Respira e distruggi

Nsey Benajah

Quali sono i metodi più efficaci per prendersi cura del proprio esaurimento nervoso? In questo reportage osserviamo due scelte agli antipodi: le rage room e la respirazione olotropica.

da Quants numero 12, 2024

«Ci vengo una volta a settimana, tutti i martedì» mi dice M. con il fiatone e le guance rubiconde, dopo essersi tolto un casco da motocross. L’ho aspettato al termine della sua seduta settimanale di rage room, un appuntamento che lo aiuta a fare ordine in testa, mi dice, indicandosi una tempia.

M. opera nel settore della consulenza finanziaria, ho cercato più volte di farmi spiegare in cosa consista di preciso il suo lavoro, tuttavia – e me ne assumo tutta la responsabilità – non sono in grado di riportarlo. Credevo si trattasse di consigliare alle persone come investire i propri risparmi, ma non è così. È più una questione di ottimizzazione dei costi e delle risorse delle grandi aziende, mi dice. Il lavoro in sé gli piace, il problema sono le pressioni dei superiori e la competizione interna, il continuo confronto di RAL e bonus in ufficio mina la sua serenità. Gli faccio notare che l’immagine cinematografica dell’impiegato che va fuori di testa e distrugge tutto ciò che c’è sulla sua scrivania è un cliché fin troppo banale, persino più del calcetto con i colleghi e l’abbonamento in palestra per un maschio medio in carriera. Del resto, il calcetto e la palestra, sono gli altri impegni che occupano l’agenda di M. dopo il lavoro, che non inizia mai dopo le nove e non finisce mai prima delle diciannove. La rage room, però, è un appuntamento che detiene un valore diverso nel suo cumulo di voci ordinarie in agenda. Non si tratta di sfogare la rabbia, ma di espellere un certo tipo di tossine dal cervello per poter essere lucido con i clienti.

«Dura solo un quarto d’ora, è un attimo, distruggo un po’ di cose per i cazzi miei e il giorno dopo sto sul pezzo in giacca e cravatta». Dopo un po’ si stufa delle mie domande e mi saluta.

Anche se non si direbbe, le rage room sono una relativa novità. Sebbene il concetto di base sia abbastanza semplice – uno spazio circoscritto e sicuro dove distruggere una serie di cose predisposte – l’offerta è molto diversificata ed esistono diverse forme di accesso, che variano per durata, numero di persone, costi e, soprattutto, quantità e tipologia di oggetti da distruggere. Ovviamente non manca l’esperienza di coppia. Vi sono poi una serie di servizi a corollario dell’esperienza: la scelta della musica o la possibilità di registrare e conservare un video dell’intera sessione. È possibile inoltre portare con sé degli effetti personali: l’esempio immancabile, pubblicizzato da tutti i siti di rage room che ho visitato, è quello di distruggere un regalo ricevuto dall’ex partner, oppure una foto del proprio capo.

In Italia le rage room sono un esercizio commerciale che esiste solo da qualche anno e si trova in una manciata di città. Stando a Wikipedia, la prima al mondo avrebbe aperto in Giappone nel 2008, contemporaneamente a un’attività simile avviata in un garage di Dallas, che è poi divenuta una delle catene di rage room di maggiore successo negli Stati Uniti. Tuttavia la loro grande espansione si colloca sul finire dello scorso decennio, durante il quale c’è stato un boom di inaugurazioni in tutto il mondo. La pandemia ha fatto il resto. Secondo Report Prime, nel 2020 il valore di mercato globale delle anger room si aggirava attorno ai 166 milioni di dollari, con ampie prospettive di crescita previste nel decennio successivo. «Per la crescente consapevolezza in materia di salute mentale e il bisogno di attività anti-stress», aggiungeva il report.

In Italia le rage room sono un esercizio commerciale che esiste solo da qualche anno e si trova in una manciata di città. Stando a Wikipedia, la prima al mondo avrebbe aperto in Giappone nel 2008.

Molti psichiatri ed esperti sostengono che le rage room non siano un rimedio efficace per la gestione della rabbia e che la loro efficacia in termini di salute mentale non abbia alcun fondamento medico o scientifico. I gestori di questi spazi non hanno alcun interesse a dimostrare il contrario e non fanno altro che ripeterlo ovunque sia loro possibile, sui siti web, sulle pagine Instagram, con dei cartelli redatti con font assertivi e minacciosi all’entrata.

«Non è un’alternativa a un percorso di cura della propria psiche, per chi sente di avere dei problemi di gestione della rabbia» mi dicono due ventenni, studenti universitari alla loro prima esperienza in una rage room. Chiedo loro perché sono lì e mi guardano facendo spallucce. «Perché è divertente», rispondono. Mentre firmano i moduli necessari al via libera e indossano le tute anti-infortunio obbligatorie, aggiungono «è un’attività ricreativa per chi cerca un po’ di adrenalina, come buttarsi col paracadute o giocare a paintball. La differenza è che ti stanchi e allora magari quello ti scarica». Difatti l’attività sportiva è consigliata per diminuire i livelli di stress, ma lo scetticismo dei medici verso le rage room è di altra natura: diversi studi hanno dimostrato che sfogare la frustrazione con aggressività diminuisce solo momentaneamente i livelli di rabbia, come una specie di scarica effimera. Inoltre, i soggetti che esternano con violenza la propria aggressività, saranno maggiormente inclini a farlo di nuovo, aggiungono.

Mi è tornato in mente uno studio svolto sui topi di cui avevo letto i risultati, probabilmente condivisi in maniera ironica da qualcuno sui social. Sostanzialmente alcuni scienziati dell’Università di Stanford avevano osservato che nei topi esposti alla rabbia dei propri simili si attivavano automaticamente gli stessi neuroni a specchio che mediano la rabbia e l’aggressività nell’ipotalamo. In estrema sintesi tra i topi incazzati la rabbia è contagiosa e questo – accennava lo studio – non dovrebbe essere poi tanto diverso anche per il funzionamento del cervello degli esseri umani.

Rabbia repressa e stress sono tra le cause principali della depressione, una patologia attorno alla quale qualunque statistica aggiornata è inquietante, così come i report sul crescente utilizzo di farmaci ansiolitici su scala globale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 5% della popolazione mondiale è affetta da depressione diagnosticata, un numero enorme che significa anche un’altra cosa: c’è una percentuale inestimabile di persone depresse che non ricevono cure adeguate, e probabilmente sono milioni. Forse era a questo che alludeva il report ottimista sulla crescita del mercato delle rage room.

A dire il vero quello che mi hanno detto i due studenti non si allontana dalla verità, per quel che ho avuto modo di vedere. Le rage room sono un’attività ricreativa. Nei miei giorni di perlustrazione ho incontrato perlopiù comitive di ragazzi che la vivevano come una forma alternativa al vandalismo, non per questo meno divertente. Entravano alla spicciolata con le loro tute e le scarpe bianche, portandosi dietro un paio di fidanzate che aspettavano fuori annoiate a morte. Ho fatto in tempo a incontrare un gruppo di trentenni lì per un addio al celibato, due feste di compleanno, e una specie di gioco aziendale per fare team building. A tal proposito, per preparare questo articolo, ho letto che nelle rage room degli Stati Uniti vanno fortissimo le fotocopiatrici. Tantissimi yuppie vogliono distruggere le fotocopiatrici che li rendono frustrati in ufficio. È curioso che nell’era digitale sia ancora quello il simbolo recondito dell’odio verso il proprio lavoro, più dello smartphone o di un banale laptop. Tuttavia il motivo per cui mi era arrivata quella notizia era un altro: l’utilizzo delle fotocopiatrici nelle rage room era stato regolamentato. I metalli, le batterie e i gas delle stampanti, come di altri dispositivi elettronici, possono essere estremamente pericolosi per la salute e dannosi per l’ambiente, per questo vanno smaltiti con dei cicli specifici alle quali anche le rage room devono attenersi. Poche cose descrivono meglio i tempi in cui viviamo.

Un articolo a tema rage room uscito sul Guardian nella primavera del 2023, raccontava quanto nel Regno Unito fossero regolarmente frequentate da donne. L’articolo cita una ricerca del Gallup World Poll riportato anche dalla BBC, che ogni anno raccoglie e cataloga gli stati emotivi della popolazione di oltre cento paesi. Se nel 2012 i livelli di ansia e rabbia registrati erano simili per donne e uomini, nell’arco di un decennio l’equilibrio è andato perduto. Nel 2022 i risultati davano uno scarto di sei punti a favore delle donne.

L’articolo proseguiva raccontando l’esperienza di diverse donne in una rage room di Norwich, delineando delle caratteristiche che mi sono state confermate anche dai gestori delle rage room di Milano e Roma ai quali ho sottoposto la questione. Moltissime donne frequentano le rage room per motivi direttamente riconducibili a discriminazione di genere: una valvola di sfogo per la rabbia repressa a causa di micro-aggressioni e molestie subite quotidianamente, il sostituto di una corsa all’aperto dove però non si sentono in pericolo o osservate.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 5% della popolazione mondiale è affetta da depressione diagnosticata.

F. mi dice di frequentare una rage room sporadicamente, «solo dopo le grandi occasioni, una volta ogni due mesi circa». Le grandi occasioni sono una riunione importante durante la quale il suo capo non l’ha lasciata parlare neppure un minuto o una trasferta in cui ha dovuto assecondare i suoi comportamenti morbosi e le sue battutine del cazzo. Anche lei opera nell’ambito della consulenza, nel ramo delle risorse umane. Un mondo fatto di persone che lavorano in aziende enormi, che offrono servizi di consulenza ad altre aziende enormi, ed è in alcuni di quei luoghi silenziosi e appartati che risiedono molti mali invisibili della nostra epoca. Assicurazione sanitaria, buoni pasto elettronici, convenzioni con centri sportivi, parrucchieri o centri estetici, fondi pensione integrativi, prestiti agevolati, premi produttività, casual friday… Ma poi appena possono corrono a firmare una liberatoria in cui garantiscono di non avere istinti autolesionisti prima di impugnare un piede di porco e dare libero sfogo a tutto l’odio accumulato nelle otto ore precedenti.

Chiedo a F. se per lei la rage room sia un rimedio che funziona, e mi risponde di no, ma ci si imbatte nel percorso di ritorno dal lavoro verso casa e a volte non resiste alla tentazione di sfasciare qualche piatto.

«Tu hai mai provato?» mi chiede, e io mi sorprendo incapace di rispondere al perché non ne abbia mai sentito l’esigenza. Nemmeno per completare l’esperienza in vista di questo racconto, ho mai pensato di cimentarmi. Non che non sia mai stato frustrato per il mio lavoro o non provi angoscia verso praticamente qualunque cosa riguardi il mio futuro. Suppongo sia in parte perché ho paura di rimanere deluso, non molto di più. «Allora ti consiglio un’altra cosa che faccio ogni tanto e che non ti deluderà».

A questo punto decido di dare a questo racconto una piega inaspettata. Avrei dovuto occuparmi di rage room e con il pretesto indagare i motivi del loro crescente successo, capire perché siamo pieni di rabbia più di quanto non avvenisse in passato, con tutto il corredo naturale di trigger assortiti, notifiche, schermi, smartphone, esposizione al successo altrui, fallimento, sindrome dell’impostore, ingiustizia sociale, crisi economica. Ma mi trovavo già in grave ritardo con la consegna del pezzo e non avevo ricevuto limiti di battute, per cui tanto valeva andare fino in fondo.

Non avevo mai sentito parlare di respirazione olotropica, almeno credo. Di certo non l’avevo mai cercata su Google prima. È stata inventata dallo psichiatra ceco Stanislav Grof ed è, in estrema sintesi, una pratica meditativa basata sull’iperventilazione, che porta a stati alterati della coscienza.

Che collegamento poteva esserci tra una sessione di rage room e una di respirazione olotropica? E soprattutto, quanto si differenziano le persone che le praticano? Con mia somma soddisfazione, avrei scoperto che non si differenziano moltissimo. Se si va oltre la cornice new age e tutta una terminologia spirituale e un po’ fricchettona propria dei più avvezzi, a una sessione di respirazione olotropica ci si può imbattere – per quanto ho avuto modo di constatare tra chi ha voluto darmi una risposta – in avvocati, personal trainer, social media manager, osteopati e, naturalmente, consulenti aziendali, i quali, a questo punto diventa evidente, si trovano pressoché ovunque.

La mia esperienza con le sostanze psichedeliche è molto limitata e non ha mai dato esiti entusiasmanti. Nella migliore delle ipotesi è successo poco e niente, nella peggiore è stato un inferno. Motivo per il quale ho smesso di esplorare, convinto che il poco di misterioso che risiede dentro di me preferisce non essere scoperto. Tuttavia temevo che i tentativi di intrufolarmi a uno dei weekend di ritiro da osservatore esterno sarebbero stati respinti, perché, comprensibilmente, un tizio lucidissimo in mezzo a un gruppo di persone in estasi in qualche modo desta sospetto, oltre a essere un elemento di disturbo. Dopo varie elucubrazioni che hanno contribuito all’ulteriore ritardo nella consegna di questo pezzo ho deciso di immolarmi per la causa e di iscrivermi al primo incontro disponibile.

Nel mio caso il ritiro non era un vero e proprio ritiro. Si trattava di due giorni separati. Il primo giorno era dedicato agli aspetti teorici e a familiarizzare con il gruppo e il luogo, che aveva tutte le sembianze di un grande studio dentistico di un odontoiatra appena tornato dal Tibet. Le nostre guide, anche dette facilitatori, ci hanno spiegato come si sarebbe svolta la seduta, quali sarebbero stati i benefici e cosa sarebbe potuto accadere. Di fatto ero finito in un saggio di Pollan o, peggio ancora, in un romanzo di Carrère. L’indomani avremmo fatto ritorno in quel posto per passare all’attività pratica.

La respirazione olotropica è stata inventata dallo psichiatra ceco Stanislav Grof ed è una pratica meditativa basata sull’iperventilazione, che porta a stati alterati della coscienza.

La respirazione olotropica si svolge in coppia e a turno. A ciascuno è stato assegnato il rispettivo sitter, che avrebbe vegliato sull’altro mentre si era in fase di breather e viceversa. In altre parole durante la pratica si sta sdraiati a terra, a pancia in su e con gli occhi chiusi. In sottofondo c’è una musica ambient – nel mio caso vagamente celtica – sparata a volume molto alto. Guidati dai facilitatori si respira a un ritmo sempre più sostenuto, mentre il sitter se ne sta, per l’appunto, seduto lì a fianco. Qualcuno ha preferito tenersi per mano. La mia sitter era una social media manager, una ragazza più o meno mia coetanea. Nella giornata precedente ci era stato chiesto di raccontare le motivazioni che ci avevano spinto a praticare la respirazione olotropica. Non mi ero assolutamente preparato un discorso, per cui avevo ripetuto a nastro quello che era venuto fuori negli interventi precedenti: bisogno di evadere dalla routine, voglia di conoscere aspetti inediti della propria interiorità, pura curiosità, necessità di trovare calma ed estasi. Tutte cose da cui in realtà volevo tenermi alla larga. La social media manager aveva detto di essere lì perché molto stressata e inquietata dal suo lavoro che considerava inutile ai fini della sussistenza della civiltà. Quasi ogni intervento ha tirato in ballo il lavoro e il senso di vuoto che provocava. Nessuno ha parlato di rabbia, ma era chiaro che ciò che li aveva spinti lì non avesse sembianze tanto diverse da ciò che aveva portato B. e F. in una rage room.

L’atmosfera era molto cordiale e ordinaria. Ho chiesto alla social media manager di iniziare per prima, perché, giunti al momento cruciale, iniziavo a essere un po’ terrorizzato. Le cose non sono migliorate quando l’osteopata ha chiesto ai facilitatori se avessero mai assistito a un esorcismo. Non è stata tanto la domanda, quanto la risposta composta di chi effettivamente sembrava aver assistito a qualcosa di assimilabile a un esorcismo, a mettermi ansia.

Ero seduto accanto alla social media manager che inspirava dal naso ed espirava dalla bocca. I contorni della voce dei facilitatori erano sbiaditi dalla musica ad alto volume. Sapevamo che stavano dando delle indicazioni più o meno astratte: coscienza, accogliere, diaframma, ego, calore, corporeità, aprire, aumentare, ma ne coglievamo solo l’essenza, non i dettagli. C’era, nonostante questo, una calma reverenziale. L’ondeggiare dei respiri dei presenti creava un effettivo movimento, nei loro busti supini e nelle geometrie della stanza. Ho iniziato ad avere caldo e a sentirmi a disagio, sebbene non stessi facendo nulla in quel momento.

È a quel punto che la social media manager si è rotta in un pianto improvviso, fragoroso, che le scuoteva le spalle stese sul pavimento. Non sapevo cosa dovessi fare, tutte le indicazioni teoriche erano una tabula rasa nella mia mente. Mi sono guardato attorno e ho visto che alcuni breather si erano girati in posizione fetale, altri muovevano le labbra, altri si stiracchiavano lentamente, qualche sitter forniva poche parole di conforto. Dopo l’episodio di pianto la social media manager ha lentamente guadagnato uno stato di calma. Sorrideva e tirava su col naso, non sembrava neppure accorgersi della mia presenza. Dopo un tempo indefinito, la sua seduta era finita e sembrava in estasi. La pelle ringiovanita, le pupille dilatate. Ho pensato a F. in un contesto simile, dopo averla osservata dallo schermo di una piccola televisione in bianco e nero nella sala d’aspetto della rage room dove veniva trasmesso il suo quarto d’ora di scalmana e non ho tratto nessuna conclusione.

Durante la breve pausa tra i due turni di respirazione ho inventato una scusa per allontanarmi e recuperare il telefono e le scarpe. Sono salito in macchina e sono andato via.

Nato a Roma nel 1989, ha scritto per diverse testate, tra cui Domani, Il Tascabile, Rolling Stone, Esquire, Vogue, Rivista Studio.