il passato remoto, quello prossimo e il futuro convergono in questo libro, dove la filosofia di Aristotele si mescola alle riflessioni di post-strutturalisti francesi come Michel Foucault e Jacques Derrida, e i millenni che dividono la Grecia dalla Francia del Novecento e dalla Bay Area di fine secolo si confondono tra loro nel modo singolare che appartiene agli studenti universitari, esposti a idee e teorie che faticano a posizionare su una mappa o sulla linea del tempo.

Questo legame sentimentale con la musica è stato forse l’aspetto che più mi ha legato a questo libro, quello che da traduttrice sentivo il dovere di riportare al pubblico italiano, perché anche io, come Hua Hsu, ho scoperto chi ero attraverso la musica, ho costruito alleanze sulla base di preferenze comuni, ho dato alla melodia, a quell’impasto di suoni e parole, il compito di esprimere quello che resta inesprimibile – i sentimenti, i desideri, i dolori infiniti – e quello di custodire le memorie finché è possibile.

Tradurre questo libro me ne ha fatto tornare in mente un altro, che avevo amato molto e che forse amerete anche voi: si tratta di Love is a Mix Tape (di fresca pubblicazione italiana da parte di nottetempo), scritto dal giornalista di Rolling Stone Rob Sheffield e dedicato alla defunta moglie Renée, scomparsa dopo appena cinque anni di matrimonio. Il libro, proprio come accade in Stay True, è costellato dalla musica che Sheffield e la moglie si scambiavano, dalle canzoni che avevano cambiato la loro vita, da quelle che si erano canticchiati l’un l’altro e da quelle che oggi fanno scoppiare in lacrime l’uomo. Anche in quel caso, sappiamo che Renée ci lascerà e, anche in quel caso, speriamo che questo non accada; come Ken e Hua di fronte al film di Chris Marker speriamo di poter riavvolgere il nastro e assistere a una fine diversa.

Dopo la morte dell’amico, Hsu si rifiuta di ascoltare l’amatissima “God Only Knows” dei Beach Boys, perché appartiene «a una specifica area della memoria» condivisa con Ken, e vuole evitare a tutti i costi le vibrazioni che lo riportano a certe sensazioni. A ogni nota, confessa di sentirsi «addosso ognuna delle volte che l’avevo ascoltata», dal giorno in cui aveva scovato una copia di Pet Sounds da Amoeba, a quando, in macchina per andare a comprare le ciambelle, l’avevano cantata in coro; anche la musica contribuisce a deformare il tempo, a sovrapporre il passato al presente, a scheggiare il futuro, a renderlo una potenzialità impossibile. Questo legame sentimentale con la musica è stato forse l’aspetto che più mi ha legato a questo libro, quello che da traduttrice sentivo il dovere di riportare al pubblico italiano, perché anche io, come Hua Hsu, ho scoperto chi ero attraverso la musica, ho costruito alleanze sulla base di preferenze comuni, ho dato alla melodia, a quell’impasto di suoni e parole, il compito di esprimere quello che resta inesprimibile – i sentimenti, i desideri, i dolori infiniti – e quello di custodire le memorie finché è possibile.

«Quei momenti non sembravano avere senso finché non avevi un motivo per attaccartici, per metterli in ordine perché ne avessero uno», scrive Hsu, riconoscendo l’arbitrarietà della memoria, la libertà che ci diamo di selezionare e arrangiare i ricordi perché aderiscano alla storia che stiamo per raccontare. Hua è un narratore inaffidabile, come lo sono tutti coloro che si rivolgono alla memoria per scrivere del proprio passato, e per questo è sempre in dubbio sulla sua capacità di scegliere parole capaci di contenere tutto ciò che è stato.

«Cos’è che avevamo imparato al corso di retorica» si chiede Hua dopo il funerale dell’amico, «sul “differimento del senso” di Derrida e su come le parole non sono altro che segni che non possono mai riassumere in fondo quello che significano?» Le parole, per chi traduce, sono l’unico strumento di lavoro, ma allo stesso tempo siamo coscienti che ci tradiranno sempre; come posso condensare certe sensazioni che sembrano intrasportabili da una lingua all’altra? Come posso tradurre la lieve dolce sgrammaticatura dei fax che il padre invia da Taiwan, mentre la sua vita statunitense sembra un sogno lontano? Hua Hsu si risponde che «eppure le parole sono tutto ciò che abbiamo, allo stesso tempo ci avvicinano e ci allontanano». Stay True, nonostante le sue premesse, forse non è mai un resoconto fedele, ma sa sfruttare tutto lo spazio a suo disposizione – persino quello tra una parola e l’altra, tra una nota e la successiva – per raccontare un’esperienza fantasmatica tanto è poco raccontata come quella dell’identità asioamericana (con tutte le differenze contenute al suo interno, tra quella taiwano-americana e quella nippo-americana, tra la migrazione dei professionisti degli anni Settanta e quella più popolare degli anni Novanta, che si sente più prossima al mondo del rap che a quello dei campus universitari). Lo fa provando a convogliare quella strana mescolanza di idiosincrasie, stereotipi e lenti processi di assimilazione, contenuti nello scarto tra la lingua dei padri e quella dei figli, tra le rivendicazioni dei primi e le disinvolture dei secondi.

«Quei momenti non sembravano avere senso finché non avevi un motivo per attaccartici, per metterli in ordine perché ne avessero uno», scrive Hsu, riconoscendo l’arbitrarietà della memoria, la libertà che ci diamo di selezionare e arrangiare i ricordi perché aderiscano alla storia che stiamo per raccontare.

In esergo, insieme ai suoi amati Pavement, Hsu decide di mettere uno scrittore caro a Ken che aveva detto che «soltanto il futuro può fornire la chiave per l’interpretazione del passato, e soltanto in questo senso possiamo parlare, in ultima analisi, di un’obiettività della storia». L’autore in questione è Edward Hallett Carr che nel 1961 spiegava come la storia, il tempo, i resoconti e il futuro insieme formino quella che noi proviamo a definire verità. Hua Hsu ha provato, una canzone alla volta, un ricordo alla volta, a rimanere fedele a quella e, insieme, a sé stesso.

***

“Romanzo di formazione” è una definizione di cui spesso si abusa. Ma è impossibile trovarne una più precisa riguardo a Stay True. Tracce di un’amicizia, con il quale Hua Hsu ha vinto il Pulitzer nel 2023. Oppure, agganciandosi alla categoria per la quale lo scrittore, giornalista e docente di letteratura al Bard College si è aggiudicato il prestigioso premio, sarebbe ancora più corretto chiamarlo “memoir di formazione”. Come ci spiega l’autore stesso nell’intervista che segue, il libro è nato facendo a pugni con la memoria, i suoi limiti e le false piste sulle quali ciò che ricordiamo – o presumiamo di ricordare – può condurci. La storia raccontata è quella, autobiografica, dell’amicizia tra due ragazzi nella seconda metà degli anni Novanta, lo sfondo è l’America clintoniana e più nello specifico il campus di Berkeley dove Hua Hsu e Ken, entrambi provenienti da famiglie asiatiche, si incontrano. Nasce un rapporto fatto di fiducia e complicità inizialmente impensabili viste le differenze caratteriali e di approccio alla vita (e al futuro) tra i due; un rapporto destinato a interrompersi tragicamente dopo l’uccisione di Ken da parte di due sbandati che lo avevano rapinato e sequestrato. Il solco è tracciato, per sempre. La definizione di sé, e dell’amicizia con l’altro-da-sé, che prima passava attraverso i gusti musicali e cinematografici, la politica, l’atteggiamento con l’altro sesso, i differenti modi di rapportarsi alla propria cultura di origine, le reciproche posture esistenziali utilizzate per superare le insicurezze e le paure dei vent’anni, da quel momento può svilupparsi – e essere raccontata – soltanto districandosi tra mancanza, senso di colpa, riflessioni su tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. E, appunto, maneggiando quei reperti spesso fallaci che sono i ricordi. Ne viene fuori una potente riflessione (nel senso anche letterale, come davanti a uno specchio che ci rimanda l’immagine di come eravamo) – sulle potenzialità infinite e i limiti delle relazioni, e al tempo stesso un reportage a distanza di trent’anni dal fronte di una generazione (quella dei cinquantenni di oggi) che aveva tutto e che ora sembra connotata dalla propria invisibilità e rassegnazione. Eppure, per citare un passaggio significativo del libro, «quando sei giovane sei certo delle tue capacità di trovare una via d’uscita dai problemi della generazione precedente. C’è un altro modo di diventare adulti, strade che non prevedono il conformarsi o lo svendersi. Avremmo scoperto come fare, insieme saremmo stati diversi. Dovevo solo trovare con chi esserlo, una massa critica di altre persone con cui sviscerare le possibilità di un pronome collettivo».

Come si è sviluppata nel tempo l’idea di un libro sulla tua amicizia con Ken? È la storia che avresti sempre voluto scrivere, qualcosa che avevi promesso a te stesso e alla memoria dell’amico, oppure è una decisione presa in un momento particolare della tua vita?

Un misto di entrambe, penso. Dopo la morte di Ken ho sentito l’obbligo di scriverne, ma più che altro per me stesso. Una sorta di terapia. Volevo fargli un tributo, ma ero solo uno studente di ventun anni che cercava la sua strada, non avevo alcuna ambizione di “scrivere un libro” all’epoca. Sapevo che avrei continuato a tenere i miei diari, ma non immaginavo neanche lontanamente che sarei potuto diventare uno scrittore pubblicato, e che un giorno avrei raccontato questa storia in un libro.

Si dice che scrivere è sempre un po’ tradire. In che modo hai cercato di rimanere fedele ai fatti e alle emozioni del tempo, scrivendone dalla prospettiva di un uomo maturo e di un professionista della letteratura?

Non so se un libro abbia davvero l’obbligo di essere oggettivo rispetto ai fatti. I tanti dettagli che riporto a proposito di conversazioni, situazioni, cose che ascoltavamo o leggevamo, non devono mistificare il fatto che questa è una storia raccontata facendosi largo tra le nebbie della memoria. In fondo, anche se il contesto sembra storicizzato con precisione, questo è un libro sull’inaffidabilità e sulle trappole dei ricordi. Ho cercato di essere fedele alle emozioni di quel periodo, non importa quanto esagerate, spiacevoli o egoriferite. Per farlo, mi sono affidato al diario che ho tenuto dal giorno successivo alla morte di Ken.

Quando sei giovane sei certo delle tue capacità di trovare una via d’uscita dai problemi della generazione precedente. C’è un altro modo di diventare adulti, strade che non prevedono il conformarsi o lo svendersi. Avremmo scoperto come fare, insieme saremmo stati diversi. Dovevo solo trovare con chi esserlo, una massa critica di altre persone con cui sviscerare le possibilità di un pronome collettivo.

Agire sui ricordi può portare su sentieri inaspettati, presumo. È stato così anche per te?

Assolutamente sì. Non so perché ho cominciato a scriverne, all’inizio. L’ho fatto forse solo per rallentare il passare del tempo. Alla fine sono arrivato a qualche conclusione riguardo vita, amicizia, felicità e tristezza (cose che vanno sempre insieme) che non ero consapevole di stare cercando  quando ho cominciato.

La comune origine asiatica è stata un fattore importante nella tua amicizia con Ken. In che modo ha creato un legame tra di voi, e viceversa quanto inizialmente ha posto una barriera culturale, essendo tu di origine taiwanese e lui giapponese? Agli occhi di un lettore come me – europeo, bianco, di dieci anni più vecchio – sembrate semplicemente due ragazzi americani degli anni Novanta, ma forse è una visione semplicistica…

No, non credo. È un punto di vista comprensibile. Il fatto è che, rispetto all’identità, un solo aspetto (nazionalità, etnia, età e così via) non ci definisce per intero. L’identità è fatta di variabili che si sovrappongono e creano diversi tipi di relazione con gli altri. Essere entrambi asiatici-americani tuttavia ci inseriva una categoria, e all’interno della stessa abbiamo anche sentito una certa distanza a volte. Ma pur essendo di origine asiatica, in definitiva eravamo – sì, è proprio così –  “due ragazzi americani degli anni Novanta”.

Tentiamo di definire noi stessi contrapponendoci a come gli altri definiscono loro stessi. Ma in fondo quelle passioni forniscono anche delle possibilità di connessione, e ci permettono di testare i nostri limiti.

Rimanendo in argomento. Nel film American Fiction il protagonista, uno scrittore e professore di letteratura nero, si infuria quando vede che in una libreria i suoi romanzi sono catalogati nella sezione “tematiche afroamericane”. Hai mai temuto di venire catalogato anche tu in questo modo?

No, non ho proprio quella preoccupazione. Ce l’avrei se scrivessi libri così particolari come il personaggio di American Fiction, ma sinceramente non ho questa percezione così ben definita di quale potrebbe essere il mio pubblico. Non c’è una tipologia di lettore specifico alla quale mi rivolgo. Le targhette di genere sono sempre qualcosa di sgraziato, ma sono anche inevitabili. Non ho voglia di preoccuparmi di qualcosa che non è in mio controllo.

Ritieni che l’esigenza di definire la propria identità rispetto, per esempio, all’etnia sia più importante oggi che trent’anni fa? Se la storia fosse trasportata nel 2024, il modo di relazionarsi di entrambi alla propria origine e alla cultura dei genitori sarebbe diverso?

Non so se la necessità di definirsi rispetto a quello sia più forte o più debole di allora. In qualche modo oggi è più accettabile discuterne, ma dall’altro lato si è molto più specifici e sfumati quando si dichiara la propria affiliazione a un gruppo sociale o etnico.

In fondo, anche se il contesto sembra storicizzato con precisione, questo è un libro sull’inaffidabilità e sulle trappole dei ricordi.

Il tuo è anche un libro che parla di oggetti. Di “cose” che hanno, o avevano, una peculiare funzione culturale: dischi, libri, nastri, videocassette, fanzine. Quanto erano importanti nel processo di costruzione di sé e della propria identità?

Per me erano essenziali. Erano qualcosa che implicava cura, scelta, attenzione. Riflettevano chi pensavo di essere, o chi avrei voluto essere. Non so quanto quegli oggetti, o “gli oggetti” in senso lato, abbiano la stessa importanza per i giovani di oggi, visto quanto la loro vita sociale è condotta in gran parte online. Magari mettono la stessa cura e attenzione nella gestione del proprio feed sui social. Io sono cresciuto in un’epoca in cui le “cose” dovevamo andarcele a cercare in altri modi, e di conseguenza assumevano tutt’altro significato.

In effetti viviamo in un’epoca in cui la cultura e le relazioni tendono a de-materializzarsi sempre di più. Questo avrà un effetto su come in futuro le persone potranno processare i propri ricordi?

Certo. Intanto ne avranno infinitamente di più. La memoria di uno smartphone permette a un qualunque studente di liceo di documentare la sua vita in ogni momento, e di conservare potenzialmente tutto. Io avevo una manciata di fotografie del 1997. A parte quello, il 1997 esiste nella mia mente solo come un’emozione sfumata dal tempo.

Da appassionato di musica, cresciuto nella stessa cultura indie/alternativa, mi sono immedesimato nelle tue reazioni spazientite nei confronti dei gusti musicali di Ken. Ma condivido anche il fatto che le mie amicizie più strette alla fine siano state con persone che non condividevano quasi per nulla i miei gusti. Tutte cose che aiutano a definirci, ma a volte possono rappresentare delle barriere…

Per me lo erano, al tempo! Naturale che sia così, per degli adolescenti. Tentiamo di definire noi stessi contrapponendoci a come gli altri definiscono loro stessi. Ma in fondo quelle passioni forniscono anche delle possibilità di connessione, e ci permettono di testare i nostri limiti. Quasi come una introduzione alle differenze politiche. Come trovare un terreno comune? In che modo posso arrivare a comprendere e accettare perché credi in quella determinata idea alla quale io non credo?

Uno dei momenti del libro che ho trovato più divertenti è quando tu, Ken e i vostri amici siete in una stanza al college, un sabato sera, e state discutendo di politica con degli sconosciuti su AOL. Improvvisamente vi dite «Ehi ma è sabato sera, che ci facciamo qua? Andiamocene a prendere un gelato e ascoltare musica in auto!» Quanto i social network hanno cambiato il nostro modo di usare il tempo assieme ad altre persone?

Non posso saperlo con certezza riguardo a chi è giovane oggi. Sono convinto che abbiano comunque momenti di condivisione intensa e piena di significato con i loro amici. Trollare dei reazionari su AOL è poi così diverso dal gaming on line? Penso tuttavia che oggi ci siano meno possibilità di sbagliare, o di sperimentare, senza lasciare tracce digitali indelebili. E questo è un peccato.

In che modo posso arrivare a comprendere e accettare perché credi in quella determinata idea alla quale io non credo?

Un’altra cosa che ho trovato molto toccante nel libro sono gli scambi di fax con tuo padre. Lui sembra molto attento e interessato ai suoi pensieri e alle sue emozioni, tu essendo giovane hai ovviamente poca pazienza nel rispondergli. Quando rileggi quei fax, oggi, cosa provi?

Mi commuovono moltissimo, soprattutto da quando sono diventato padre a mia volta. Ma mi fanno anche realizzare quanto un ragazzo possa non capire per decenni ciò che i suoi genitori gli hanno detto. Mio padre, naturalmente, non ricorda quei fax. Era lì, nel momento, non era conscio del fatto che trent’anni dopo quelle parole avrebbero potuto essere rilette. Come mi ha detto un mio amico, questo dimostra che è una brava persona.

Una domanda su Ken nello specifico. La sua figura emerge in modo molto forte dal racconto, lasciando un senso di fascino, dolcezza e sicurezza di sé. Ma allo stesso tempo pare entrare e uscire dalle pagine, fluttuando come una sorta di fantasma benigno. Come se tu non avessi voluto disegnare il quadro completo rispetto a lui. È una impressione sbagliata?

In parte era intenzionale. Ken è una figura tratteggiata attraverso la memoria, e ciò con cui combatto per tutto il libro sono proprio i limiti della memoria. Fino a che punto puoi davvero conoscere una persona? In che modo potrai sapere quanto conti davvero per lei? Credo sia anche il risultato del mio approccio allo scrivere. Probabilmente sono più bravo a descrivere effetti e sensazioni piuttosto che esperienze concrete, volti, caratteristiche fisiche e così via.

Ultima domanda. In che modo il premio Pulitzer ha impattato sulla tua vita?

Ho cercato di fare in modo che non impattasse troppo e che non mi desse alla testa. Si tratta di un onore incredibile, certo, e rimane uno degli shock della mia vita adulta. Il mio obiettivo era semplicemente finire una cosa che ho iniziato a scrivere nel 1998. Quando è successo, mi sono sentito bene. Il fatto che si sia trasformata in un libro, e che quel libro abbia assunto una vita propria, beh quello è solo un bonus surreale.

Sara Marzullo: giornalista culturale e traduttrice letteraria, vive a Torino e collabora regolarmente con riviste come Harper’s Bazaar e Il Tascabile. A gennaio 2024 è uscito il suo primo libro, "Sad Girl. La ragazza come teoria" (66thand2nd). Carlo Bordone: giornalista musicale e professionista della comunicazione. Ha collaborato con Il Mucchio e Il Fatto Quotidiano, attualmente scrive per Rumore, Rolling Stone, Changes e SentireAscoltare. Ha lavorato per alcune tra le principali agenzie di pubblicità italiane e insegna Copywriting e Teoria della Comunicazione presso l’Istituto di Arte Applicata e Design (IAAD) di Torino.