Lofi hip-hop beats: da sogno a incubo

Com’è accaduto che un canale YouTube di musiche grezze e rilassanti è diventato un fenomeno di massa? C’entrano J Dilla, Madlib, ma anche i cartoni animati giapponesi e la pandemia.

da Quants numero 4, luglio 2023

Nel singolo degli A Tribe Called Quest “Electric Relaxation” il rapper Q-Tip ripete il mantra ipnotico «relax yourself, girl, please settle down» ovvero «rilassati, ragazza, calmati» su un beat hip-hop sostenuto da un groove incalzante, ma contemporaneamente morbido ed avvolgente, rilassante appunto. Era il 1993, a New York, per le strade del Queens. Ora siamo nel 2023, su Internet, nei meandri delle piattaforme (YouTube e Spotify), e quella ragazza dopo trent’anni si è finalmente rilassata. Forse troppo, però, e si è trasformata nel canale Lofi Girl, quello del famigerato streaming infinito di “lofi hip-hop beats to relax/study to”.Ma come hanno fatto dei beat hip-hop denominati lofi ovvero “low fidelity” (a bassa fedeltà audio), associati quindi al calore di una cosa percepita come più “vera” e meno fredda, ma anche a qualcosa di ruvido e spontaneo, a diventare la più gettonata tra le musiche di sottofondo, il tipo di muzak più rappresentativa di internet? Lo scopriremo passando per i beat di J Dilla e Nujabes, per camerette e schermi (del computer, di pad o cellulari) e anime giapponesi, percorrendo così la confusa genesi di quello che è stato definito “lofi hip-hop” a inizio 2010, fino alla sua attuale degenerazione verso lo stucchevole ansiolitico che è diventato.


Torniamo a trent’anni fa: ci troviamo a un punto di svolta di quella che è stata chiamata golden age of rap. L’hip-hop inizia a differenziarsi in vari modi, e la concorrenza a farsi sempre più alta, a lasciare il segno è la ricerca (o digging) maniacale di fonti (quindi dischi) sempre più ricercate da campionare, e li c’è chi come Q-Tip e soci (A Tribe Called Quest) pesca dal jazz più oscuro per sterzare verso un hip-hop più meditativo. Gli stessi psichedelicissimi e colorati De La Soul con Buhloone Mindstate vanno verso questa direzione dove l’atmosfera cannabinoide è riflessiva più che spensierata. Questa direzione nel contesto hip-hop diventa però presto minoritaria, in quanto il successo mediatico premia la festosità del gangsta rap di Los Angeles di Dr Dre e Snoop Dogg, e la cruda realtà stradaiola dell’hardcore new yorkese (Wu Tang Clan, Nas, Mobb Depp) che usava sì campioni soul e jazz, ma in maniera molto frontale. Proprio per questi motivi un giovane producer di Detroit, James Yancey (aka Jay Dee aka il famigerato J Dilla), trovandosi di fronte a un proliferare di produzioni “bombastiche”, inizia per differenziarsi a produrre beat secchi, estremamente minimali, conditi solo di “appoggi” jazz fatti di lontani accordi di Rhodes o di chitarra presi da chissà quale vecchio disco. Beat che pur rimanendo estremamenti fisici (come lo erano le lyrics dei suoi Slum Village) non risultano aggressivi, e suonano come una sublimazione ipnotica del groove hip-hop ottenuta tra l’altro spesso in maniera sorprendentemente creativa. Basti pensare che una delle sue prime produzioni (“Drop” dei Pharcyde del ‘95) è ottenuta da due campioni dell’arpa della jazzista Dorothy Ashby tagliati, mandati in reverse e poi filtrati per suonare come un sogno all’incontrario, un campione vocale dei Beastie Boys che esclama ritmicamente “drop”, un giro di basso synth che è più una pulsazione sinusoidale, poi kick, snare e hihat. E basta. Questi pochi elementi sono organizzati in maniera tale, e con swing talmente subdoli, che il cervello percepisce mille ritmi e suoni, anche in presenza di pochi elementi. Il groove di Dilla, contrapponendo ritmi “dritti” con quelli “sincopati”, ti attiva e ti tiene sospeso: vai in stato meditativo, ma oscilli la testa senza nemmeno sapere perché. Questo timing particolare, non quantizzato e dal feeling molto naturale, è stato chiamato “Dilla Time” dal critico Dan Charnas, in un libro dallo stesso nome uscito nel 2022: il fatto che solo in questi ultimi anni sia stato formalizzato definitivamente un approccio che evidentemente a James Yancey veniva naturale con qualsiasi fonte andasse a campionare (o anche con qualsiasi strumento andasse a suonare), fa capire come l’effetto ritmico delle basi dilliane fosse unico e poco replicabile.

Il groove di Dilla, contrapponendo ritmi “dritti” con quelli “sincopati”, ti attiva e ti tiene sospeso: vai in stato meditativo, ma oscilli la testa senza nemmeno sapere perché.

È l’ascolto di questo stile, ma in versione lofi casalinga delle demotape, che raggiunge e colpisce Q-Tip, tanto da chiamare J Dilla a capo del suo team di produzione The Ummah. Così realizza l’intero Beats Rhymes and Life degli A Tribe Called Quest uscito nel 1997, un successo di vendite che però non fu accolto bene dalla loro fanbase, abituata a suoni più chiari ed equilibrati. In effetti, nonostante la produzione in studio professionale, il disco in questione, ascoltato con l’orecchio di oggi, sembra quasi un “lofi hip-hop: the album”: kick e snare in evidenza, voce quasi a livello delle basi, elementi melodici misteriosi e distanti che evocano sia propositività che malinconia. La sensazione “lofi” è una questione timbrica e di stile voluta dalla band stessa, che rifletteva un periodo oscuro e riflessivo (la faida tra east e west coast). Dilla successivamente ha una svolta multiforme che si corona con la fondazione del collettivo Soulquarians, responsabile del miglior neo-soul (D’Angelo e Erykah Badu) e hip-hop espanso (Common, The Roots) di fine Novanta – inizio Duemila, che avrà in Dilla il motore produttivo e d’ispirazione principale. Non si contano le volte in cui il batterista dei Roots Questlove spiega come ha cambiato modo di suonare il proprio strumento ascoltando l’operato di Dilla. Questo è il primo esempio consapevole (ma ristretto a una cerchia particolare) di artista che adotta il famigerato “Dilla Time”.

Sempre in questo periodo a cavallo tra Novanta e Duemila inizia a muovere i primi passi un dj, produttore e polistrumentista come Madlib, stavolta a Los Angeles. Come Dilla è un digger instancabile di ogni tipo di dischi (i due infatti collaboreranno nel 2003 nell’album Champion Sound), al contrario suo però ha un approccio disordinato e iper attivo: si autoproduce una fittizia band jazz (Yesterday’s New Quintet), un fittizio rapper abstract-gangsta da lui stesso interpretato (Quasimoto), le sue basi fanno il giro di tutto il nuovo hip-hop underground, e viene persino chiamato dalla prestigiosa label jazz Blue Note, che gli apre i suoi archivi storici per produrre un album downtempo campionandone il catalogo (Shades of Blue, 2003). Il lofi di Madlib non è sciatteria o pochezza tecnica, anzi, ma è una necessità creativa data dalla velocità con cui passa da un beat (o un progetto) a un altro. È così che in tour in Brasile nel 2004, armato solo di un giradischi portatile e un semplice campionatore SP 303, produce in una stanza d’hotel l’intero Madvillainy insieme al leggendario rapper underground MF Doom, generando un classico dell’underground dal suono sgranato, a volte eccessivamente sporco, ma irresistibile, tanto che da molti è visto come un antesignano di quello che sarà definito “lofi hip-hop”.

Negli stessi anni, nel lontano Giappone opera un producer di nome Nujabes, possessore di due negozi di dischi, che basa la sua carriera sullo studio maniacale del boom-bap della golden age dell’hip-hop, in particolare sul lato jazz. Ne distilla uno stile downtempo molto meditativo e spirituale: i suoni non sono organizzati in bassa fedeltà o con mezzi scarsi, ma cercano consapevolmente o meno quel feeling da demotape da primo beat J Dilliano. La notorietà oltreoceano la ottiene con la sigla dell’anime Samurai Champloo, del 2004. La produzione della sigla “Battlecry” è impressionante: sembra per davvero un inedito di J Dilla periodo demotape ‘96, ma dal suono più etereo e distante, legato allo swing stiloso dato dalle katane dei samurai protagonisti dell’anime. Come se non bastasse, Nujabes è nato il 7 Febbraio del 1974, esattamente come J Dilla. Nel 2004 Dilla ormai aveva superato da tempo la fase ripresa da Nujabes, e anzi deluso dall’industria musicale era già entrato nel periodo sperimentale indipendente culminato poi con il seminale Donuts, album uscito il giorno del suo compleanno nel 2006, tre giorni prima di morire.

Nel frattempo un intern della Stones Throw, fondamentale label underground hip-hop Duemila, la stessa che si è occupata di Donuts, di Madlib e di Madvillainy, inizia ad emergere con siglette per Adult Swim (lo stesso canale di Cartoon Network che programmò Samurai Champloo in USA) usando il nome di Flying Lotus e, dopo un debutto e la frequentazione della famigerata Red Bull Music Academy, approda subito sull’europea Warp, la più prestigiosa delle label elettroniche che così si assicura il prodigio della nuova scena di beatmaker californiani. Flying Lotus verrà chiamato dalla dj e giornalista inglese Mary Anne Hobbs “il Jimi Hendrix elettronico”, riferendosi all’uso originale che faceva di Ableton Live: non quantizzava i suoi beat e, grazie alle nuove potenzialità del software, esasperava in maniera freeform l’ultimo J Dilla, il suo riferimento assoluto.

Così come il Wu-Tang ha usato tutto l’immaginario dei film di kung fu che guardavano da piccoli, così il regista Shinichiro Watanabe ha usato l’hip-hop, il suo ritmo e il suo stile, all’interno del suo picaresco anime sui Samurai.

FlyLo, più che per la sua musica, che prenderà direzioni differenti, ci interessa per degli elementi contestuali: i suoi beat debuttano su Adult Swim lì dove c’erano anche quelli di Nujabes, il suo aspetto ipnotico e trascendentale oltre che figlio di dischi passati (e di sua zia, Alice Coltrane) è anche figlio dei molteplici stimoli dati dal flusso continuo del digitale e dall’iperconnessione. La sua Los Angeles è infatti un blob gommoso sovraccarico di stimoli piegati in un flusso sonoro possibile solo grazie al digitale, che però nel suo caso suona più caldo e saturo che mai. FlyLo in più rappresenta solo la punta di un iceberg di una schiera di producer (perlopiù ancora americani) che opera direttamente su MySpace prima e SoundCloud dopo, bypassando la consuetudine di dare i beat ai rapper, e puntando direttamente sulle strumentali. La sua è una generazione di early millennial che vede ovviamente in J Dilla e nel suo groove non quantizzato una leggenda alimentata anche dalla recente morte. La stessa generazione prende la produzione indipendente, sporca e bulimica di Madlib (e della Stones Throw) come modus operandi, ed infine ha nel primo Flying Lotus la dimostrazione pratica di una possibilità di fruizione e creazione di beat all’esterno dei soliti circuiti, usando qualsiasi software, davanti a un pc con mille finestre aperte.

È così che arrivati al 2010 la scena di beatmaker aggancia generazioni come i late millennial cresciuti davanti a schermi interconnessi (con anime, videogiochi, YouTube etc), spopola su Soundcloud saltando tutta la trafila classica dell’hip-hop e, data la sua natura strumentale, diventa presto internazionale, non essendoci barriere linguistiche di alcun tipo. Dal punto di vista dell’ispirazione, per tutta la serie di tracce di anonimi producer che affolleranno i canali di “beat rilassanti per studiare/lavorare”, non ci sono né J Dilla, né Flying Lotus, né Madlib, ma emerge come nome tutelare proprio quel personaggio fuori dal circuito musicale che era Nujabes, purtroppo morto anche lui da poco (nel 2010). Il motivo è semplice: il legame con l’anime Samurai Champloo e lo stile netto e preciso. Partiamo dallo stile: il modo in cui funziona un pezzo di J Dilla è sempre misterioso, potrai imitare il suo stile ubriaco nelle ritmiche, ma non è detto che ti venga quel groove, Madlib e Flying Lotus sono rispettivamente troppo virtuosi e irrequieti ognuno nel loro campo, Nujabes invece ha uno stile definito. Quello di Nujabes è un modello più facile da ricreare, dove gli elementi più meditativi del classico boom-bap hip-hop sono già stati ripuliti dal resto, mentre l’accezione lofi nel suo caso è una patina calda e nostalgica più che una sgranatura disordinata o fuori fuoco, quindi una cornice più agile in cui muoversi. Poi c’è il legame con Samurai Champloo che è quasi la stessa storia del Wu-Tang Clan, ma al contrario: così come il Wu-Tang ha usato tutto l’immaginario dei film di kung fu che guardavano da piccoli, così il regista Shinichiro Watanabe ha usato l’hip-hop, il suo ritmo e il suo stile, all’interno del suo picaresco anime sui Samurai. I giovani spettatori rimangono stregati da questo hip-hop così diverso e ipnotico rispetto a quello della radio mainstream, e in molti l’associano non tanto al mondo della musica, quanto a quello dell’intrattenimento interconnesso tra anime, videogiochi, che il Giappone incarna alla perfezione. Una roba che appartiene più allo schermo che alla strada o al semplice ascolto. Si tratta della stessa generazione che inizia spontaneamente a popolare YouTube di tanti nuovi tipi di mood music, una musica che definisce un umore, uno stato mentale, ma che al contrario di lounge e chillout anni Novanta non viene usufruita in locali o eventi mondani, o al contrario di ambient e new-age non viene consumata nel salotti di casa su costosi hi-fi per ripulirsi la mente dopo una dura giornata in ufficio. Si tratta di playlist tematiche che vengono messe come sottofondo mentre “si sta su Internet”. In un estremo che va dalle playlist euforiche ed epiche della synthwave a quelle nostalgiche e oppiacee della vaporwave, si inseriscono nel mezzo quelle di “lofi chill beats”. L’equivalente su YouTube di una collezione di soul jazz strumentale da sottofondo per cafè.

Stando a Know Your Meme le prime playlist a tema iniziano a comparire su YouTube nel 2013, al loro interno una selezione ricavata dalla galassia di strumentali hip-hop di giovani beatmaker trovate in giro per la rete. Va da sé che l’obiettivo “chill” privilegia nella selezione i beat meno intrusivi e bizzari, più sognanti e sospesi, senza un vero inizio e fine. Così i tanti giovani producer iniziano a focalizzarsi solo su un certo stile e mood e dopo pochi anni Nujabes diventa il faro da seguire insieme al J Dilla delle demotape. A prova di tutto questo basti notare che di entrambi si trovano su YouTube edit che estendono le loro basi (per scopi quasi da trance rituale) risalenti proprio a otto anni fa, cioè a quando viene definito in tutto e per tutto lo stile “chillhop” (da chill out e hip-hop) e “lofi hip-hop” come una musica di sottofondo prettamente strumentale e appartenente a un dominio esclusivamente internettiano, ormai totalmente slegato da ogni altra fruizione, figuriamoci quella hip-hop. Ad averla vinta dopo pochi anni è il termine lofi, soprattutto quando appare la prima LoFi Girl nel 2018 sul canale di Chilled Cow. Il primissimo stream di “lofi hip-hop beats to relax/study to” è accompagnato da una gif messa in loop tratta da una scena del film d’animazione dello Studio Ghibli I Sospiri del Mio Cuore: si vede la teenager protagonista Shizuku di profilo con cuffioni intenta a scrivere su un quaderno, illuminata da un lampada da tavolo in una cameretta apparentemente senza finestra. Pochi elementi ma netti e stilosi, così come l’animazione della studentessa. Mettere questi lofi beats per studiare / rilassarsi come da indicazione del mix ti fa immedesimare nella ragazza, ti fa apparire soddisfacente e persino rilassante un’attività routinaria come quello dello studio o del lavoro davanti allo schermo. C’è da dire che rendere cool l’atto di scrivere concentrati su un quaderno forse era nelle intenzioni dello Studio Ghibli: nel film quella scena doveva mettere in risalto un momento in cui la protagonista era alle prese con la scrittura del suo romanzo. Lo sguardo è assorto ma non è annoiato o distratto, è concentrato e determinato proprio come i beat di Nujabes e J Dilla. Dopo poco tempo il canale viene invitato a rimuovere l’animazione dallo stesso Studio Ghibli per questione di copyright. Dimitri, l’anonimo utente a capo di Chilled Cow, si trova così costretto a richiedere la creazione di un’animazione originale che tributasse quella “rubata” all’anime I Sospiri del mio Cuore. Questa la richiesta che fa circolare in rete: “a student busy revising for her classes with Miyazaki-esque visuals”, ovvero una studentessa impegnata a fare i compiti disegnata in stile Miyazaki, praticamente il prompt perfetto per ogni generatore di immagini basato su AI. Il risultato (realizzato da Juan Pablo Machado) è l’iconica LoFi Girl, denominazione che da quel punto in poi costituirà pure il nome del canale.

È da questo momento, dalla creazione ad hoc di un’animazione “chillhop”, che lentamente un contesto nato in modo spontaneo come contenitore per mille beatmaker che operavano al di fuori dei giri musicali noti, inizia mano a mano a degenerare verso la muzak più corporate. Come già detto, i mix lofi spuntano inizialmente dappertutto, spesso per pura passione, senza nessuna intenzione di ottenere chissà quali risultati. L’immaginario che i creatori ci schiaffano è quello di una manciata di frame sgranati con Homer Simpson alla guida e dietro un cielo rosa, un loop stiloso di qualche anime, uno sfondo citypop giapponese. La scelta di usare queste immagini per mix e playlist di nuova musica rilassante non è tanto una questione di nostalgia (come per la vaporwave), quanto proprio di estrapolare da opere più o meno del passato delle parti che risultino rilassanti per i loro usufruitori: in particolare late millennial e Gen Z, e in particolare chi ha già un minimo di passione per le molteplici sottoculture presenti su internet. Tutto ciò nasce in una contrapposizione più o meno spontanea a ciò che l’esterno o il mainstream o il mondo “adulto” considerava bello e rilassante, come ad esempio tutta la mindfulness corporate da Silicon Valley (una new age ancora più stucchevole). La svolta che viene imposta da LoFi Girl invece è quella di creare da zero un immaginario “chill” capitalizzando una contestualizzazione/decontestualizzazione spontanea del relax che aveva sì una funzione di sottofondo, ma non si intrometteva forzando meccanicamente questo sottofondo rendendolo “per tutti”.

È da questo momento, dalla creazione ad hoc di un’animazione “chillhop”, che lentamente un contesto nato in modo spontaneo come contenitore per mille beatmaker che operavano al di fuori dei giri musicali noti, inizia mano a mano a degenerare verso la muzak più corporate.

Personalmente non ho mai disprezzato il “lofi hiphop”, pur ritenendolo molto limitato, Certo ho sempre trovato una sconfitta l’aver relegato a scacciapensieri degli stili in realtà molto profondi. Anche l’aver accalappiato certo pubblico nerd da un lato ha portato nuovi appassionati di musica, ma dall’altro ha portato a quella superficialità ossessivo/compulsiva da fandom che spinge a non andare mai oltre lo stile delineato dai numi tutelari. Quello che non avevo ancora notato è come un genere musicale cristallizzatosi sulle piattaforme sia stato poi fagocitato per intero dalle piattaforme stesse, per poi venire da queste distrutto, tanto che del genere oggi rimane solo il nome, mentre musica e immagini sono completamente diverse.

Ora ritornando al canale LoFi Girl troviamo un’animazione di Jade (così si chiama la studentessa simbolo) sempre più dettagliata, lo sfondo sempre più barocco. Già il cambiamento da “determinata a scrivere il suo romanzo” ad “annoiata a fare i compiti” aveva tolto molto appeal, ma ora abbiamo pure un inutile sovraccarico di informazioni e infinite varianti (da pochi mesi c’è pure il Synthwave Boy, che fortuna!). Questo aspetto visivo viene riflesso da una musica ormai indistinguibile in tutto e per tutto dalla peggiore muzak prodotta dagli anni Novanta a oggi. I beat non sono più ossessivi e circolari, non forniscono più spazio meditativo tra il concentrato e il malinconico, non fanno oscillare la testa, non danno gusto, non hanno più nemmeno la patina lofi! Non solo LoFi Girl, ma anche altri canali simili sfoggiano produzioni genericamente downtempo dai bpm lenti, piene di cambi (di solito break con pad ambient stucchevoli) e parti suonate (per lo più chitarrine che sembrano un incrocio tra una demo di musica motivational e il peggior smooth jazz anni Novanta), di campioni e tecniche di campionamento non c’è più traccia.

Nel mio peregrinare affranto per queste barocche sale d’aspetto 3.0 senza gusto e inventiva ho persino trovato un Bart Simpson ritoccato (sia mai sia sporco e a bassa definizione!) che guarda sognante un cielo stellato uscito fuori da qualche buongiornissimo, in sottofondo una musica a metà tra la demo di un software per produrre musica (alla faccia dei demotape hip-hop) e un jingle di attesa di una palestra/spa generica. Il colpo finale l’ho avuto quando ho aperto le chat associate a questi streaming: ora ci troviamo persone di tutto il mondo che più che usarla come passatempo tra confessionale adolescenziale e cazzeggio puro (come in precedenza) le usa per scriversi vicendevolmente stucchevoli frasi motivazionali. Perché tutto questo? La risposta è semplice, e sta nell’alta monetizzazione che si è iniziata ad applicare a questi canali durante la pandemia. Già prima del 2020 il tema ricorrente tra gli ascoltatori di questi canali era quello del “far fluire via il proprio stato di ansia”, ma è con la pandemia che gli ascolti sono aumentati esponenzialmente, essendo tutti chiusi in casa, magari nelle stesse condizioni sia fisiche che psicologiche di parte dello zoccolo duro di ascoltatori. Con a disposizione un pubblico così grande da “mungere” si punta sempre più aziendalisticamente alla diversificazione: ora ci sono i beat per studiare, quelli per dormire, quelli per giocare, ci sono i mix per ogni momento del giorno, ognuno di loro con diverse illustrazioni e animazioni, ovviamente prive di alcuna traccia di errore, e definite con più particolari possibili. Sorprendentemente per un genere che era sempre stato molto legato all’anonimato, ci sono eventi live in streaming. Ne ho visto uno in cui un tipo suona la chitarra elettrica tutto serio e pensoso in una stanza pacchiana, con carta da parati e finti quadri romantici, illuminata da un neon bianco. Ogni tanto andava a fare dei beat su un controller midi: semplicemente la cosa più senza stile e generica che abbia mai visto fare in uno streaming ben organizzato. E il tutto partendo da un canale che aveva definito uno stile ben preciso. Se prima un sottofondo YouTube di lofi hiphop beats poteva veramente funzionare come fonte di relax e di evasione per generazioni perennemente connesse davanti a uno schermo, ora si è giunti al punto che il rimedio, la scappatoia dalla stressante realtà delle cose, è perfettamente sovrapponibile alla causa primigenia di quello stress: il puro sfruttamento economico.

Esperto esploratore di musica e videogiochi proveniente dalla Repubblica Popolare d'Ostiense (Roma). Uno dei fondatori della rivoluzionaria webzine di videogiochi giocagiue.it, ha collaborato e scritto per Prismo, Droga Magazine e Zero.eu. Attualmente suona psichedelia interdimensionale con i Rainbow Island.