Giù nel sotterraneo (autogenerato)

Epyx - Supergiant Games

Un videogioco del 1980 entrò nella storia come il più difficile di tutti i tempi, e pareva una storia finita lì. Invece, oltre quarant’anni dopo, la sua eredità tecnica e culturale ha dato origine ad alcuni dei giochi più interessanti del nostro tempo.

da Quants n. 22 (2025)

Il mio videogioco preferito è Rogue, e questa è una cosa su cui ho sempre avuto problemi a trovare interlocutori. Si tratta infatti di un gioco vecchio di quarantaquattro anni, essendo uscito nel 1980 (la versione su cui mi sono formato era quella del 1982), la cui grafica è costituita di simboli ASCII (siamo in un dungeon: l’avventuriero è raffigurato con un proto-smiley, le lineette formano i muri delle stanze, i mostri sono le lettere dell’alfabeto – dalla A di Aquator alla Z di Zombie, passando per le più temibili D di Drago e G di Griffin, che non si sa bene cosa sia, di certo non un grifone ma un qualche innominabile orrore uncinato che abita i più oscuri recessi dei Dungeons of Doom –, le pozioni sono dei !, le pergamene magiche delle ♪, le armi delle ↑, eccetera), cosa che ha reso sempre vani i miei tentativi di persuadere qualcuno a giocare, in quei tardi anni Ottanta e primi Novanta in cui già la grafica migliorava e poi esplodeva nei 16 bit e nella VGA.

Qualcuno potrebbe anzi chiedersi come c’ero finito io, a giocare a Rogue: il fatto è che mio padre lavorava all’Olivetti e fui tra i primi bambini ad avere un PC, molti anni prima che ci fosse qualcuno da convincere a giocare a Rogue. Ai tempi, le opzioni ludiche erano limitate: qualche avventura testuale come Zork o l’italico Avventura nel castello (1982, di Enrico Colombini e Chiara Tovena), altri giocuzzi in cui i simboli ASCII facevano le veci della grafica, come Castle e, appunto, Rogue. Non avevamo manuali, istruzioni, nulla. Solo il nudo gioco, e ovviamente nessuna Internet a cui chiedere dritte. Si capisce che per un bambino di quattro anni era troppo, e pure a sei era ancora complicato (né poteva venirmi in aiuto mio padre, che valutò la faccenda come incomprensibile al secondo tentativo, ignaro del fatto che di tentativi, prima anche solo di capirci qualcosa, ne occorrevano centinaia).

Non avevamo manuali, istruzioni, nulla. Solo il nudo gioco, e ovviamente nessuna Internet a cui chiedere dritte.

Ma il fascino di quel gioco, in cui il dungeon appariva ogni volta diverso, diverse le stanze, diverso il loro contenuto di mostri, diversi gli oggetti che si potevano trovare in giro, era troppo grande, e anche a otto o nove anni, mentre i computer si riempivano dei primi onesti giochi in CGA (quattro colori, con quel ciano e quel magenta che avrebbero definito l’estetica vaporwave), io insistevo e insistevo, cominciando a capire come si usavano pergamene e pozioni, come si impugnavano le armi (tutte a parte l’arco: in Rogue era più pratico lanciare le frecce con le mani, per evitare di perdere un turno col cambio-arma), come si scendevano le scale, giù fino al ventitreesimo livello del dungeon in cui, in teoria, doveva trovarsi il favoloso Amuleto di Yendor…

Per anni non arrivai mai oltre il sesto o settimo livello, e solo la “hall of fame” che era rimasta salvata nella copia del gioco che avevamo era testimonianza di giocatori più abili di me: un certo Eric e un certo Mark, che erano arrivati varie volte al dodicesimo o al tredicesimo livello dei Dungeons of Doom, salvo essere uccisi da uno yeti o da un troll. Yeti e troll che non avevo mai visto e che da quella lapide (perché altro non era la “hall of fame” di Rogue, dato che diceva killed by… a ogni voce) si annunciavano terrificanti all’immaginazione, per quanto la ragione avrebbe avuto gioco facile a immaginarli per la “Y” e la “T” che erano…

Ad alimentare questo mito privato, c’era una copia della rivista Office Automation su cui mio padre scriveva, e che arrivava dunque a casa: la quasi totalità degli articoli trattavano di telematica da ufficio, ma in quel numero c’era un pezzo su Rogue. Se ne raccontava la storia e, a partire da fonti statunitensi, si raccontava anche cosa si nascondesse nelle più pericolose profondità dei Dungeons of Doom, orrori ineffabili quali la “G”, la “D” o la “J” (nientemeno che il Jabberwock di Alice nel paese delle meraviglie); deve essere stato lì, a ripensarci, che appresi che l’Amuleto di Yendor, il cui ritrovamento era lo scopo del gioco, si trovava nel ventitreesimo livello, e non nel ventiduesimo o nel ventiquattresimo. Essendo un gioco procedurally generated, Rogue può andare avanti all’infinito, diventando sempre più difficile, ma una volta che si è ottenuto l’Amuleto, le scale si possono anche risalire, e tornar dunque a riveder le stelle (o almeno provarci, visto che i vari livelli sono di nuovo pieni di mostri) e finire il gioco. L’articolo su Office Automation raccontava Rogue solo per arrivare a un’altra storia: quella di alcuni studenti di Berkeley che, valutatolo impossibile da finire per un umano, avevano scritto un programma atto a giocarlo, il quale, addestrato a calcolare ogni mossa al pari di un programma scacchistico, era infine riuscito a portare a casa l’Amuleto di Yendor… La sfida era dunque elevata, molto elevata. Forse impossibile, ma non desistei. Non so quante partite feci, se mille, duemila o cinquemila; ma ricordo bene quando per la prima volta vidi l’Amuleto di Yendor. Non era altro che un ♀️blu in mezzo a una stanza del ventitreesimo livello, ma fu come veder brillare tutti i gioielli della corona di ogni regno esistito ed esistente. Morii risalendo, ucciso da un troll (le tombe di Eric e Mark non mentivano: le “T” erano pericolose), ma il tabù era infranto. Se si poteva arrivare fin lì, si poteva anche risalire. Portai a casa l’amuleto solo un paio di centinaia di tentativi dopo, e dato che nessuno mi avrebbe creduto fotografai lo schermo del PC (sì, con una macchina fotografica analogica).

Se Hades è un capolavoro – e lo è – per Hades II tocca scomodare termini abusati come “capolavoro assoluto” o un po’ goffi come “supercapolavoro”. Anzi, potremmo dire che Hades II è una lectio magistralis sul concetto stesso di sequel videoludico.

Passarono molti anni. Trentasei, anno più, anno meno; anni in cui i videogiochi si sarebbero evoluti in modo incessante e io sarei stato un giocatore appassionato almeno fino alla fine del liceo, concedendomi sempre però, tra un Monkey Island e un Ultima VII, tra un Syndicate e un Command & Conquer, qualche partita a Rogue, che conoscevo ormai come il mio taschino, e che tuttavia continuava a chiedere impegno massimo e diverse centinaia di tentativi prima di riportare alla luce un Amuleto. Poi sarebbero arrivate la post-adolescenza, l’età adulta e il lavoro, e con esse l’uscita dei videogiochi dal quadro generale.

Qualche ricaduta c’era stata: Stellaris durante il lockdown; Disco Elysium, peraltro raccontato proprio sulle pagine di Quants, per via del suo esser caldeggiato da diversi letterati… Ma a parte ciò, non avevo toccato videogioco per decenni, fatto salvo quello sporadico click che, ancora, poteva scappare sul file “ROGUE.EXE”, complice magari un volo o un lungo viaggio in treno…

Finché, un giorno, cercando online informazioni su un gioco “good in co-op”, ovvero bello da giocarsi in due – e non per voglia di giocare ma solo per menzionarlo in un romanzo – scopro l’esistenza di Wizard of Legend, e non è questo titolo tragicamente generico ad attirare la mia attenzione, bensì il fatto che l’articolo lo qualifichi non solo come «one of the best rogue-likes», ma anche come «one of the rogue-likes most close to the original feel».

Ora, non ero così fuori dal mondo videoludico da non sapere dell’esistenza dei cosiddetti rogue-like, cioè giochi che riprendono dal mio amato Rogue l’idea di un dungeon generato automaticamente, sempre diverso nella mappa, nella disposizione dei mostri e degli oggetti, eccetera. In effetti, ne avevo anche provati alcuni, ma per quanto fosse vero che il dungeon era sempre diverso, l’emozione non era mai stata la stessa. Proprio per niente.

In casi come questi, però, la cautela è sempre opportuna: sono i giochi a non essere più “come una volta”, o siamo noi a non essere più i bimbi pronti all’emozione di un tempo? Scaricato Wizard of Legend ho fatto alla svelta a capire che erano quei “rogue-like” a essere inadeguati, perché questo rogue-like, in cui si va a impersonare, invece di un rogue (ovvero un avventuriero), un mago, certe emozioni le risvegliava eccome. Proprio quel maghetto del tutto anonimo, come anonimo era del resto lo smiley che rappresentava il “rogue” nel gioco originale. Anonimo e pure un po’ retró – la grafica di Wizard of Legend ha un certo    sapiente feel 16-bit, ma dei giochi 16-bit non ha la lentezza: in Wizard of Legend si viene scaraventati in un dungeon (sì, sempre diverso e con mostri e oggetti sempre diversi) dove tutto si muove a velocità (e aggressività) frenetica, almeno quando si “attiva” una stanza. Una volta ripulita un’area, se non si ci sposta troppo, si può sempre tirare il fiato. Le meccaniche d’azione sono assai semplici: in ogni “run”, il maghetto ha a disposizione quattro incantesimi – un attacco base, uno “sprint”, un attacco medio e un attacco speciale – da scegliersi in un pool che andrà via via ampliandosi, e un artefatto a scelta (altri ne troverà nel dungeon, ma li perderà a fine “run”). Nient’altro, a parte boss finali per ogni area (siamo pur sempre nel 2025 – o nel 2018, se si guarda a quando è uscito il gioco) e qualche opzioncina qua e là. E proprio grazie a questa semplicità, a certe eco inattese (qualcuno ricorda il vecchio Midnight Wanderers, coi suoi vari tipi di arma e le “option”, ovvero degli esserini sparanti del tutto analoghi agli “sprite” trovabili in Wizard of Legend? Qualcuno ricorda Gauntlet?) e a un’altra caratteristica non scontata in un gioco contemporaneo – la difficoltà! Finalmente un gioco difficile! – quelle emozioni, proprio le antiche emozioni provate giocando a Rogue, tornarono a vivere in me… E non solo in me, se è vero che ha venduto mezzo milione di copie all’uscita (e un’altra milionata negli anni successivi), diventando un classico nel suo genere e generando anche un sequel… Sequel sul quale glisseremo, perché – ahimè –non per nulla all’altezza dell’originale. Lasciamo cadere una lacrimuccia, facciamocene una ragione e passiamo ad altro.

Più si gioca, più si ravvisa come la Melinoë di Hades II, il cui compito è sgominare il titano Crono, tornato per riprendere possesso dell’Olimpo, sia un personaggio di estrema complessità, un capolavoro di scrittura che fa impallidire per profondità e nuance caratteriali tante protagoniste di romanzi dalle elevate pretese letterarie.

Sì, perché Wizard of Legend era solo l’inizio di un percorso di scoperta. Informandomi sul gioco, alla ricerca di combo diaboliche e “tier list” d’incantesimi, mi trovo a scoprire la differenza tra rogue-like e rogue-lite. In una parola, i rogue-like sono i giochi dove, in modo analogo all’originale, si riparte sempre da zero e si perde sempre tutto ciò che si è ottenuto nel dungeon, durante la “run”; nei rogue-lite, invece, il personaggio può aumentare di esperienza, acquisendo nuove abilità, oppure raccogliere risorse spendibili nel mondo fuori, cosa che ovviamente rende via via più facile completare il gioco.

Qualche purista potrebbe sostenere che anche Wizard of Legend è in fondo un rogue-lite, dato che nelle “run” si accumulano delle gemmette che, fuori dal dungeon, permettono di ampliare la gamma di incantesimi e di artefatti (nonché di cappe da mago), ma poiché quando si scende si avranno sempre e comunque solo quattro incantesimi, un artefatto e una cappa, l’ampliamento del roster aggiunge sì varietà al gioco, porta sì a un progressivo fine tuning dei nostri incantesimi preferiti e delle loro interazioni, ma è più un effetto di varietà che di potenza. Ergo: rogue-like.

Va da sé che da inesperto ma entusiasta neo-giocatore di rogue-like, guardavo subito ai rogue-lite come robetta da deboli e pavidi, ma dopo aver finito Wizard of Legend una mezza dozzina di volte, e constatata l’irrimediabile delusione costituita dal sequel, la scimmia montava e quasi tutte le voci trovate online, che fossero recensioni su riviste o thread di Reddit, puntavano in una direzione, quella di un certo specifico rogue-lite, così ben considerato che anche i suoi cloni godevano di buone recensioni: Hades.

Sviluppato dalla piccola ma premiatissima casa di produzione Supergiant Games, il gioco è basato sui miti greci e vi si interpreta Zagreus, figlio di Ade (per chi, non avendolo mai sentito nominare, fosse curioso: è filologicamente corretto, dato che Nonno di Panopoli nelle Dionisiache lo dà figlio di Persefone e Zeus Katakthonios, lo “Zeus del sottosuolo”, epiteto di Ade o comunque doppio oscuro del re olimpico), non impegnato in chissà che gloriosa impresa, bensì solo nel tentativo di andarsene da casa, dove il padre lo tratta come un bamboccio e lo costringe a continue corvée nella sezione amministrativa dell’oltretomba.

Be’, se già la ricerca di qualcosa che valesse Rogue partiva da un sotterraneo desiderio di ritorno all’infanzia, come non provare… Da piccolo, poi, andavo pazzo per i miti greci.
Provo, e quello che provo è un capolavoro. Hades marca il massimo in tutto: un’estetica fresca e originalissima, dinamiche di gioco frenetiche ma chiare (e non così distanti da quelle di Wizard of Legend, considerando che Zagreus ha un attacco base, uno “sprint”, una sorta di incantesimo – certe gemme rosse che si impiantano nel nemico con vari effetti, forse l’unico elemento poco riuscito del gioco – e un attacco speciale), in cui l’elemento tattico e quello strategico sono sempre presenti (ogni stanza, ancorché generata automaticamente, presenta sfide specifiche, e dall’altro lato le “build” possibili per il personaggio sono innumerevoli, di cui molte davvero interessanti). Ma soprattutto – ed è la cosa che non ti aspetti in un rogue-like (o lite, fate un po’ voi) – Hades è ricolmo, letteralmente strabordante, di buona scrittura. Zagreus è esilarante (pur senza rinunciare a essere cazzuto quando serve: è pur sempre il protagonista di un gioco d’azione), i comprimari sono tutti caratterizzati in modo sia originale che rispettoso del mito originario, i dialoghi (che non si ripetono mai, neanche alla centesima “run”) sempre interessanti, e per di più coerenti con i fatti che via via avvengono nel gioco, i boss finali che si manifestano, le nuove armi che si sbloccano… C’è pure spazio per il romanticismo, e in un gioco che in fondo si basa sul prendere a spadate (o pugni, o colpi di lancia, o frecce…) orde di mostri, non è qualcosa di ovvio.

Anche Hades, da buon rogue-like (non dimentichiamo che il capostipite era considerato il gioco più difficile mai realizzato), è bello difficilotto, e ci vorrà un po’ di lavoro per far giungere Zagreus all’agognata libertà dal padre-padrone, il che, unito a una enorme rigiocabilità dovuta alla sua stessa natura dà origine a una sterminata pletora di approcci all’anabasi del nostro.
Anabasi che tuttavia è destinata a finire: per quanto difficilotto, molti e significativi sono i poteri aggiuntivi che il nostro Zagreus può accumulare, non ultimo un pool di punti-vita più elevato e alcuni slot resurrezione che renderanno assai più facile sconfiggere il boss finale (non sarà troppo difficile, visto il titolo, capire chi sia), respirare finalmente la fresca aria del mondo esterno e incontrare pure qualcuno di inaspettato.

Hades II esplora anche il rapporto tra mito greco e stregoneria, e lo fa così bene che a volte pare di star leggendo Negli abissi luminosi di Angelo Tonelli.

Viste queste premesse d’eccellenza, e le sette milioni di copie vendute su Steam, ciò che era invece aspettato era il sequel. Ed è un sequel che merita ogni attenzione. La situazione di Hades II, appena uscito in edizione definitiva, ma che abbiamo sperimentato in una pre-release già piuttosto completa e giocabilissima, è infatti molto, molto diversa da quella del povero Wizard of Legend 2. Se infatti Hades è un capolavoro – e lo è – per Hades II tocca scomodare termini abusati come “capolavoro assoluto” o un po’ goffi come “supercapolavoro”. Anzi, potremmo dire che Hades II è una lectio magistralis sul concetto stesso di sequel videoludico.
Cominciamo dalla protagonista: all’apparenza Melinoë, sorella di Zagreus che gli autori sono andati a pescare dai più oscuri recessi dei miti greci, ma sempre con un’attenzione filologica capace di sorprendere (così si legge nell’inno orfico che la menziona: «Invoco Melinoe, fanciulla ctonia […] che presso la foce del Cocito l’augusta Persefone generò ai sacri letti di Zeus Cronide…»), può sembrare un personaggio un po’ più “perfettino” rispetto allo sbruffone frustrato Zagreus. Tutt’altro. Più si gioca, più si ravvisa come la Melinoë di Hades II, il cui compito è sgominare il titano Crono, tornato per riprendere possesso dell’Olimpo, sia un personaggio di estrema complessità, un capolavoro di scrittura che fa impallidire per profondità e nuance caratteriali tante protagoniste di romanzi dalle elevate pretese letterarie.
Passiamo alle meccaniche: scomparse le goffe gemme rosse di Zagreus, Melinoë ha a disposizione un incantesimo di blocco (una sorta di circolo in cui le anime dei morti bloccano i nemici) dalla grande versatilità tattica; le nuove armi sono tutte diverse da quelle del primo gioco (e non meno variegate); e anche una meccanica che nel primo gioco poteva essere abusata, quella dello “sprint”, è stata messa a punto in modo da non essere solo corretta e meno squilibrante, ma anche più interessante da usare. L’effetto di gioco, per chi ha già provato il primo Hades, è quello di sentire una certa familiarità, ma di dover allo stesso tempo reimparare tutto. Lo stesso vale per il cast: vecchie glorie e nuovi comprimari si integrano a meraviglia in uno scenario più ampio e sontuoso (e anche il punto di partenza, i Crossroads, incrocio tra inferi e mondo dei vivi, hanno un livello di coziness incomparabile rispetto all’asfittica cameretta di Zagreus), ricco di nuove azioni possibili (Hades II esplora anche il rapporto tra mito greco e stregoneria, e lo fa così bene che a volte pare di star leggendo Negli abissi luminosi di Angelo Tonelli) e soprattutto più grande per quanto riguarda l’area di gioco. Quanto più grande? Be’, né più né meno che il doppio.
Che altro chiedere? Giunti a certi picchi si può solo tornare indietro. Chi vorrà farlo potrà facilmente trovare online il Rogue originale, e sappia, comunque, che tornare in superficie con l’Amuleto di Yendor resta un’impresa infinitamente più gloriosa che diventare il “Mago della Leggenda”, sfuggire dalle grinfie di Ade, o anche fare a pezzi il temibile Crono.

Autore di un saggio, un libro di poesie e undici romanzi, l'ultimo dei quali è "Il detective sonnambulo" (Mondadori, 2025). Scrive sul Corriere della Sera, Linus, Internazionale e varie riviste.