In una corsa disperata orientata alle vendite, il sistema moda negli ultimi due anni sembra essere stato sottoposto a un “regime del terrore” in cui nulla è certo, e tutto sembra sul punto di dover cambiare… Ma cosa esattamente?
Tutto sembra essere cominciato quel novembre del 2022 in cui venne annunciata la fine del rapporto tra Alessandro Michele e Gucci, brand di cui il designer romano era stato direttore creativo per ben sette anni. Una notizia che in breve tempo fece il giro del mondo, scombussolando gli animi degli addetti ai lavori e non solo, che forse per la prima volta dopo tanto tempo si sono trovati faccia a faccia con una nuova certezza, ovvero che di certo non c’era più nulla. Un connubio, quello tra Michele e Gucci, iniziato nel 2015 e ancora oggi considerato tra i più importanti “miracoli” della moda; prima dell’arrivo di Michele, Gucci era sì un brand storico del luxury made in Italy, ma da qualche anno completamente dormiente per ciò che riguardava l’impatto creativo e sociale nel sistema; non era più considerato una “voce” autorevole, proprio perché incapace di essere appealing e convincente, sia per i numeri che per la visione d’insieme. Poi l’arrivo del designer “illuminato”: sorprendentemente colto e sovversivo al tempo stesso, con il suo mondo fatto di riferimenti all’arte rinascimentale, scavi romani, le poesie dell’Ottocento vittoriano, porcellane e piccoli tesori da collezionare, il cinema hollywoodiano e i suoi miti, massimalismo barocco e concetti filosofici, ma anche la riscossa di tutta un mondo di freak e beautiful monsters, strane creature destinate all’emarginazione che con il suo avvento non solo sono diventate protagoniste assolute, ma anche nuovi modelli da seguire e a cui ispirarsi. Sette anni di successi economici, che portano Gucci a triplicare le vendite e a diventare la nuova ossessione di trapper e celebrità, della Gen Z ma anche delle fashion victim più adulte che non avevano paura di osare; quando Alessandro Michele viene messo alla porta il mondo della moda comincia a tremare davvero perché se anche un Re Mida come lui poteva essere dimesso da un momento all’altro, figuriamoci cosa sarebbe potuto succedere ad altri nomi meno rilevanti.
Effettivamente negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria corsa alla disperata ricerca di cambiare di volta in volta le carte in tavola e tentare un nuovo, ennesimo, processo di ripristino dei codici creativi dei grandi marchi, per lo più mirati a una conseguente crescita dei numeri. Uno stato di perenne insoddisfazione che sembra non trovare mai fine, che ha portato a tagli del personale e a uno stato di confusione generale che più che favorire le vendite ha probabilmente contribuito ad allontanare anche i clienti più affezionati. Gli ultimi dieci anni della storia della moda, ovvero gli anni della digitalizzazione del sistema, tra feed Instagram, influencer e content creator, ci hanno ampiamente dimostrato quanto gli acquirenti abbiano cominciato a comprare un determinato brand più per un senso di appartenenza a una determinata community, rappresentata dal brand stesso e dalla sua comunicazione, che per il prodotto in sé. Michele è stato un esempio fondamentale di questo nuovo corso, ma anche designer come Simon Porte Jacquemus, direttore creativo dell’omonimo brand da lui fondato, o il Balenciaga di Demna Gvasalia: tre esempi di brand community estremamente efficaci che hanno trovato la loro forza non solo nelle collezioni ma anche e soprattutto nelle loro strategie di comunicazione, soprattutto attraverso i social network. È abbastanza chiaro dunque che, nel momento in cui i brand cambiano le proprie visioni e le proprie direzioni creative alla velocità della luce, questo non dà il tempo al compratore di riuscire a entrare sufficientemente “nel” marchio, percepire quella vibrazione necessaria a comprenderlo, farlo proprio, e volerne farne parte.
Gli ultimi dieci anni della storia della moda, ovvero gli anni della digitalizzazione del sistema, tra feed Instagram, influencer e content creator, ci hanno ampiamente dimostrato quanto gli acquirenti abbiano cominciato a comprare un determinato brand più per un senso di appartenenza a una determinata community, rappresentata dal brand stesso e dalla sua comunicazione, che per il prodotto in sé.
In molti, dai piani alti, hanno spinto per il ritorno a una moda più concreta e meno concettuale. Se è vero che le vendite sono necessarie per far girare il sistema e che la gente ha bisogno di comprare cose che possa indossare realmente, d’altra parte ora più che mai la creatività ha bisogno di esprimersi al massimo del suo potenziale, ed è probabilmente l’ingrediente indispensabile per risollevare le sorti anche finanziarie di un periodo nero come quello che stiamo vivendo. I cambiamenti sono spesso portatori di fermenti positivi in un settore come quello della moda, ma quando il cambiamento diventa semplicemente la strada più veloce per tentare un progresso economico, e non quindi una sentita reazione a un sentimento di rinascita vera e propria, le sue conseguenze possono diventare nefaste. Dopo Alessandro Michele è stata la volta di Sabato De Sarno, attualmente direttore creativo di Gucci; da subito si è parlato di un percorso diametralmente opposto a quello del suo predecessore, di un designer che si avvicina più alla figura dello stilista inteso come artigiano, che a quella del creativo pervaso da visioni romantiche e speculazioni metafisiche. De Sarno, da anni braccio destro di Pierpaolo Piccioli da Valentino, effettivamente è portatore di un grande know how, inteso come il saper disegnare e produrre un buon cappotto, eppure tutti parlano di crisi della maison italiana, molto probabilmente semplicemente rientrata nei fatturati standard dopo il boom dell’era di Michele, che ora è diventato nuovo direttore creativo di Valentino. Una scelta inaspettata, che vedrà il designer rientrare nel gruppo Kering, ma che ha sancito al tempo stesso anche la fine di quello che sembrava un altro sodalizio fortunato, quello tra Valentino e Pierpaolo Piccioli.
È chiaro che, nel momento in cui i brand cambiano le proprie visioni e le proprie direzioni creative alla velocità della luce, questo non dà il tempo al compratore di riuscire a entrare sufficientemente “nel” marchio, percepire quella vibrazione necessaria a comprenderlo, farlo proprio, e volerne farne parte.
La notizia è stata lanciata lo scorso aprile come un fulmine a ciel sereno, e per quanto Piccioli abbia comunicato un addio di comune accordo, la notizia ha rappresentato l’ulteriore conferma del “regime del terrore” che la moda sta vivendo e nel quale tutti prima o poi sembrano destinati a passare sotto la ghigliottina. Ma proviamo a ricapitolare gli altri principali sconvolgimenti: nel 2023 abbiamo assistito all’addio di Jeremy Scott da Moschino, dopo ben dieci anni di Barbie con i roller ai piedi, McDonald’s e pop culture a più non posso, sostituito da Adrian Appiolaza, che già dalla prima sfilata ha avuto il merito di ripescare molti dei codici estetici storici del brand italiano fondato da Franco Moschino negli anni Ottanta; Blumarine, brand “coquette-core” degli anni Novanta italiani, dopo un indefinito lasso di tempo in sordina, ha ritrovato un periodo di hype grazie alla direzione creativa di Nicola Brognano, che in combo con lo styling curato da Lotta Volkova ha ridefinito il brand in piena chiave Y2K, grande tendenza degli ultimi due anni. Brognano però ha detto addio al brand poco dopo la fashion week di settembre 2023, sostituito da Walter Chiapponi. Precedentemente direttore creativo di Tod’s, Chiapponi ha esordito alla direzione del brand delle rose fondato da Anna Molinari questo febbraio alla Milano Fashion Week, per poi dimettersi dopo nemmeno un mese, pronto a dedicarsi ad altri progetti personali che, attenzione, non riguardano la moda, di cui si è detto stanco. Dopo mesi, è stato annunciato che a capitanare il marchio sarà David Koma, e non ci resta che capire se sarà una svolta definitiva e duratura.
Poi direzioni creative lampo, come quella di Ludovic De Saint Sernin per Ann Demeulemeester, durata appena sei mesi e terminata alla luce di incongruenze con i vertici aziendali di Antonioli, che ha acquisito il brand di Anversa.
Ma la lista degli addii non finisce qui: Rhuigi Villasenor via da Bally, Serhat Işık e Benjamin A. Huseby via da Trussardi, Charles de Vilmorin da Rochas e Bruno Sialelli via da Lanvin. Virginie Viard, dopo trent’anni all’interno di Chanel, prima come braccio destro di Karl Lagerfeld e poi come direttrice creativa, ha detto bye bye alla maison parigina, lasciando il posto ad un’unica, fondamentale domanda: who’s next? Da Hedi Slimane a Jeremy Scott, passando anche per Jacquemus, il totonomi sul prossimo creativo al timone della maison è ormai pane quotidiano per gli addetti ai lavori, ma al momento tutto tace dal quartier generale di Place Vendôme.
I cambiamenti sono spesso portatori di fermenti positivi in un settore come quello della moda, ma quando il cambiamento diventa semplicemente la strada più veloce per tentare un progresso economico, e non una sentita reazione a un sentimento di rinascita vera e propria, le sue conseguenze possono diventare nefaste.
Stessa curiosità per il destino di un altro iconico genio, John Galliano. Sono mesi che si rincorrono voci sul suo possibile addio a Maison Margiela, e se qualcuno ha auspicato un ben poco probabile ritorno ai fasti di Dior, si fa sempre più concreta l’ipotesi di una direzione creativa presso uno storico marchio italiano, Fendi. La notizia sarebbe stata alimentata dall’azzeramento, avvenuto in simultanea, sia del profilo Instagram di Galliano che di quello di Kim Jones, al timone di Fendi dal 2020. Il gossip, inutile a dirsi, ha fatto il giro del web in brevissimo tempo, ma il quesito rimane irrisolto.
E se l’inizio dell’estate è stato un tourbillon di addii, promesse, e forse qualche romantico arrivederci, la “september issue” di questo 2024 sembra essere partita col botto. Diamo il benvenuto a Haider Ackermann, arruolato alla direzione creativa di Tom Ford; una nomina ben accolta da tutti e soprattutto, nel marasma generale, ben calibrata sul talento del designer e sull’affinità con il marchio fondato dallo stilista e regista texano. Insomma, una scelta che non strizza solamente l’occhiolino al marketing e ai follower su Instagram, ma che sembra destinata a regalare un futuro al marchio.
Ma per uno che arriva, c’è sempre uno che se ne va, ed è il caso di Glenn Martens, che dopo undici anni ha detto addio alla label parigina Y/Project. Martens è già direttore creativo di Diesel, a cui ha regalato una credibilità creativa e un’identità visiva mai viste prima, tant’è che in molti lo vedono già come il candidato perfetto dietro la scrivania di Maison Margiela. Dopotutto, sia Diesel che Margiela sono di proprietà di OTB Group, e non ci è dato sapere se Renzo Rosso voglia unire due dei suoi marchi più importanti sotto la mente dello stesso direttore creativo.
I vertici spesso dimenticano la differenza sostanziale tra essere un designer e un direttore creativo. Si tratta di saper intercettare movimenti sociali, di rompere determinati stigmi o, magari, di saper accogliere un’importante eredità e renderla propria, interpretando i bisogni della contemporaneità.
Sarah Burton ha lasciato Alexander McQueen lo scorso settembre 2023, dopo tredici anni, e un anno dopo è stata annunciata la sua nuova direzione creativa presso Givenchy. A sua volta, Burton è stata sostituita da McQueen dal già chiacchieratissimo Sean McGirr, che con la prima collezione del marzo scorso pare non sia riuscito del tutto a conquistare il cuore del pubblico. La Burton, insieme a Maria Grazia Chiuri, rappresenta una delle poche donne a capo di un brand: a detta di molti il sistema moda sarebbe intrinsecamente maschilista, ed è per questo che la nomina di Chemena Kamali a nuovo direttore creativo di Chloè è stata accolta con entusiasmo. Non solo ha riportato in auge lo stile boho-chic, ma rappresenta anche un chiaro messaggio di rivendicazione femminile, in un mondo che, soprattutto ai vertici, resta ancora decisamente declinato al maschile. Una speranza incarnata anche dall’italiana Veronica Leoni; con un CV che vanta un’esperienza decennale tra gli uffici stile di Jil Sander, Céline e Moncler, un brand personale, Quira, fondato nel 2021, e un posto in finale agli LVMH Prize del 2023, sarà lei la nuova direttrice creativa di Calvin Klein Collection, e lei che lo guiderà nel suo definitivo ritorno in passerella.
La storia recente ci ha insegnato che non basta essere giovani o popolari sui social per garantire il successo di un marchio, e che non è detto che un senior parli per forza un linguaggio obsoleto.
Le ragioni di questo ciclo di cambiamenti così repentini, e talvolta precoci, sono diverse: dalle pressioni interne, che richiedono che i risultati delle vendite siano sempre in crescita, alla mancanza di preparazione per gestire squadre e sistemi molto più grandi di quelli affrontati con le loro linee da parte dei designer.Inoltre, nell’infinita corsa al successo perpetuo, i vertici spesso dimenticano la differenza sostanziale tra essere un designer e un direttore creativo. Se il primo ruolo riguarda principalmente l’abilità tecnica, diventare un direttore creativo richiede esperienza, accompagnata da un’attitudine particolare, spirito di iniziativa e la capacità di andare oltre la semplice creazione di un capo ben fatto. Si tratta di saper intercettare movimenti sociali, di rompere determinati stigmi o, magari, di saper accogliere un’importante eredità e renderla propria, interpretando i bisogni della contemporaneità. Se qualcuno parla ancora di un problema anagrafico, all’urlo di “largo ai giovani”, forse sarebbe il caso di procedere con un’analisi meno superficiale e populista: se è vero che i giovani designer hanno bisogno di sostegno economico e di potersi esprimere, è altrettanto vero che anche l’esperienza ha il suo valore. La storia recente ci ha insegnato che non basta essere giovani o popolari sui social per garantire il successo di un marchio, e che non è detto che un senior parli per forza un linguaggio obsoleto – Miuccia Prada ne è l’esempio lampante. Così come Jonathan Anderson, che nonostante sia del 1984 ha dimostrato che il suo titolo di King of Fashion non dipende tanto dal seguire tendenze in voga sui social, ma dall’essere stato in grado di portare la tradizione artigianale all’interno di un sistema che si confronta con le sfide della sostenibilità e del digitale: un traguardo comprensibile da tutti, perché davanti alla bravura non c’è gap generazionale che tenga.