Death Stranding, un videogioco per interpretare il domani

Kojima Productions

A24 porterà al cinema un film ispirato a una delle rare opere audiovisive che negli ultimi decenni sono state in grado di raccontare il futuro attraverso un immaginario davvero originale.

da Quants numero 9, gennaio 2024

Stiamo vivendo tempi molto complessi, tra riscaldamento globale, pandemie, crisi economiche, crisi migratorie, terrorismo, guerre sempre più vicine. E viviamo tutto questo perennemente interconnessi in un overload di informazioni che è ormai il nostro status quo da anni: non è un caso che un film basato su tutto questo abbia recentemente sbancato agli Oscar. Cosa possiamo fare con l’interconnessione perenne di smartphone, internet e piattaforme? Tutto quanto, dappertutto, simultaneamente. Come mettere in scena questa sopraffazione dei sensi e soprattutto il conflitto tra chi è nato con queste possibilità e chi le ha viste nascere? Sovrapponendo combattimenti, dialoghi e infinite dimensioni parallele organizzate come un enorme e virtuoso feed di YouTube o TikTok, dove ogni dimensione è “nello stile di” qualche estetica o canone o sotto forma di meme, e dove il nemico da affrontare è l’adolescente onnisciente che ha esplorato virtualmente tutte le possibilità di vita attraverso il suo schermo. Non staremo a discutere se l’idea del pluripremiato Everything Everywhere All At Once sia riuscita o meno, o se il film sia bello o brutto, ma è curioso notare come nonostante il film parli di un conflitto generazionale legato fortemente alla contemporaneità (tanto da rischiare di essere superato in pochi anni se non mesi), questo appaia ai più fortemente all’avanguardia e fantascientifico.

Le visioni future più popolari oggi prevedono post-apocalissi più o meno zombie, e distopie più o meno cyberpunk, e questo da ben vent’anni, con gli stessi immaginari di trenta o quarant’anni fa.

Ciò accade perché le visioni future più popolari oggi prevedono post-apocalissi più o meno zombie, e distopie più o meno cyberpunk, e questo da ben vent’anni, con gli stessi immaginari di trenta o quarant’anni fa. Il segno visivo che lasciano è praticamente nullo, qualsiasi reel o TikTok appare più futuristico e alieno, e perché no evocativo, di (ad esempio) Interstellar e il suo buco nero perfettamente renderizzato, o della natura psy-trance vista nel pianeta di Avatar. Forse solo gli impalpabili “polpi spaziali” e il loro linguaggio circolare a nuvole di inchiostro di Arrival di Denis Villeneuve hanno proposto qualcosa al di là del solito immaginario. Ripensando a Nolan, l’ingegnosa struttura palindroma di Tenet visivamente è rappresentata da: un auditorium brutalista, un laccetto rosso, un catamarano, giacche da yuppie, ricchi cafoni, dei tornelli da ufficio.

Questa penuria di immaginari “altri”, e non solo futuristici, è però limitata proprio al cinema, principalmente ai blockbuster. Basta spostarsi ad esempio sulla letteratura e abbiamo esponenti di fantascienza “new weird” come Jeff Vandermeer e la sua famigerata trilogia dell’Area X, il cui primo libro è stato subito tradotto in film, normalizzato però nella sua complessità, tanto che delle molte invenzioni visive come l’inquietante ed enigmatica torre che in realtà è un pozzo non c’è più traccia. Proprio perché viviamo tempi complessi capaci di generare infiniti “what if” ci sono anche saggi che flirtano con la speculative fiction, tra chi teorizza l’esistenza di “iperoggetti” (Timothy Morton) e chi la necessità di convivere con il disastro ecologico stabilendo una pragmatica e complessa simbiosi con gli animali. La musica elettronica continua a scandagliare universi sconosciuti, la libertà che si ha in fumetti e animazione permette sempre qualche sorpresa dove meno te l’aspetti. Certo non sorprende che questo tipo di estetica così vaga e imperscrutabile, cangiante e poco definibile (proprio come lo sono i nostri attuali orizzonti futuri) non sia riuscita a penetrare veramente in quel colosso statico che è ormai Hollywood, che preferisce continuare a utilizzare i ben testati immaginari passati del futuro.

Death Stranding si differenzia dagli scenari post-apocalittici “classici”: il suo mondo non è comprensibile come quello di The Last of Us con la sua classica pandemia zombie e conseguente lotta spietata tra sopravvissuti.

C’è però un’opera audiovisiva visionaria inserita nel mercato mainstream, che pur sperimentando nuovi approcci è stata destinata a un grande pubblico ed è già diventata un culto: sto parlando di un videogioco, sto parlando di Death Stranding, uscito nel 2019 e parto della mente del giapponese Hideo Kojima, tra i game designer più famosi di sempre, autore della nota serie di videogiochi Metal Gear Solid.

Sin dalle prime presentazioni questo gioco colpì per la totale diversità dal panorama che lo circondava, non solo nel mondo dei videogiochi, ma anche in quello cinematografico. Non avevo mai visto prima un bebè in un teca artificiale connesso a una persona tramite una specie di cordone ombelicale. Cosa stava a significare? 
Death Stranding si differenzia dagli scenari post-apocalittici “classici”, il suo mondo non è comprensibile come quello di The Last of Us e la sua classica pandemia zombie con conseguente lotta spietata tra sopravvissuti. Il gioco di Hideo Kojima è infatti ambientato in un futuro imprecisato in quello che fu il territorio nord-americano ormai reso irriconoscibile da una serie di eventi soprannaturali di nome Death Stranding, un nome che si riferisce allo spiaggiarsi delle balene sulla riva, ma che nel gioco è usato per descrivere un fenomeno misterioso che ha cambiato la vita sulla terra: il mondo dei morti si è arenato su quello dei vivi. Il nostro scopo non sarà sopravvivere o combattere, ma sarà quello di connettere e ricostruire.


Vestiremo i panni di Sam Porter Bridges (interpretato dall’attore Norman Reedus), un corriere incaricato di consegnare beni preziosi tra le comunità sparse per il continente nord-americano, al fine di ricreare una connessione tra i pochi sopravvissuti che vivono in città sotterranee o piccoli bunker autosufficienti. Il Death Stranding non va immaginato come un evento demoniaco o soprannaturale, ma come un cambiamento totale delle leggi dello spazio-tempo e della vita a cui siamo abituati. L’infiltrazione dell’aldilà nel nostro mondo ha causato reazioni come la sospensione dello scorrere del ciclo notte/giorno, o l’avvento distruttivo della cronopioggia, che accelera lo scorrere del tempo sulle superfici che colpisce, e ha distrutto ogni infrastruttura umana cancellandone la memoria storica e deteriorando le nuove costruzioni che hanno bisogno di manutenzione continua. Inoltre, se un corpo di una persona morta non viene cremato subito, si trasforma in una BT (beached things, o creature spiaggiate): fatte di antimateria, si aggirano come fantasmi e se assimilano un essere umano causano un’esplosione enorme capace di radere al suolo una città intera. Sono appunto queste esplosioni che tutti hanno percepito come inizio del Death Stranding. Il modo in cui è cambiato il tempo nel mondo del gioco sembra quasi l’ “always online” di oggi: non fa differenza se è giorno e notte, e le cose nascono e muoiono velocemente esattamente come la vegetazione colpita dalla cronopioggia che vediamo fiorire e perire in loop. La grande intuizione di Kojima è quella di far combaciare questa estremizzazione dell’oggi con un specie di disastro ecologico che sfugge alla nostra comprensione e che a sua volta si sovrappone direttamente con il nostro concetto di vita e di morte. Difatti la cosa interessante di Death Stranding, subito introdotta tramite la natura di “riemerso” di Sam Bridges (un personaggio che può tornare dal regno dei morti), è che l’uomo scopre effettivamente cosa sia l’aldilà: esiste solo per gli esseri umani, ed è un multiverso, in quanto ogni essere umano abita la sua personale “spiaggia” – una sorta di limbo che lo spirito di una persona morta raggiunge prima di passare alla fase successiva. 
La materia che si trova in questa Spiaggia viene chiamata chiralium ed è quella che sta filtrando pericolosamente nel nostro mondo rendendolo instabile e rischiando di farlo scomparire. Considerando che il chiralium proveniente dalle “Spiagge” si manifesta piovendo tramite nuvole di cronopioggia anche qui è impossibile non notare il parallelo tra profili personali/bolle social che sono le “spiagge” e il cloud informativo dentro cui sono salvate. Ce n’è anche per l’overload informativo rappresentato dal catrame nero viscoso, un blob petroleoso attraverso il quale le creature spiaggiate ci trascinano per risucchiarci nell’altra dimensione, e che permette l’emergere di elementi delle Spiagge nel mondo dei vivi.

Un gameplay lento, quasi meditativo, a volte stressante come nelle aree infestate dalle creature spiaggiate, ma il più delle volte calmo, poco frettoloso, soddisfacente più che classicamente “divertente”.

Ma attenzione: quella di Kojima non è una critica al mezzo Internet, semmai a come lo usiamo, perché è grazie all’uso della rete chirale, un network che sfrutta proprio l’esistenza delle spiagge per inviare dati in maniera istantanea da un nodo a un altro nel mondo dei vivi, che la civiltà umana riprenderà a vivere nel Death Stranding. Tutte queste informazioni spiattellate a raffica potrebbero avervi fatto venire il mal di testa, e considerate che ho illustrato solo la metà della complessità del mondo di Death Stranding, ma il fulcro che rende questa esperienza per tutti è che nel gioco viviamo questa incomprensibile post-apocalisse nei panni di un corriere: il nostro atto eroico sarà portare perlopiù “a piedi” i codici del dispositivo per connettere i nodi di bunker e città alla rete chirale attraversando l’America da Est a Ovest. Così il gameplay del gioco diventa quello della camminata, del progettare con attenzione ogni percorso stando attenti a bilanciare bene la mole sempre più grottesca di pacchi da portare, usando i vari strumenti (scale, corde, automezzi limitati, teleferiche…) che mano a mano ci forniranno per compiere la nostra missione. È un gameplay lento, quasi meditativo, a volte stressante come nelle aree infestate dalle creature spiaggiate, ma il più delle volte calmo, poco frettoloso, soddisfacente più che classicamente “divertente”.

Il meccanismo audiovisivo è esattamente il contrario di Everything Everywhere All At Once: lì abbiamo una forma fatta di sovraccarico di informazioni per illustrare un problema “piccolo”, Death Stranding ci mette di fronte a tanti temi complessi, ma ne asciuga e alleggerisce la fruizione immergendoci in un paesaggio desolato, incredibilmente affascinante e distensivo.

Facendoci vivere la solitudine di queste camminate, avremo tutto il tempo per metabolizzare e vivere i misteri che mano a mano si dipanano nello svolgimento del gioco. Tutti i fenomeni del Death Stranding e tutti i temi del gioco sono rappresentati fisicamente e visivamente in maniera viscerale: cordoni ombelicali verso l’aldilà, il crescere e marcire in loop della vegetazione soggetta a cronopioggia, impronte, un mare-liquido amniotico dove si finisce quando si muore ma da cui è possibile risorgere, cetacei volanti, viscoso liquido nero simile a petrolio, le spiagge, le creature spiaggiate giganti… Ogni elemento veicola un messaggio e ha un senso, ripete il concetto di strand (filo, ma anche “spiaggiato”) o bridge (ponte) in maniera ossessiva. Lo stesso Sam si chiama Sam Strand o Sam Bridges o Sam Porter Bridges, lavora per la Bridges che fu fondata da Bridget Strand che è ora Presidente delle UCA, United Cities of America. Le città non hanno nomi ma sono identificate dalla loro posizione e funzione, le più grandi sono Knot (nodi), e se una si affaccia tramite un porto su un grande lago prenderà il nome di Port Knot City. I nomi dei personaggi principali corrispondono alla loro storia/personalità, rappresentata anche visivamente da qualche loro condizione. Heartman (Nicolas Winding Refn), Deadman (Guillermo Del Toro), Mama (Margaret Qualley), Fragile (Lea Seydoux), Die Hardman (Tommie Earl Jenkins), Cliff Unger (Mads Mikkelsen). I nomi degli attori-interpreti sottolineano due cose: la prima è che Hideo Kojima è un malato di cinema (nel suo profilo Twitter descrive il suo corpo come al 70% composto di film), che avuta carta bianca da Sony ha chiamato qualsiasi attore, regista o creativo da lui ammirato per fargli interpretare personaggi principali o cameo, ma soprattutto ha sfruttato questa cosa per avere delle figure “pop” che fungessero da tramite per immergere il giocatore in un mondo così alieno rispetto alle solite esperienze cinematografico/ludiche mainstream.

L’invio e la ricezione di like sono accompagnati da una vocetta: sentirla mentre si sta cercando di affrontare una montagna innevata, in un’atmosfera cupa e tesa, scalda il cuore.

Ma il vero capolavoro di immersione totale realizzato da Hideo Kojima è stato l’aver fatto coesistere questo mondo così oscuro e contorto con uno dei meccanismi di gioco più soddisfacenti e propositivi di sempre. Durante la lavorazione di Death Stranding Kojima ha citato più volte il concetto del bastone e della corda tratto da un racconto breve di Kobo Abe: «La corda e il bastone sono due degli strumenti più vecchi dell’umanità. Il bastone per allontanare il male, la corda per avvicinare ciò che è buono, entrambi sono i primi amici concepiti dall’umanità». Hideo Kojima aveva dichiarato di voler realizzare un gioco dove fosse finalmente importante usare la corda e non il bastone. È così che in Death Stranding nasce la cooperazione online asincrona con altri giocatori: qualsiasi struttura da me costruita in un’area di gioco collegata alla rete chirale apparirà pure ad altri giocatori che stanno più o meno al mio livello di completamento di gioco e viceversa. Soprattutto quando un giocatore incontra una struttura altrui può decidere se lasciare un like. Immaginate di aver portato faticosamente un carico da una città a un’altra, attraverso un territorio sconnesso e desolato, senza nessuna struttura se non le poche piazzate da voi per superare un crepaccio o per evitare un terreno infestato da creature spiaggiate. Arrivati a destinazione potrete fornire i codici per far connettere la città alla rete chirale. Di colpo si materializzeranno strutture e segnali piazzati da altri giocatori come voi, e potrete finalmente esplorare con più convinzione e sicurezza la nuova area, invogliati non solo a riempire di like le strutture degli altri, ma anche a costruirne di vostre per aiutare altri Sam Bridges nella loro missione.

Dare o ricevere un like è sottolineato da una vocetta che dice “like!” e sentirla mentre si sta cercando di affrontare una montagna innevata, in un’atmosfera cupa e tesa, scalda il cuore. La cosa geniale è che le strutture altrui e i vari like vengono scambiati nel gioco tramite la rete chirale, mentre nella realtà questo accade ovviamente collegando il gioco a Internet. Questa “tangibilità” rende ancora più chiaro a livello inconscio quello che accade nel misterioso mondo di Death Stranding, in cui i like sono un ribaltamento completo in positivo dell’infernale meccanismo dei social. Tanto che ultimamente quando sono perso in pensieri cupi causa sorti apocalittiche del mondo penso ad Heartman che mi schiocca un sonoro “like!” per alleggerire lo spirito.

Tutto quello che avete letto sono solo idee e interpretazioni personali sul mondo di Death Stranding, di cui ho cercato di tenervi il più possibile all’oscuro perché il godimento dell’opera passa soprattutto attraverso la meraviglia che questo altrove va a suscitare nel giocatore. Ma non è proprio questo che dovrebbe far scaturire un immaginario fantascientifico, anche se post-apocalittico? Fornire intuizioni, immagini, fantasiosi what if, che potremo a nostra volta plasmare liberamente in nuovi strumenti per l’interpretazione del domani.

Esperto esploratore di musica e videogiochi proveniente dalla Repubblica Popolare d'Ostiense (Roma). Uno dei fondatori della rivoluzionaria webzine di videogiochi giocagiue.it, ha collaborato e scritto per Prismo, Droga Magazine e Zero.eu. Attualmente suona psichedelia interdimensionale con i Rainbow Island.