Intervista con la pioniera dell’arte digitale, tra i protagonisti di Electric dreams: art and technology before the Internet, grande mostra ora in programma alla Tate Modern di Londra.
Quanto c’è di essere umano nella macchina e quanto c’è della macchina nell’essere umano? Sono domande che salgono alla mente in una società come quella odierna, pervasa dal silicio, in cui l’estrema assuefazione agli schermi va di pari passo con la dipendenza da essi. L’arte e l’artista non possono che essere uno specchio di tutto questo, e come al solito sono capaci anzitempo di prevedere molti sviluppi. Rebecca Allen è appunto una di quelli che dagli anni Settanta, nei suoi lavori pervasi di ricerca tecnologica, ha prefigurato in maniera visionaria l’arte virtuale e digitale, immaginando il loro peso specifico nella nostra quotidianità. Dal 28 novembre 2024 fino al giugno del 2025, in compagnia di più di settanta artisti, è protagonista di una collettiva alla Tate Modern di Londra dal titolo Electric dreams: art and technology before the Internet,dedicata ai pionieri delle nuove tecnologie nell’arte.Rebecca è presente con il fondamentale video Musique non stop dei Kraftwerk e relativa grafica di copertina dell’album Electric Cafè; abbiamo quindi pensato di fare una chiacchierata a proposito del suo rapporto con la video/musica, la multimedialità e le promesse/minacce dell’AI nel campo minato dell’arte.
Rebecca, sei stata una delle prime a sondare i limiti tra reale e virtuale: alla Tate porti un progetto epocale che è confluito nel video dei Kraftwerk Musique non stop, anno 1986. Animazioni di modelli in 3D digitali, in cui dal robot si passa praticamente a entità proto “Second Life”. Ci racconti la genesi del progetto e il tuo rapporto con la musica?
Quando i Kraftwerk mi contattarono nel 1984 avevo già realizzato due video musicali che allora erano molto popolari su MTV e sui canali di video musicali. E il motivo per cui li ho fatti è perché, all’inizio degli anni Settanta, ero una studentessa d’arte e ho pensato: quale sarà il futuro? E mi sono detta: penso che i computer saranno importanti e diventerò un’artista che lavorerà con i computer e creerà questo nuovo tipo di forma d’arte. Sai, dopo gli artisti del modernismo, e quelli dell’era industriale, volevo essere un’artista dell’era delle macchine. Quindi questo è ciò che mi ha motivato a 19 anni, nel lontano 1973, e odio dire che tutto ciò risale a più di cinquant’anni fa. Ma da allora la cosa mi ha davvero rapita. E poi l’altra cosa è che come artista volevo lavorare basandomi sul movimento, sul tempo. E sapevo che nel momento in cui si lavora in questo modo, o devi pensare alla musica, o lasci il silenzio di proposito, o c’è qualche tipo di suono da abbinare alle immagini in movimento. Mia madre era una musicista e ha introdotto alla musica me e tutti i miei fratelli, anche io suonavo.
Quanto c’è di essere umano nella macchina e quanto c’è della macchina nell’essere umano?
Quindi la musica era già una parte importante della tua vita.
Sì, quando ero giovane anche la musica era stimolante: c’erano così tante cose interessanti, ne ero attratta. Non volevo fare la musicista, ma mi piaceva l’idea di pensare alla musica e al suono abbinati al mio lavoro.
In quel video è come se avessi realizzato degli avatar ante litteram.
Sì, in realtà quello è uno degli aspetti. Come artista, quando ho iniziato a cercare nel computer una forma d’arte, eravamo molto indietro. Non c’erano software, dovevi andare in laboratori e appoggiarti a istituzioni per usare un computer. Sentivo che quello che stavo vedendo nello schermo era molto geometrico e matematico, insomma quello che ti aspetteresti da un computer, quindi ho pensato di voler davvero mettere l’essere umano nel computer in modo metaforico: metterci l’umanità, anche il femminile, mettere la donna.
Dopo gli artisti del modernismo, e quelli dell’era industriale, volevo essere un’artista dell’era delle macchine.
E in effetti sei stata la prima a usare un modello femminile 3D, in un ambiente dominato da uomini.
Ecco, ero felice di lavorare con un modello di donna fin dai primi giorni. E così, dopo la scuola d’arte, sono andata alla Rhode Island School of Design, poi al MIT, e ho imparato molto di più sulla tecnologia. Poi sono andata in questo posto che all’epoca stava sviluppando tutti i nuovi software, pensando a come realizzare software di animazione, modellazione 3D, texture, tutto ciò che usiamo oggi. È lì che è stato inventato gran parte di tutto questo, era un laboratorio di computer grafica a New York. Ed è lì che ho lavorato di nuovo con questa idea, dopo il MIT.
E come è stato l’impatto con quella realtà?
Mi sono sempre sentita un’artista e una donna che si infiltra in un ambiente molto tecnico, ma volevo utilizzarlo per fare arte. E dal momento in cui abbiamo iniziato a lavorare sull’animazione grafica al computer, cercando di capire come far funzionare il tutto, ho potuto creare opere d’arte in questo laboratorio di ricerca. La mia era un’idea un po’ insolita, quindi il mondo dell’arte la odiava. Mi dicevano: no, i computer non hanno niente a che fare con gli artisti. Io al contrario ho sempre pensato che l’artista dovesse aprire la strada, non seguire tutto quello che è già stato fatto. Quindi non ho avuto molta attenzione da parte del mondo dell’arte più tradizionale. E stavo anche realizzando cortometraggi, ma anche sfruttando quel mezzo era difficile ottenere distribuzione o visibilità. Per cui quando è arrivata MTV, ho pensato: questo può essere un modo di dare visibilità a brevi film sperimentali. Sì, certo, ha a che fare con la musica, ma per me era solo un modo per poter rendere pubblici i miei lavori.
Ho pensato di voler davvero mettere l’essere umano nel computer.
E quindi c’è stato Will Powers, ovvero il side project musicale della fotografa rock Lynn Goldsmith, che è stato il primo esempio in questo senso.
Sì, per quanto riguarda i video musicali, giusto. E, come sai, anche prima però ho lavorato con la coreografa Twyla Tharp.
Certo, per lo spettacolo The Catherine Wheel… Musica di David Byrne, anno 1982.
Sì, e questo accadeva prima di qualsiasi video musicale. Ho anche lavorato con la Joffrey Ballet Company, e ho realizzato un pezzo intitolato Steps, quello è stato uno dei miei primi lavori in tal senso. Era il 1982, mentre lavoravo con la nozione di movimento umano. Devo dire che a quei tempi cercare di catturare un modello tridimensionale di un essere umano che si muovesse correttamente era molto difficile. Ma ho pensato: okay, lo accetto, mi piace l’idea e affronterò il problema, così è nato Steps. È stato allora che mi è capitato di conoscere nel nostro laboratorio un ragazzo brillante, Carter Burwell: sapeva fare qualsiasi cosa, faceva modelli al computer, ma era anche un musicista ed è diventato un compositore di film.
È stato anche candidato agli Oscar.
Sì, ha lavorato a quasi tutti i film dei fratelli Coen, e ha fatto un lavoro fantastico. Ma allora era la sua prima composizione cinematografica, appunto il mio piccolo film intitolato Steps. È stato lui a creare il suono di quello che era uno dei primi film che ho realizzato con l’animazione 3D.
Mi dicevano: no, i computer non hanno niente a che fare con gli artisti. Io al contrario ho sempre pensato che l’artista dovesse aprire la strada, non seguire tutto quello che è già stato fatto.
È vero che il video dei Kraftwerk era quasi una demo perché non c’era abbastanza budget?
Assolutamente no, dove l’hai letto?
Su qualche rivista…
No, no. Per farti capire come è andata, vado a ritroso: nel nostro laboratorio facevamo queste dimostrazioni perché alcune persone erano molto interessate. Si domandavano: cosa faranno i computer in ambito visivo? E una delle persone che sono arrivate era Twyla Tharp. Avevo già visto il suo spettacolo a New York, dal vivo, sul palco, e stava lavorando con la BBC per farne un film. Ha visto questi miei primi lavori in cui avevo un modello 3D di una donna, e a quel tempo esisteva un solo modello 3D al mondo. Quello che ho usato è stato realizzato da Ed Catmull, che poi ha fondato la Pixar, tra le altre cose. Ma volevo che il modello si muovesse. Lei lo ha visto e ha detto, mentre ne discutevamo, che forse quel modello avrebbe potuto essere Santa Caterina, ma non riusciva a capire come inserirlo nella sua danza dal vivo. E ho pensato che sarebbe stato un buon modo usarlo come fosse un santo del computer: un santo è come una manifestazione sovrumana, stessa cosa un computer, e ho pensato che poteva essere una specie di “effimero virtuale”, era una buona metafora usarlo come modello, quindi ho accettato di fare quel lavoro, e David Byrne aveva già realizzato la musica per The Catherine wheel.
Quindi ha composto la musica prima che tu intervenissi.
Sì, lo aveva già fatto per la performance dal vivo. Ma la cosa divertente è che lo conoscevo già, era alla scuola d’arte con me. È lì che hanno formato i Talking Heads. Ho anche condiviso un appartamento con lui e un gruppo di altre persone. Ma non ho lavorato con lui per The Catherine Wheel, la musica era già pronta. Più tardi, Lynn Goldsmith fece questo strano album in cui collaborava con molti musicisti diversi, era sotto contratto con la Island Records, era venuta al laboratorio ed era interessata a un video musicale che, sai, di solito durano circa quattro quattro minuti, come le canzoni tipiche di quel periodo. E c’è voluto molto tempo per riuscire a fare quel tipo di lavoro in condizioni così sperimentali: non eravamo una casa di produzione, lavoravo con scienziati informatici.
Avrei creato una nuova forma d’arte, ma volevo, lavorando con un computer, che non fosse realistica. Se avessi voluto il realismo avrei fatto un film o una fotografia.
Un bell’azzardo insomma.
Ho pensato che se me lo avesse lasciato fare forse sarebbe arrivato su MTV, un sogno per me, e quindi ho accettato. Ma non volevo diventare una regista di video musicali, è una figura che ha a che vedere con il commercio, dall’altra parte c’è un cliente. Quindi ho detto: sto lavorando in un laboratorio di ricerca, sono un’artista e se faccio il video voglio il controllo creativo, perché anche il software non so come funzionerà, devo essere in grado di fare le cose come voglio. Lynn ha accettato.
E quindi hai realizzato il video Adventures in Success, 1983.
E subito dopo ne ho fatto un secondo intitolato Smile, sempre per quell’album. Ed entrambi sono diventati enormi successi su tutti i canali di video musicali, è stato davvero speciale. Questo i Kraftwerk e il loro produttore lo sapevano, e sapevano anche di questo lab in cui stavo lavorando, e quello è il motivo per cui inizialmente mi hanno contattato per la copertina dell’ album Electric Cafè e per il video di Musique non stop.
La cosa interessante è che in Musique non stop si vedono gli scheletri degli “umani computerizzati”. È molto interessante perché penso che oggigiorno sia tutto troppo iperrealistico nell’immagine dell’uomo e della realtà interpretata dal computer, mentre in quel caso è tutto il contrario.
Assolutamente. Sì, mi piace questa domanda perché è qualcosa a cui ho pensato: che avrei creato una nuova forma d’arte, ma volevo, lavorando con un computer, che non fosse realistica. Se avessi voluto il realismo avrei fatto un film o una fotografia. Perché preoccuparsi di affrontare tutti questi problemi con un computer? E ovviamente all’inizio non potevi fare granché, era difficile anche ottenere il realismo perché semplicemente il software non era ancora pronto, i computer non erano abbastanza veloci. Ma questo ha permesso di definire questa estetica digitale come qualcosa di davvero unico. Quando lavoravo con i Kraftwerk era perfetto perché stavano anche loro cercando di ottenere un’estetica digitale per la musica, diversa da quella analogica, da altri tipi di strumenti, chitarre elettriche e cose del genere. Loro stavano cercando di ottenere questo suono digitale e io stavo cercando di ottenere questa immagine digitale unica.
Già da Computer World dell’ 81 i Kraftwerk stavano lavorando in questo senso, con un piglio “per tentativi” che vi accomuna.
Ho voluto intenzionalmente lasciare nel video alcuni tipi di artefatti legati al lavoro con il computer, ne parli giustamente come di uno scheletro. È anche chiamato “modello wireframe”. È come se fosse uno scheletro, e la gente non si rende conto dei particolari della cover di Electric Cafè perché quei grandi e begli album non sono più così diffusi. A questo proposito volevo mostrarti il disco, allora il tuo lavoro era stampato bello grande, poi è diventato tutto sempre più piccolo. È stato realizzato in modo semplice, il loro ritratto con un “look cubista” fatto al computer, immagini levigate che sembrano fotografie. Ma ovviamente i colori non sono sfumature di colore umane; e poiché è tutto in 3D è anche tridimensionale. E anche quella era un’idea nuova. Ed era il tipo di album che potevi aprire, gatefold. Sono andata in Germania e ho visto come i Kraftwerk andavano in scena, avevo presente queste teste di manichini, quindi me le hanno inviate e le ho utilizzate per realizzare i modelli 3D. Ora puoi farlo in cinque secondi con il telefono… Ma ovviamente in quel momento bisognava capire come farlo. Ho preso queste teste di manichino e vi ho applicato un piccolo nastro nero sottile, una cosa molto scultorea. È stato un processo fantastico, e adoro la resa finale delle immagini. Siccome erano quelle che dovevamo prendere per poi digitalizzare questi modelli puoi vedere quello scheletro.
Loro stavano cercando di ottenere questo suono digitale e io stavo cercando di ottenere questa immagine digitale unica.
È un po’ una lezione di computer graphic questo artwork.
Da molti anni mi porto dietro questo album quando devo spiegare come funzionano i computer e il processo di creazione. Questo è letteralmente quello che chiamiamo “wireframe”, e hai l’immagine finita sul davanti e sul retro, mentre il percorso creativo è all’interno dell’album. C’è tutto. Nella busta interna hai un’altra foto con le facce del wireframe e i Kraftwerk.
E loro oggi si portano ancora dietro questa stessa estetica che hai creato tu negli anni Ottanta.
Li hai visti in concerto ultimamente?
Li ho visti nel 2004: all’epoca mantenevano quello stile, e lo mantengono ancora oggi.
Esatto, anche oggi mentre si esibiscono usano il nostro video. Una volta che lo abbiamo realizzato hanno cambiato la loro intera immagine. Questo è ciò che li ha ispirati: semplicemente hanno messo delle luci intorno ai costumi, e sono esattamente le riproduzioni del wireframe sul loro corpo. Ci è voluto davvero un po’: Karl Bartos, che allora era un membro dei Kraftwerk, ha recentemente scritto un’autobiografia, e racconta che in quel momento sapevano di dover entrare nell’era virtuale, nel mondo delle immagini digitali.
Tu sei stata una delle prime artiste a realizzare insieme musica e video, che al giorno d’oggi sono più o meno una cosa sola. Cosa ne pensi di questa idea di multimedialità?
È interessante perché ho avuto dei problemi a farlo, dopo i Kraftwerk: quello è stato l’ultimo video musicale che ho realizzato, e non volevo più farne perché all’epoca erano gli albori, nessuno aveva veramente definito cosa fosse un video musicale, non c’erano i dirigenti che dicevano cosa fare, niente di tutto ciò, ma poi le produzioni hanno cominciato a essere più “basic”, i video si sono trasformati molto presto in spot pubblicitari per la musica, e non avevo alcun interesse a fare quel tipo di cosa. È più importante il video o la musica? Io mi consideravo una regista, c’era la musica ma non era la cosa principale. È bello quando puoi realizzare una collaborazione in cui l’aspetto visivo è importante quanto la musica, ma ho scoperto che, proprio perché lavoravo davvero sulla musica di questi video musicali, era meglio per me pensarmi in un modo diverso, un modo in cui le immagini erano la parte importante e la musica o il suono aiutavano le immagini.
All’inizio sei molto idealista e ottimista, e hai un’idea un po’ hippie, come se i computer potessero cambiare il mondo: pensi che grazie a loro la vita sarà migliore e gli esseri umani saranno migliori. Poi, col passare del tempo, tutto si trasforma in chi guadagnerà più soldi da queste tecnologie. È molto deludente.
Cosa ne pensi dei video musicali di oggi?
Non so, ce ne sono così tanti… Ormai viviamo in questo mondo multimediale in cui usiamo qualcosa come YouTube anche per leggere o fare qualsiasi altra cosa, magari anche per visitare una mostra. Penso che nel momento in cui si lavora su un video e una grafica basati sul tempo, si ragiona su come il suono possa integrarsi con questi. Ed è una collaborazione: prima vengono realizzate le immagini e poi viene aggiunto il suono. Come un film, funziona tipicamente così. Si mette insieme il film e poi il compositore del film inserirà la musica per migliorare le immagini. Ma ora abbiamo tutte le scelte possibili. Dipende dall’artista, alcuni artisti sono anche musicisti che in realtà si creano tutto da soli. Penso che sia un campo davvero aperto, non so se lo sarà in futuro, ma penso che ora vada tutto bene in questo senso. Intendo dire che nel mondo dell’arte vogliono ancora che l’aspetto visivo sia dominante, probabilmente nel mondo della musica vogliono comunque che il video serva ancora come pubblicità per la musica. Ma prendi il nostro caso, in cui le due cose lavorano molto bene insieme… È perfetto. Negli anni Ottanta ho scoperto che il mondo dell’arte aveva paura dei computer e non pensava potessero essere usati in modo creativo, quindi ero attratta dai musicisti che già lavoravano con immagini e musica o che nella musica lavoravano con le nuove tecnologie. La tecnologia, il digitale, in campo musicale erano in un certo senso più semplici da utilizzare, lavorare in quel senso con le immagini era invece molto complesso, c’è voluto molto più tempo per capire come creare immagini sul computer. La musica è arrivata prima, per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi sintetizzatori e nuovi strumenti digitali. Già negli anni Settanta andavo per esempio a vedere i Genesis quando c’era Peter Gabriel, e loro erano molto visivi.
Hai collaborato anche con lui per il tuo video Behave.
Si, negli anni Ottanta mi piaceva l’idea di incontrare alcuni di questi musicisti che sperimentavano non solo con la tecnologia, ma anche con i visual. La mia generazione era naturalmente portata verso gente come Peter Gabriel o i Devo… Anche loro ai concerti avevano film dietro la loro musica. Andai a una conferenza a New York in cui si parlava del rapporto tra la tecnologia e la musica e lì ho incontrato Mark Mothersbaugh e li ho invitati a vedere cosa stavamo combinando in studio. Ho conosciuto anche Thomas Dolby perché aveva scritto quella canzone, “She Blinded Me with Science”. Mi sono detta: oh, sta parlando la mia lingua! E lui, ancora una volta, si occupava di tecnologia.
Un’ultima domanda: l’arte un tempo non aveva niente a che fare con i computer, non ne voleva sapere. Ora invece l’intelligenza artificiale sembra l’unica cosa che le persone desiderano: utilizzare i computer, sempre e comunque. Cosa ne pensi di questa cosa strana?
Guarda, dopo tutti questi anni, decenni, il mio pensiero è cambiato. All’inizio sei molto idealista e ottimista, e hai un’idea un po’ hippie, come se i computer potessero cambiare il mondo: pensi che grazie a loro la vita sarà migliore e gli esseri umani saranno migliori. Poi, col passare del tempo, tutto si trasforma in chi guadagnerà più soldi da queste tecnologie. È molto deludente. E poi nei primordi, ma forse fino a dieci anni fa, direi che le idee erano molto più avanti rispetto alla tecnologia. Ora stiamo sviluppando molto rapidamente una nuova tecnologia, ma nessuno sa veramente cosa comporterà: può essere usata e sarà usata per grandi cose, ma è molto potente, forse troppo. Ed è quasi l’opposto della mia idea: io non volevo sostituire gli umani, volevo migliorare l’essere umano, mentre l’intelligenza artificiale sta già sostituendo gli artisti.