Tra regolamentazioni e libertà, contro il dominio delle big tech. Una conversazione con Valerio Bassan, autore del libro Riavviare il sistema: Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla.
Un sistema informativo globale, semplice ma potente, che renda le informazioni liberamente accessibili ovunque e a chiunque. Nella visione dell’inventore del world wide web Tim Berners-Lee (il cui progetto è stato completato nel 1991), dovevano essere queste le caratteristiche fondanti della rete. Ed è per questa ragione che, rinunciando probabilmente a guadagni stratosferici, Berners-Lee ha deciso, letteralmente, di regalarlo all’umanità.
D’altra parte, come ha spiegato lui stesso, «se avessi trasformato il web in un prodotto, non sarebbe stato possibile utilizzare uno standard aperto e interoperabile, al quale chiunque si può liberamente collegare e attraverso il quale tutto ciò che qui dentro vive può interagire». Sul web e su Internet, ogni browser può collegarsi a qualunque sito, ogni provider di e-mail può comunicare con qualunque altro (permettendoci di inviare messaggi da Hotmail verso Gmail ecc.), ogni computer può spedire file ad altri.
Sono queste le caratteristiche che fecero venire in mente ad Al Gore, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti e grande promotore della diffusione di Internet, una metafora che da allora è rimasta impressa nell’immaginario collettivo: la rete come un’autostrada dell’informazione che attraversa tutto il mondo.
Eppure, a trent’anni esatti da quando il web e Internet iniziarono a diffondersi nelle abitazioni (negli Stati Uniti si passa dall’1,2% di utilizzatori del 1991 al 10% del 1995), la situazione in cui versa la rete globale è radicalmente diversa da quella immaginata da Berners-Lee. Certo, l’infrastruttura di Internet è ancora – e non potrebbe essere altrimenti – decentralizzata e senza padroni. Ma al suo interno si sono con gli anni diffuse piattaforme proprietarie, che non permettono di comunicare l’una con l’altra e che hanno il solo obiettivo di estrarre quanti più dati – e quanto più valore – possibile dai loro utenti.
Se un tempo Internet era il regno del web e dei browser, oggi è invece dominata da ambienti chiusi come i social network e le applicazioni. Sono sorti monopoli, duopoli e oligopoli. Le idee innovative vengono fagocitate o schiacciate dai colossi. E noi cittadini della rete ci troviamo intrappolati nei “walled garden”: i giardini recintati di Facebook, YouTube o TikTok, da cui uscire è quasi impossibile.
Se un tempo Internet era il regno del web e dei browser, oggi è invece dominata da ambienti chiusi come i social network e le applicazioni. Sono sorti monopoli, duopoli e oligopoli. Le idee innovative vengono fagocitate o schiacciate dai colossi. E noi cittadini della rete ci troviamo intrappolati nei “walled garden”: i giardini recintati di Facebook, YouTube o TikTok, da cui uscire è quasi impossibile.
Come siamo arrivati fino a qui? C’è mai stata davvero la possibilità che le cose andassero diversamente, considerando – per esempio – che fu proprio Al Gore ad aprire la rete agli investimenti commerciali, segnandone il destino? Ed è ancora possibile salvare Internet, attraverso nuove infrastrutture come il web3 o il fediverso, ma soprattutto attraverso l’azione di tutti noi, cittadini digitali? È quello che prova a capire Valerio Bassan con il suo Riavviare il sistema: Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla (Chiarelettere).
Spesso si identifica l’inizio della fine dell’open web – quell’utopia digitale secondo cui la rete sarebbe rimasta al di fuori del controllo delle grandi aziende e avrebbe permesso all’informazione di circolare libera e indipendente – con l’avvento del web 2.0 e delle grandi piattaforme social, in primis Facebook. Da un certo punto di vista, sembra però che questo destino fosse segnato fin dall’inizio. Il primo browser di massa, Netscape (lanciato nel 1994), aveva per esempio già sollevato le questioni legate alla privacy, al monopolio, alla raccolta dati. C’è mai stata, secondo te, davvero la possibilità che la rete non venisse fagocitata dai colossi della Silicon Valley?
Già nella metà degli anni Novanta ci si era resi conto che lo spirito originario di questa tecnologia, nata svincolata dalla società e dalle sue norme, era in pericolo. Non a caso, John Perry Barlow, nel 1996, lancia l’allarme con il suo Manifesto per l’indipendenza del cyberspazio, in cui afferma che nessuna istituzione deve avere sovranità sulla rete.
Il problema è che, nel momento stesso in cui Internet è uscita dai laboratori militari, è stata percepita come un ottimo investimento, sia statale che privato. Al Gore è stato il primo ad aprire le porte ai finanziamenti privati, permettendo a questa tecnologia di svilupparsi ma rendendo la dinamica capitalista inevitabile. E questo anche perché la liberalizzazione commerciale di Internet e la sua finanziarizzazione sposano in pieno lo spirito americano di fare affari.
È vero che sarebbe stato impossibile sfruttare al massimo le potenzialità di questa tecnologia senza garantirne allo stesso tempo una scalabilità e sostenibilità economica. Sono stati però bruciati alcuni step intermedi, proprio perché il capitalismo venne lasciato libero di appropriarsi subito di Internet. D’altra parte, erano gli anni Novanta degli Stati Uniti: la Guerra Fredda era finita ed eravamo in un periodo di grande ottimismo economico.
Forse la più grande dimostrazione di come le cose stiano gradualmente cambiando l’ha fornita Apple, che ha messo la privacy al centro del suo modello di vendita. Anche i cartelloni in giro per le città affermano «I tuoi dati qui sono al sicuro». Non era scontata questa cosa: nel 2015 nessuno l’avrebbe fatto.
Se gli attori privati fossero stati coinvolti in maniera un po’ più graduale, con un po’ di regolamentazione, avremmo evitato che diventasse un Far West tecnologico con pochissime regole. È stato sicuramente un momento eccitante per le start-up dell’epoca, ma allo stesso tempo molto diseguale. Chi aveva la furbizia o il capitale per investirci da subito l’ha fatto, senza nemmeno che ci fosse un quadro legale all’interno del quale operare. E poi, ovviamente, siamo finiti nella bolla delle dot-com.
Era inevitabile che andasse così, perché il contesto di mercato fa sì che nessuna tecnologia abbia una crescita organica. Dove c’è potenziale, c’è speculazione. E questo lo stiamo vedendo anche con le novità tecnologiche degli ultimi anni.
E infatti ci arriviamo subito. Nel libro tu riponi alcune speranze di recuperare quello spirito originario della rete in due nuove tecnologie. Prima di tutto il web3 basato su blockchain, che sfruttando le criptovalute dovrebbe distribuire agli utenti il potere economico detenuto oggi dai colossi tech, e poi nel fediverso, il cui esempio più noto è il social Mastodon e che punta a decentralizzare l’ecosistema digitale. Anche in questi casi potrebbe però esserci un problema: nel momento in cui espandiamo l’uso di questi strumenti per sostituire almeno in parte le grandi piattaforme, rischiano di ripresentarsi – per questioni di scala, di gestione e non solo – tutte quelle dinamiche che portano inevitabilmente alla centralizzazione. È come se queste realtà, e in particolare il fediverso gestito direttamente dagli utenti, potessero funzionare solo finché rimangono piccole, e quindi non possono aiutarci a scalfire il dominio di Big Tech.
Sono d’accordo e sono molto consapevole dei limiti del web3 e della blockchain, che nel libro cito volutamente pochissimo. È però un movimento che ha avuto, e in parte ha ancora, un aspetto molto interessante: quello di provare a immaginare un’alternativa. Sia il web3 sia il fediverso, e in generale questi movimenti di giustizia tecnologica, sono però portati avanti da piccole élite. Insomma, la persona media non ha gli strumenti e le capacità tecnologiche per sfruttare le loro potenzialità. La cosa più problematica del web3 è però un’altra, e cioè che, tramite le criptovalute, la speculazione è integrata nell’idea stessa. Possiamo però scindere questi aspetti da quello più positivo, ovvero che anche grazie a questi movimenti si sia parlato di modelli alternativi, cosa forse impensabile cinque o sei anni fa.
C’è una vera guerra su chi posa più cavi e quanti paesi connette. Con la falsa promessa di collaborare con le autorità locali. Quando si parla di paesi in via di sviluppo, quelle che si presentano sono le stesse dinamiche della trivellazione dei giacimenti petroliferi in Africa. L’ottica è la stessa: sto portando dei soldi, sto portando progresso e innovazione, ma in realtà è una forma di colonialismo.
Per quanto riguarda il fediverso, mi piace molto il concetto dell’interoperabilità delle varie piattaforme. Credo che questo sia anche l’unico aspetto che sta travalicando le mura dei giardini recintati delle big tech. Al momento è solo una conversazione ed è forse destinata a restare tale, perché quando non lo sarà più verrà fagocitato dalle stesse dinamiche capitalistiche. Non ho mai creduto che Mastodon sarebbe diventato pop. Però è interessante che l’abbiano provato parecchie persone, che si sia iniziato a parlare di più di fediverso o di social alternativi o di frammentazione degli spazi di dialogo. Forse non ancora la maggioranza della popolazione, però c’è una minoranza più grande di prima che almeno è consapevole di questi temi. Che poi è anche la ragione per cui questo libro è stato pensato per un pubblico più ampio, che magari dà un po’ per scontato che Internet semplicemente esista, che funzionerà sempre e che non si possa fare niente per migliorarla. Come sappiamo, non è così. Non è scontato che Wikipedia esista per sempre, che i cavi sottomarini che trasportano i dati non vengano tagliati o che i nostri spazi di libertà, tra l’altro sempre meno, continuino a esserci.
Tu dici che dobbiamo essere noi a prenderci cura di Internet. Ed effettivamente un po’ di segnali che alcuni temi stiano finalmente arrivando anche alla massa ci sono, per esempio quello della privacy. Quando però bisogna mettere sulla bilancia la cessione della privacy e la comodità di utilizzo dei social tradizionali, sembra che vinca sempre quest’ultima. L’abbiamo visto anche con l’esempio, già citato, di Mastodon: quando Elon Musk ha comprato Twitter è parso che tutti dovessimo fuggire su Mastodon. La cosa è durata poche settimane e poi Mastodon è tornato a essere un luogo di nicchia. L’impressione è che i tempi non siano ancora maturi per una migrazione di massa dalle grandi piattaforme. O forse che ci sia proprio un ostacolo invalicabile per il grande pubblico.
C’è un ostacolo invalicabile, che è dovuto principalmente alla facilità di utilizzo e alla potenza monolitica delle grandi corporation tecnologiche. È un mercato inoltre stantio, che non permette ai nuovi entranti di competere, mai. L’ultima grande novità è stata TikTok, che ormai ha sette anni ed è dovuto arrivare dalla Cina. In Europa siamo ancora sprovvisti di grandi start-up tech, se togliamo Spotify, Zalando e poco altro.
È un gap che si può colmare solo tramite la regolamentazione. Io non sono per principio a favore dell’estrema regolamentazione dei mercati, ma credo che quando la situazione lo richiede sia l’unica strada che permette di avere un po’ di impatto. La politica storicamente non ha mai capito Internet. Adesso, ogni tanto, si inizia a vedere qualche menzione relativa alla digitalizzazione dei servizi, al digital divide, ma non ancora del problema centrale, cioè come arginare il potere di Big Tech. Qui parlo più che altro dei singoli stati, l’Unione Europea invece ha preso una strada tutto sommato molto più dritta negli ultimi due anni e mezzo.
Anche portare al centro dell’agenda il tema della preservazione della rete – e quindi i nostri dati, la nostra privacy, la nostra felicità e sanità mentale sui social – sarebbe importante, per mettere un po’ di pressione politica sui colossi tech. Forse la più grande dimostrazione di come le cose stiano comunque gradualmente cambiando l’ha fornita Apple, che addirittura ha messo la privacy al centro del suo modello di vendita. Anche i cartelloni di Apple in giro per le città affermano «I tuoi dati qui sono al sicuro». Non era scontata questa cosa: nel 2015 nessuno mai l’avrebbe fatto. E invece ora è diventato un importante selling point, se mi passi il termine.
Il 2016, soprattutto per via dello scandalo Cambridge Analytica, è stato proprio l’anno in cui le cose hanno iniziato a cambiare, sia nella nostra percezione sia dal punto di vista dell’azione della politica. Abbiamo accennato all’Europa, che nell’ultimo periodo ha effettivamente cercato di regolamentare Big Tech, dimostrando come la politica possa davvero fare qualcosa. Eppure, negli Stati Uniti, Joe Biden si è lanciato in alcuni battaglieri proclami a cui poi non è seguito niente.
No, non è seguito assolutamente nulla: perché gli Stati Uniti sono chiaramente ben consapevoli del potere che hanno a livello globale grazie alle loro big tech. Per questo temo che immaginare un appoggio del congresso verso una regolamentazione in stile europeo – che li porti a identificare i colossi, imponga uno scrutinio sui loro algoritmi, li costringa a vendere parti dell’azienda – non sia realistico. È in realtà un privilegio dei 450 milioni di abitanti dei 27 paesi europei e non degli altri. C’è anche da dire che, per esempio, il GDPR (il regolamento europeo sulla protezione della privacy, ndR) ha avuto un sacco di emuli nel mondo. Se non sbaglio, adesso ci sono 80-90 GDPR diversi nel mondo: la Cina ne ha uno, i paesi del Sud America hanno il loro, la California ne ha adottato uno poco dopo. Quindi il famoso “effetto Bruxelles” esiste e ha un impatto globale.
Purtroppo l’unica strada è quella della regolamentazione. Da questo punto di vista, il GDPR un impatto l’ha avuto, perché tante aziende hanno dovuto cambiare i propri modelli di business o stare più attente a come trattano i dati e anche essere più trasparenti. Anche il fatto che le aziende debbano avere un whistleblowing sector in cui i propri dipendenti possono andare a denunciare qualcosa, sono tutte cose che, se le sommi, mostrano come ci sia una traiettoria tendenzialmente positiva se paragonata al pre-Covid, senza neanche tornare al 2016. È chiaro che se in Europa fosse andata al potere la destra estrema si sarebbe fermato tutto. Io non sono un fan di chi ha vinto davvero le elezioni europee, ma almeno con loro continuerà, magari solo in parte, il buon lavoro che si sta facendo, soprattutto per quanto riguarda Digital Markets e Services Act (che hanno lo scopo di aumentare la concorrenza e aprire i mercati digitali, ndR).
Il potere di Big Tech non riguarda solo la sua concentrazione, ma anche la sua espansione nel mondo, nei territori che offrono ancora grandi possibilità di crescita. Da questo punto di vista, può essere un ostacolo alla normalizzazione dei colossi il fatto che l’infrastruttura base di Internet, in particolare i cavi sottomarini che collegano il mondo, ormai sono progettati, finanziati e stesi dai colossi stessi? Se posseggono l’infrastruttura, come si fa a limitare il loro potere?
Sì, loro hanno fatto un discorso di lungo periodo, che ovviamente prevede di dominare il mercato facendo forecasting, quindi andando a occupare gli spazi liberi prima di tutti gli altri. C’è una vera guerra su chi posa più cavi e quanti paesi connette. Con la falsa promessa, da parte di quelli che chiamo i Signori del Cavo, di collaborare con le autorità locali. Soprattutto quando si parla di paesi in via di sviluppo, quelle che si presentano sono le stesse dinamiche della trivellazione dei giacimenti petroliferi in Africa. L’ottica è la stessa: sto portando dei soldi, sto portando del progresso, dell’innovazione, ma in realtà è una forma di colonialismo.
È un sistema molto complicato da sbrogliare, perché il potere accumulato è tanto. Allo stesso tempo, io vedo una sofferenza generica nelle big tech in questo momento. Una sofferenza non economica – anche perché ogni anno fatturano sempre di più – ma legata alla paura di fare un passo sbagliato. Sono in competizione esattamente per le stesse cose: per i satelliti, i cavi, gli spazi social, gli e-commerce. Certo, il sistema è costruito perché si autodifenda nel complesso. E i colossi si pestano i piedi tra loro, ma solo fino a un certo punto. È però proprio lì che dovremmo intervenire: imporre politicamente una vera competizione potrebbe alimentare almeno un senso di insicurezza.
«Credo che tutte le battaglie siano profondamente connesse tra loro. I diritti digitali, il cambiamento climatico, l’aborto, i diritti civili, i diritti LGBTQ: forse sono tante battaglie, ma alla fine è un’unica grande battaglia. Almeno io la vivo così».
Per esempio, Meta ora è chiaramente in una fase di insicurezza. Lo si vede anche nel modo in cui comunica: non sa più come comunicare bene le cose, sembrano quasi dei dilettanti. Non parlo solo del rebranding da Facebook in Meta, parlo proprio dei singoli comunicati, delle pubblicità, di come interviene Zuckerberg su alcuni temi. Fanno una brutta figura dopo l’altra e non riescono a essere convincenti. Questo fa capire che nulla è immutabile e che quindi anche queste posizioni di dominio, prima o poi, forse verranno ridiscusse.
Prima accennavi a come l’ascesa della destra potrebbe bloccare questo percorso, ancora in fase embrionale, di emancipazione da Big Tech. Forse allora non è un caso che nella Silicon Valley si avverta uno spostamento generale verso destra.
Si, purtroppo anche il dibattito tecnologico si sta spostando sempre più a destra, come il mondo. Sappiamo che le destre storicamente proteggono gli interessi del mercato, gli interessi finanziari a scapito di quelli delle persone, dei diritti civili. Purtroppo oggi la destra è molto più sul pezzo della sinistra per quanto riguarda la “guida del futuro”, se vogliamo usare questo termine. Sono più avanti e sono più bravi.
È vero che ci sono tante persone autodefinite progressiste che lavorano nelle big tech americane, e infatti, per fare solo un esempio, abbiamo assistito alle proteste dei dipendenti di Google di fronte ad alcune decisioni della società. Allo stesso tempo, però, il sistema capitalistico impone che se hai uno stipendio da 400mila dollari al mese difficilmente ti puoi rivoltare contro il padrone. Quindi non è solo da lì che si può partire per cambiare le cose. Però può essere un pezzo di quel tecnoattivismo che abbiamo visto dal 2018 in avanti e che è stato piuttosto interessante. Io credo che tutte le battaglie siano profondamente connesse tra loro. I diritti digitali, il cambiamento climatico, l’aborto, i diritti civili, i diritti LGBTQ: forse sono tante battaglie, ma alla fine è un’unica grande battaglia. Almeno io la vivo così.