E se “L’Attacco dei Giganti” fosse il miglior cartone animato di tutti i tempi?

MAPPA

Le serie animate giapponesi si sono imposte nell’immaginario globale da molto tempo, e in Italia hanno cominciato a farlo da prima, grazie alla proliferazione delle TV private negli anni Ottanta: per almeno due generazioni di ragazzi, oggi adulti, molte serie di quell’epoca sono leggende indiscutibili, patrimonio culturale condiviso. Ma è possibile che la migliore di tutte sia arrivata solo da poco?

da Quants numero 13, 2024

L’unico vero mito condiviso della generazione nata tra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, si può affermare senza timore di esser contraddetti, sono i cartoni animati giapponesi, oggi detti, con maggior rigore tecnico, anime. Ciò si deve a una situazione affatto particolare: se altrove in occidente gli anime sono stati scoperti (e riscoperti, nel caso di quelli prodotti negli anni Sessanta e Settanta) dopo il successo globale di Dragon Ball e di altre serie subito successive, da noi le cose sono andate in modo molto diverso e tutto è accaduto molto prima. La proliferazione delle televisioni commerciali avvenuta negli anni Ottanta, e il conseguente bisogno delle emittenti di riempire lunghe giornate di palinsesto, portarono all’acquisto, al doppiaggio e alla trasmissione a ciclo continuo di praticamente tutto ciò che era stato prodotto dall’animazione giapponese nei due decenni precedenti e in quello in corso. Per i proprietari dei canali, non era che un modo per svoltarsela senza troppi problemi: si sapeva che Goldrake aveva funzionato in RAI, e tanto bastava; nessuno fece considerazioni di ordine qualitativo, e anzi l’idea generale era quella di aver fatto il pieno di materiale magari mediocre, ma comunque spendibile.

Abituati al livello delle produzioni americane ed europee, scoprimmo un universo di grandiosa complessità e varietà tematica.

Per noi fanciulli posti dall’altro lato dei teleschermi, le cose andarono in modo molto diverso. Abituati al livello, quello sì infimo, delle produzioni americane ed europee, e a programmi per ragazzi che erano ancora letteralmente condotti da clown e pupazzi, scoprimmo un universo di grandiosa complessità e varietà tematica: c’erano i robottoni, ovviamente (e ce n’erano tantissimi); c’erano cartoni animati sportivi, che avevano protagonisti ragazzini come noi (ok, un filo più bravi: ma in realtà solo perché proiezioni di come immaginavamo di giocare quando lo facevamo); c’erano romanzoni strappalacrime più o meno rivisitati; c’erano assurde vicende umoristiche, e di un humour che non avevamo mai visto prima, incluse le parodie di quegli stessi robottoni; c’era il wrestling (anzi, il catch); c’erano ninja e samurai; c’erano avventure spaziali e western e scolastiche e ladri gentiluomini; c’erano il post-nucleare e l’horror; c’erano generi del tutto nuovi, come le storie che avevano come protagoniste ragazzine in grado di trasformarsi in “maghette”; c’erano romanzi storici che ci raccontavano eventi a noi noti, come la Rivoluzione Francese, con forza narrativa inaudita; c’erano storie d’amore e tristi vicende d’orfanelle; c’erano eroi messianici – solitari, in stile Sergio Leone, oppure in gruppi, in genere di cinque, secondo una qualche tradizione che si sfuggiva, ma che doveva avere radici profonde – forti di un afflato epico impensabile nei prodotti per l’infanzia a cui eravamo abituati. C’erano, insomma, le grandi narrazioni, quelle che anni dopo avremmo trovato nei migliori romanzi e nei migliori film, e molti anni dopo anche nelle migliori serie TV: all’epoca, i telefilm in programmazione (che pure guardavamo) impallidivano al confronto. E se impallidivano, c’era una ragione ulteriore: non era solo questione di forza delle narrazioni, di varietà tematica, di complessità morale. C’entrava anche il fatto che quei “cartoni animati giapponesi”, o almeno la maggioranza di essi, non si limitavano a raccontare una storiella in ogni episodio: le puntate erano in continuità, si articolavano in saghe lunghissime, ricche di archi narrativi interconnessi. I personaggi non erano bloccati in un eterno presente, ma si evolvevano col tempo, andavano avanti, acquisivano nuovi poteri, c’era chi moriva. In alcuni casi osavano addirittura crescere, cambiare abbigliamento (!), evolvere la loro postura morale e visione del mondo.

Mettersi semplicemente a dire che L’attacco dei giganti è scritto bene sarebbe futile quanto ricordare che ha un’ottima animazione e grandi musiche: basta guardarlo per rendersene conto.

Discutere di quale sia il miglior cartone animato, tra tante opere leggendarie, sarebbe oggi ozioso, ma di certo se si mettono attorno a un tavolo alcune persone nate nel periodo succitato e qualcuno comincia a parlare di Ken il guerriero, di Lady Oscar, dell’Uomo Tigre, dei Gatchaman, dell’Incantevole Creamy, di Jeeg robot d’acciaio, di Daitarn III, di Holly & Benji, di Yattaman, di Dr. Slump & Arale, di Fantaman, di Capitan Harlock, di Mimì e le ragazze della pallavolo, di Galaxy Express 999, di Devilman, di Lupin III, di Conan il ragazzo del futuro, di Doraemon, Heidi, Occhi di gatto, Pollon, Candy Candy, Georgie, Kyashan, Lamù, Gigi la trottola o I cavalieri dello zodiaco (e la lista potrebbe continuare…), gli occhi di tutti si illumineranno, partiranno aneddoti, rievocazioni, “fan theory”, ricordi d’infanzia, commenti esilaranti su momenti più o meno surreali… Ma lasciamoci dietro la varietà di generi per concentrarci su uno di essi, quello che ha finito quasi per sovrapporsi all’idea che la vulgata ha dell’animazione giapponese (e che in effetti può esserne considerato il più caratteristico): lo shōnen, che starebbe per “storie destinate a un pubblico adolescenziale per lo più maschile” ma ormai nel parlato comune indica storie d’azione e combattimento, in cui gli scontri sono l’elemento essenziale. Non perdiamoci in tassonomie troppo specifiche: sappiamo che esistono molti proto-shōnen, che ci fu l’influenza del cinema di arti marziali di Hong Kong, che a volte lo shōnen può sovrapporsi al seinen (genere più oscuro e violento destinato a un pubblico un po’ più maturo), eccetera eccetera, ma quel che conta è che abbiamo adorato quei guerrieri, che fossero discepoli di arcane scuole di arti marziali, wrestler, piloti di robot giganti, piccoli ninja, ragazzini capaci di metamorfosi, cyborg tormentati, o ancora adolescenti con grossi zaini cubici stile rider che contenevano ridicole armature colorate – le quali, pure, quando venivano fuori e gli si appiccicavano magicamente addosso, sapevano essere incredibilmente epiche. Li abbiamo adorati, altroché: abbiamo immaginato innumerevoli volte di essere loro.

Per alcuni di noi, tutto ciò è rimasto un bel ricordo d’infanzia; per altri, la passione è continuata, anche grazie ai manga: forti di questa base condivisa, alcuni pionieri, su tutti i “Kappa Boys” e la Granata Press, poi seguiti da altre case editrici, portarono in Italia anche i fumetti da cui erano stati tratti quegli anime, e altri mai visti assieme a essi, mentre il Giappone continuava a produrre nuovi fumetti e nuove serie, e giù allora con il manga di Ken il Guerriero (sì, la terza serie esisteva, almeno su carta!), Bastard!, Dragon Ball, Le bizzarre avventure di JoJo, Berserk, Battle angel Alita, Guyver…, e ancora Bleach!, Naruto, One Piece, Hunter x Hunter, Inuyasha… E con titoli come Fairy Tail, Demon Slayer, My Hero Academia, Jujutsu Kaisen o Tokyo Revengers (altra lista incompleta, certo…) eccoci arrivati all’oggi. Con questi titoli, e con L’attacco dei giganti.

La riflessione che ci conduce ad affermare, oggi, il primato dell’Attacco dei giganti, non è infatti solo qualitativa in sé, ovvero su cosa viene fatto bene, ma ha a che fare anche con quali errori vengono evitati.

AoT, se si vuol fare i fighi (dall’acronimo inglese Attack on Titan), o Shingeki no Kyojin se si vuol fare davvero i fighi. Noi diremo quindi L’attacco dei giganti. Non è un caso che si citi per ultima la serie tratta dall’opera di Hajime Isayama. In questa sede, infatti, ci si spingerà a sostenere che, per quanto riguarda lo shōnen, L’attacco dei giganti è la miglior serie animata d’ogni tempo: sì, quella capace di battere anche i classici immortali della nostra infanzia. Di superare Devilman e Ken il guerriero e i Cavalieri dello zodiaco. Tutti. Anzi, di battere pure i classici delle infanzie di chi è venuto dopo di noi, e quindi Dragon Ball, Naruto e One Piece. È importante farlo, crediamo, perché siamo cresciuti nella ferma convinzione che le saghe della nostra infanzia non sarebbero mai state battute. Mai. E in generale è sempre difficile accettare che il “GOAT” è tra noi, ora, e non appartiene al passato: lo si vede bene nello sport… Invece, qualcosa del genere può accadere, e nonostante la potente rete difensiva della nostalgia, se ne può prendere anche atto. E si può così prendere atto del fatto che ciò è bene. Le arti procedono. Si va avanti.

Sia chiaro: pur amanti sfegatati di quell’epoca d’oro, non eravamo ciechi nostalgici. Seguivamo le nuove serie con speranza sincera. Avevamo capito che Dragon Ball segnava un decisivo salto di paradigma; avevamo adorato l’originalità folle di JoJo; avevamo apprezzato il mirabile character design di Naruto (e per un po’ avevamo anche creduto alla promessa di Kishimoto di non commettere gli errori di Toriyama, finendo a esagerare il potere dei personaggi principali in modo parossistico e lasciare tutti gli altri sullo sfondo… Del resto, sulle occasioni perse da Naruto si potrebbe scrivere un intero pezzo, e forse un giorno varrà la pena farlo); avevamo apprezzato la vastità del mondo di One Piece e il suo piglio grottesco, e ovviamente avevamo adorato Berserk, godendo molto ma piangendo altrettanto quando capimmo che Miura aveva cominciato ad allungare il brodo (cosa ci fai vedere Guts ammazzare dei troll? Dei mostri marini?! Manda avanti la storia, maledizione! Ma sappiamo cosa è successo dopo, nel mondo reale, e quindi è tutto perdonato. Passiamo oltre, tanto più che qua si parla di anime, e un anime davvero degno del fumetto, Berserk non ce l’ha mai avuto).

Si badi bene: si è scritto serie animata, anche perché il manga dell’Attacco dei giganti non può ambire ad alcun primato per i tragici limiti tecnici nel disegno di Isayama (che, certo, va poi a migliorare, ma anche a fine saga si pone giusto al limite della pubblicabilità, considerando l’elevatissimo standard dell’entry level nello shōnen seriale – si prenda, ad esempio, l’eccellenza grafica di un lavoro scritto infinitamente peggio quale è Demon Slayer). Ma forse ciò rende ancora più interessante il fatto che l’anime tratto da quel fumetto che usciva su una rivista di secondo piano, e di certo non si faceva notare per la qualità grafica, sia il capolavoro che è. 
Si sa che Isayama, prima di arrivare alla pubblicazione, aveva collezionato molti rifiuti, ma alla fine qualcuno capì che nell’Attacco dei giganti si annidava qualcosa. Qualcosa di rilevante, anzi di profondo – chissà, forse all’inizio non del tutto chiaro neanche all’autore stesso. Qualcosa che, una volta tolto dalla carta e messo in mano a studi d’animazione d’eccellenza come WIT prima e Mappa poi (che, si badi bene, non si sono limitati a “mettere in movimento” il fumetto: hanno capito cosa avebbe voluto fare Isayama se avesse avuto le capacità tecniche per farlo, e lui si è giustamente messo a disposizione per potenziare questa spinta), ci avrebbe dato una delle grandi opere del nostro tempo.

Una serie animata che ci dicesse qualcosa su di noi e sul mondo, ed ecco la virtù finale e superiore dell’Attacco dei giganti: il suo essere una grande opera sulla guerra e sull’etica.

Che L’attacco dei giganti fosse speciale, nonostante si presentasse con diversi limiti iniziali – il solito trio di protagonisti, un’ambientazione tardo-settecentesca di dubbia coerenza, quegli spadini-trincetto, la solita fase di addestramento col sergente inflessibile… – lo capimmo subito. I giganti, intanto: dopo mille anime a base di demoni generici da far sbadigliare fino alla morte, finalmente qualcuno aveva ritrovato il perturbante. Non era il perturbante di Nagai (e quindi di Miura): aveva una marca diversa, tutta sua, più giocata sul grottesco, sull’idea di un nemico con cui non solo bisogna combattere, ma non si può comunicare. L’influenza era, al limite, quella di Romero, ma l’effetto era diverso anche dal suo cinema. I giganti, tutti sproporzionati, sbilenchi, erano così per i limiti tecnici del disegno di Isayama? È possibile, ma, come si suol dire, è stato capace di far di necessità virtù. Poi, dopo un po’, anche la storia cominciava a girare, entravano in campo comprimari interessanti, i protagonisti si rivelavano meno “stock” del previsto, e lo spettatore cominciava a trovare ragguardevoli soddisfazioni. Soddisfazioni e sofferenze, visto che Isayama, un po’ in stile G.R.R. Martin, non si faceva problemi a presentare personaggi interessanti e dotati di un grado di dettaglio e di uno screen time tali da farci pensare che li avremmo seguiti a lungo, e poi ammazzarli in modo orrendo. A un certo punto, tra la fine della prima stagione e la metà della seconda, la situazione si fa così cupa che si arriva a pensare (a patto di farsi prendere un po’ dalle emozioni, ok) che financo la “plot armor” del protagonista possa non tenere!

Ma insomma, mettersi semplicemente a dire che L’attacco dei giganti è scritto bene sarebbe futile quanto ricordare che ha un’ottima animazione e grandi musiche: basta guardarlo per rendersene conto, e se non avesse almeno tutto questo, non sarebbe un candidato al titolo di miglior shōnen di sempre. Anche la moda fattasi perniciosa dei plot twist obbligatori, continui e clamorosi (una delle tante cose che hanno rovinato Naruto) qui viene applicata in modo sensato: quando ci sono – e ci sono –, nella maggior parte dei casi funzionano davvero. Anzi, a un certo punto si ribalta proprio tutta la storia, e come sa chi ha già visto la serie, non è solo un momento molto bello, ma addirittura definitorio. Tuttavia, per arrivare al perché si può considerare L’attacco dei giganti il miglior shōnen di tutti i tempi, è necessario trascendere anche le riflessioni qualitative, che pure potrebbero continuare: grande atmosfera, ottimo character design, ritmo sempre teso, niente filler, eccetera. Certo, ci sono anche i difetti: un worldbuilding sviluppato chiaramente a serie in corso (ma questo a un mangaka lo si perdona, dato che l’editoria giapponese è spietata nel far chiudere le serie che non vanno subito bene o hanno un calo d’apprezzamento, ed è quindi logico per gli autori mettere tutte le energie sul presente e procedere passo passo sul resto) e soprattutto una metafisica più che incerta, prona a variare a vicenda in corso secondo le esigenze, con diverse cadute nella “retcon”. Nulla, però, che i pregi non spazzino via: basterebbe la sola scena di Eren sul muro con Reiner e Berthold, o quella in cui se la vede assieme a Mikasa col Gigante Martello e il Gigante Mascella, col susseguente arrivo dei “demoni di Paradis” in nuova tenuta da battaglia, per perdonare qualunque difetto: si tratta del resto di alcuni dei momenti più alti della serialità televisiva in assoluto, e non solo degli shōnen in particolare o degli anime in generale.

La riflessione che ci conduce ad affermare, oggi, il primato dell’Attacco dei giganti, non è infatti solo qualitativa in sé, ovvero su cosa viene fatto bene, ma ha a che fare anche con quali errori vengono evitati. Ogni volta che guardavamo uno shōnen, era inevitabile immaginare cosa avrebbe potuto essere fatto meglio. Di Ken il guerriero, ad esempio, ci aveva sempre dato un po’ fastidio il fatto che tutti gli antagonisti principali venissero sempre sconfitti dallo stesso Ken (sì, ok, il contentino di Yuda… ma non era sufficiente); a questo metteva una discreta pezza I cavalieri dello Zodiaco, che distribuiva abbastanza i meriti ma pativa una monotonia ragguardevole nelle mosse dei personaggi, una imperdonabile verbosità e l’irritante (giacché fin dall’inizio ovvia) superiorità di Seiya/Pegasus; Dragon Ball, nel suo momento d’oro (diciamo tra il primo torneo Tenkaichi e la sconfitta del secondo Piccolo, a voler fare i puristi; fino alla fine della saga dei Saiyan a voler essere meno rigidi; fino a Freezer se proprio si è dei sentimentaloni) pareva la quadratura del cerchio, ma finiva per perdersi in un vortice ascendente di livelli di potere sempre più assurdi, che andavano a uccidere la varietà degli scontri e a mettere in secondo piano comprimari che avremmo voluto vedere ancora in azione. E così via.

Insomma, lo shōnen ideale non esisteva, e noi volevamo lo shōnen ideale. Uno in cui tutti i comprimari fossero valorizzati. Uno in cui non facesse tutto il protagonista, e magari non fosse neanche il personaggio più forte. Uno in cui l’eroe non fosse il solito perfettino, ma neanche l’ormai abusato tontolone ridanciano (grazie Goku, grazie Naruto, grazie Luffy, siete stati grandi, ma basta). Uno in cui i personaggi femminili fossero all’altezza di quelli maschili (assurde le accuse di una parte del fandom a Isayama: certo Eren è centrale e Levi e Erwin spesso rubano la scena, ma Mikasa, Annie, Hanji, Ymir, Sasha, Historia, Pieck e financo Gabi sono grandi personaggi e, preso nel complesso, il cast femminile della serie è superiore per interesse a quello maschile). Uno in cui i colpi di scena non sembrassero appiccicati con lo sputo. Uno in cui le situazioni di combattimento fossero risolte anche con l’intelligenza e la tattica. Uno in cui il power scaling restasse sotto controllo. Uno che avesse tutti i topos che avevamo imparato ad amare (varrà la pena notare che i titani sono anche robottoni, e quella grandezza di scala ci mancava da tempo), ma allo stesso tempo non assomigliasse a nessun altro. Uno, infine, che ci dicesse qualcosa su di noi e sul mondo, ed ecco la virtù finale e superiore dell’Attacco dei giganti: il suo essere una grande opera sulla guerra e sull’etica. Pensiamo al momento in cui i nostri si ritrovano loro malgrado a torturare un sospetto, al carico emotivo di quella scena solo apparentemente secondaria. A quando si ritrovano per la prima volta a usare le loro armi contro degli esseri umani. Alla famosa “scena di Marco”, divenuta suo malgrado un meme. All’espressione di Armin, ormai dotato del potere del Gigante Colossale, prima di far saltare in aria la flotta di Marley. A quando, infine, il trito schema protagonisti-antagonisti muta nel modo più efficace visto finora in TV: non semplicemente ribaltandosi ma riuscendo, nel ribaltamento, a restare comunque ambiguo, perché nella guerra la prima vittima è la verità, come ebbe a dire Isayama – o forse Eschilo, chissà.

Autore di un saggio, un libro di poesie e dieci romanzi, l'ultimo dei quali è "Dilaga ovunque" (Laterza 2023). Scrive sul Corriere della Sera, Linus, Internazionale e varie riviste.