L’unità di calcolo del mondo

Luiss University Press

Il perno dell’equilibrio geopolitico mondiale si trova in una piccola isola del Pacifico, anzi, nelle periferie di Eindhoven, o forse ancora nelle sale riunioni della Silicon Valley: i chip hanno cambiato la forma del mondo. Una conversazione tra Nicolò Porcelluzzi e Cesare Alemanni, autore di Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip (Luiss University Press, 2024).

da Quants n. 17 (2024)

Il re invisibile è il chip, un velo che calcola gli infiniti. Ma a concepirlo è un potere davvero invisibile e incalcolabile, l’intelletto umano. Dalle idee della matematica e della filosofia, della fisica e della chimica, ci siamo trovati tra le mani miliardi e miliardi di cervelli più sottili di un capello. La storia del chip costringe ad abbattere il nostro macrocentrismo, un filtro cognitivo così ovvio che definirlo è imbarazzante.

È stato forse più semplice introdurre il racconto del petrolio (l’unica materia che può stare sullo stesso piano, per rilevanza, capillarità, influenza) nell’opinione pubblica, perché il nostro corpo gioca con l’idea di energia, beve, consuma. Ma cos’è il pensiero, e com’è fatto? Quali curve prende il calcolo?

Il chip è il re invisibile, ci manovra come un trauma, e alla mente chiede silenzio. Magari la chiave di questo paradosso non è la metafora antropocentrica, ma la minaccia nascosta da questo assurdo mondo interconnesso. Chi non aveva ancora avuto il piacere, scoprì il petrolio nel 1973, quando venne costretto a passeggiare la domenica. Una guerra a Taiwan trasformerebbe la nostra visione del mondo, se ne restasse in piedi uno. Non siamo pronti all’austerità di un mondo senza chip, ci piacciono nascosti.

L’innovazione tecnologica, per Taiwan, è la condizione necessaria alla sua esistenza. Da anni le acque che circondano l’isola del Pacifico si sono trasformate nella reificazione del conflitto sino-americano. Ecco, leggendo il capitolo del libro dove approfondisci la questione (si chiama «Guerra»…) mi ha strattonato un ricordo di dieci anni fa: leggevo Spillover di David Quammen, guardavo la gente intorno a me, in autobus, e mi sentivo l’ultimo depositario di un segreto mortale. Certo, la realtà ci manda segnali continui, e il cervello riesce a processarne solo una parte, non ti sembra però che la gravità della questione taiwanese sia sottorappresentata nel racconto del dibattito politico?

Sì, specie in Europa, ma è il destino delle cose troppo lontane e complicate (e la questione di Taiwan è complicatissima) per occupare le prime pagine. Detto che la scollatura tra ciò che davvero «conta» e ciò che viene percepito come «importante» ritengo sia all’origine dell’esaurimento nervoso delle nostre società; a parziale discolpa del nostro deficit di attenzione su Taiwan va detto che in tempi di guerre genocidarie in pieno svolgimento, è comprensibile che le persone non vogliano parlare di ulteriori pericoli, tensioni, rischi.

Ciò tuttavia non significa che Taiwan non sia presentissima nelle menti degli apparati della difesa di tutte le potenze, incluse quelle europee. Anche se, come ha cercato di fare Macron di recente, cerchiamo di «ridurla» (che poi…bella riduzione) a una tensione solo sino-americana, o a una questione puramente indo-pacifica, proprio il ruolo di Taiwan nella filiera dei chip fa sì che inevitabilmente il destino dell’isola sia un fatto con ricadute globali, anche nel caso in cui un’eventuale guerra in merito non portasse a escalation più ampie.

Una guerra a Taiwan trasformerebbe la nostra visione del mondo, se ne restasse in piedi uno.

Chi segue Macro, la tua newsletter dedicata alle «grandi trasformazioni di questi anni», sa già che l’innovazione tecnologica nel settore dei semiconduttori, per Taiwan, è una questione di sopravvivenza. Così come la difesa del comparto, a tutti i livelli, dal tecnico al geopolitico. Nel mondo «smaterializzato», almeno secondo la coreografia illusionista del soft power occidentale in cui viviamo e che descrivi, può capitare che a smaterializzarsi siano anche le manovre oppressive, i ricatti, tutte le forme della violenza dell’egemonia. C’è un breve passaggio del tuo libro che mi sembra esplicitarne un esempio: in estrema sintesi, gli Stati Uniti stanno provando a costruire le loro fabbriche di semiconduttori avanzati, ma scoprono che non bastano i soldi e la tecnologia, serve la competenza e l’esperienza di chi se ne occupa da decenni. Decidono allora di importare personale qualificato da Taiwan, che nel frattempo sa che non può esimersi, in nessun modo: costretti a offrire le conoscenze che un giorno potrebbero portare gli Stati Uniti ad abbandonarli. Ci racconti come e quanto il governo di Taiwan stia gestendo questa situazione minacciosa, questi episodi di bullismo?

Non so se li definirei episodi di bullismo. In realtà TSMC – l’azienda taiwanese che fabbrica il 90% dei chip più avanzati al mondo per clienti come Nvidia, Apple, eccetera – ha il suo interesse a ricevere i lauti sussidi che offrono gli Stati Uniti. Inoltre il grosso della produzione resterà a Taiwan. Certo c’è il rischio che, risultando meno «indispensable» per i chip, gli USA non corrano in soccorso di Taiwan in caso di offensiva cinese. Ma in proposito bisogna ricordare due cose. La prima è che gli USA non sono vincolati alla difesa di Taiwan da un’alleanza formale tipo la NATO (che peraltro è meno vincolante di quanto si creda) e che quindi la possibilità che l’abbandonino esiste comunque. La seconda è che gli americani non ritengono Taiwan importante solo per i chip ma anche per questioni strategiche relative alla deterrenza della proiezione cinese nel Pacifico. Ergo è probabile che accorrerebbero in sua difesa anche senza chip di mezzo. Il punto è che più passa il tempo e più diventa improbabile che riescano a vincere una guerra simile (così come, del resto, appare difficile che la Cina riesca a «conquistare» una delle isole geograficamente più complesse sul pianeta con un potenziale esercito di cinque milioni di riservisti a difenderla).
Se vogliamo parlare di «bullismo» relativamente alla catena del valore dei chip, gli esempi che mi vengono in mente sono altri. Per esempio l’intervento americano su ASML, un’azienda olandese che produce macchinari indispensabili per produrre i chip più avanzati. Sfruttando una vecchia legge risalente all’inizio della Guerra Fredda, gli USA sono riusciti a imporre ad ASML il veto a vendere ai cinesi i suoi macchinari di ultima generazione, con un danno economico non da poco per un’azienda che ha sede in un paese che «formalmente» è uno storico alleato degli USA.

Il ruolo di Taiwan nella filiera dei chip fa sì che inevitabilmente il destino dell’isola sia un fatto con ricadute globali.

A proposito di ASML, in un articolo uscito su Domani accennavi alle tensioni tra la taiwanese Tsmc e l’azienda olandese, che nel libro definisci «vero cuore pulsante della civiltà della computazione in cui viviamo», dove sono state assemblate le macchine «tra le più sofisticate mai costruite dall’essere umano». Come fino a questa primavera nessuno poteva immaginare, Tsmc ha dichiarato di potere fare a meno delle macchine di ASML, che a sua volta ha ricordato ai taiwanesi della possibilità (non senza una certa allure fantascientifica) di disabilitare da remoto i semiconduttori prodotti in Europa. Da oltreoceano, gli Stati Uniti prendono nota. Il 2024 ha riscritto le prospettive di crescita di ASML? E se sì, ci sono in Europa altre realtà industriali che sul lungo termine possano prenderne il posto?

Io credo che la presa di posizione di Tsmc fosse, per così dire, “negoziale” e principalmente finalizzata allo scopo di ottenere condizioni economiche migliori per macchinari che stanno diventando costosi in modo quasi grottesco. Basti pensare che l’ultima iterazione è arrivata a toccare la stratosferica cifra di quasi mezzo miliardo di dollari per esemplare. Al momento tuttavia la questione sembra rientrata all’interno di normali dinamiche tra clienti e fornitori. Riguardo alla possibilità che altre aziende possano prendere il posto di ASML… Ne dubito. La complessità e la specificità di questi macchinari è tale che qualunque altra azienda dovrebbe investire anni, se non decenni, per raggiungere lo stesso livello di ASML.

Come racconti citando il Ceo di Nvidia, per chi vive di chip «per prima cosa viene l’aria e poi viene Tsmc». Quando metti in fila le statistiche surreali accumulate da Tsmc, la più importante produttrice di chip al mondo, accenni anche a «56mila brevetti internazionali attivi» detenuti dal colosso di Morris Chang. Quale ruolo politico gioca la proprietà intellettuale nella guerra dei semiconduttori? Quella dei brevetti è una questione che hai dovuto accantonare per ragioni di spazio, e se sì, cosa avresti scritto?

I brevetti, come gli standard, sono fondamentali in qualunque industria avanzata e mentre nel mio precedente libro sulla logistica sono riuscito a dedicare parecchi paragrafi proprio all’importanza degli standard nello sviluppo della logistica, non ho potuto fare altrettanto in questo caso poiché addentrarsi nel mondo dei brevetti dei chip significa toccare argomenti irriducibili a un libro di divulgazione come il mio.

La complessità e la specificità di questi macchinari è tale che qualunque altra azienda dovrebbe investire anni, se non decenni, per raggiungere lo stesso livello di ASML.

Restiamo su Tsmc. Delle sole undici aziende che precedono l’azienda taiwanese nella classifica globale per capitalizzazione complessiva, nove sono aziende che dipendono strettamente dai semiconduttori assemblati da Tsmc. Come scrivi, e come andrebbe scritto sui muri, stiamo parlando di un’azienda che è «il motore nascosto del capitalismo tecnologico globale». Bene, cosa succederebbe se un attore straniero (magari limitrofo, con il terzo esercito più potente al mondo e la popolazione più numerosa) decidesse di farla chiudere per sempre? Può esistere egemonia politica senza aggrapparsi con tutte le mani al motore nascosto del capitalismo tecnologico globale? Negli anni Dieci si sentiva spesso dire, anche al mercato rionale, che certe banche sono «too big to fail». Tsmc potrà mai raggiungere quello status, l’ha già raggiunto?

Sì, indubbiamente. La frase che cattura meglio l’impatto di un eventuale «fail» di Tsmc non l’ho scritta io ma Chris Miller, nel 2021, ed è questa: «Di questi tempi quando scrutiamo cinque anni avanti speriamo di essere alle prese con la costruzione di reti 5G e di metaversi, ma se Taiwan venisse sconnessa potremmo ritrovarci a far fatica ad acquistare lavatrici».

Abbiamo parlato di mutua dipendenza, vulnerabilità, interconnessione, multipolarismo. Ora mi tocca farti la domanda sull’Italia. Il nostro Paese non è mai nominato nella ricostruzione che proponi nel saggio, e le ragioni possiamo immaginarcele. C’è qualcosa però che si muove? L’anno scorso si parlava di un interessamento di Tsmc. Quali sono le novità?

In Italia si parla dell’apertura di un possibile stabilimento di Silicon Box (un’azienda di Singapore) nel novarese. Un investimento da 3,2 miliardi, pare. Inoltre è stata creata un’associazione ad hoc per la promozione dei chip, si chiama Chips-IT e raccoglie indubbie eccellenze accademiche e scientifiche. L’idea è di offrire sostegno alle start-up italiane del campo, che sono numerose e in alcuni casi promettenti, ma bisognose spesso di aiuto (economico ma anche politico) a crescere. Parlando di realtà come Tsmc, il problema in quel caso è la quantità di capitale iniziale richiesta per avviare nuove attività produttive di un’azienda del genere, cifre decisamente fuori dalla portata del tipo di sussidi che può offrire il governo italiano, e infatti pare che un’eventuale fabbrica europea si farà in Germania. Per questo, in realtà, sui chip l’Europa dovrebbe trovare una linea di politica industriale comune e comunitaria, anziché andare ogni stato per conto proprio come sta invece accadendo. In ogni caso non si tratta di mettere bandierine o di avere nomi «grossi» da vantare, ma di fare le scelte strategiche giuste (su quali tecnologie investire? per farci cosa? a servizio di quali settori?) non solo per il presente ma per il futuro.

Scriveva Chris Miller, nel 2021: «Di questi tempi quando scrutiamo cinque anni avanti speriamo di essere alle prese con la costruzione di reti 5G e di metaversi, ma se Taiwan venisse sconnessa potremmo ritrovarci a far fatica ad acquistare lavatrici».

Dopo la logistica e i semiconduttori, dove punta la tua ricerca oggi?

La mia ricerca su questo genere di questioni – all’intersezione tra geopolitica, economia e sviluppo tecnologico – proseguirà senz’altro in ulteriori libri. Mi piacerebbe per esempio raccontare come l’industria dell’automobile abbia per molti versi «formattato» la politica e la società di massa del Novecento, incluse le due guerre mondiali nel mezzo, e stia tornando a un ruolo di assoluto rilievo a causa della transizione energetica. Che a sua volta è un tema enorme, fondamentale e affascinante, di cui mi piacerebbe senz’altro occuparmi.

Scrittore e autore. Ha pubblicato "Fare i versi" (Quanti, Einaudi 2022) e, con Matteo De Giuli, "MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)" (Not, NERO editions 2021).