Due grandi scrittori, due vite complicate, e l’influenza delle sostanze sulle loro opere.
Amante delle armi da fuoco e della prostituzione minorile, William Burroughs ha ucciso la moglie Joan Vollmer e successivamente sperimentato, riuscendoci a pieno, altri modi per distruggere l’esistenza del figlio Billy. Errante in viaggi in cui fare la vera esperienza del colonizzatore con sesso e droghe a buon mercato, figlio della classe agiata, misogino, manipolatore, violento… Eppure, nonostante questo breve ma esaustivo elenco, non ci poniamo alcun problema nel definirlo un grande autore.
Con cinque matrimoni e relativi divorzi turbolenti (ma sarebbero stati molti di più se tutte le donne con cui si è relazionato e alle quali ha fatto la proposta avessero detto sì), Philip K. Dick non è stato di certo né marito né padre modello: le continue crisi matrimoniali legate alla sua perenne lotta con le dipendenze e ai suoi sbalzi di umore, la malsana ricerca costante di una donna il più possibile somigliante all’aspetto che secondo lui avrebbe dovuto avere sua sorella gemella morta poco più che neonata e verso la quale provava un costante senso di colpa, irascibile con tutte loro, violento, maschilista. Ma, anche in questo caso, la sua grandiosità è indiscutibile.
Approcciamo per un attimo la più classica e scontata delle domande: è davvero necessario separare l’autore, l’uomo, dalle sue opere? O meglio, dal momento che conoscerne e capirne la biografia è essenziale per leggere al di sotto della superficie dei testi: senza esercitare una sospensione del giudizio morale sulla vita di determinati autori sarebbe comunque possibile apprezzarne le opere? Alcuni di loro ci mettono costantemente a dura prova in questo, lungo tutto il loro percorso biografico. Burroughs e Dick appartengono a questa fazione, ma se vogliamo applicare la sopra citata sospensione del giudizio che ci permetterà di proseguire in questo discorso vedremo che hanno ben altro in comune, per esempio fantascienza e droghe. Due modi di costruire possibili mondi simili ma divergenti, amanti e assidui frequentatori, o a voler essere precisi totalmente dipendenti, di due sostanze agli antipodi che ne hanno determinato dal macro al micro le tematiche, la cifra stilistica e la lingua: Burroughs dipendente dagli oppiacei per gran parte della sua carriera, Dick dalle amfetamine.
Amanti e assidui frequentatori, o a voler essere precisi totalmente dipendenti, di due sostanze agli antipodi, che ne hanno determinato dal macro al micro le tematiche, la cifra stilistica e la lingua.
Spostiamo ora il focus della domanda sulle droghe per evitare un’obiezione: se volessimo attribuire la loro creatività all’uso di sostanze, perché mai fuori dai Sert e attorno alle stazioni non troviamo orde di scrittori geniali, invece dei poveri cristi disperati che vi gravitano?
Se statisticamente possiamo affermare che il lettore medio abbia basi solide per comprendere la critica letteraria, non possiamo stabilire con la stessa certezza che ne abbia di carattere storico scientifico sulle sostanze stupefacenti; allo stesso modo non possiamo affermare che tutti gli esimi “drogologi” o i più modesti consumatori di sostanze siano esperti di letteratura contemporanea, questo gap rende doveroso un piccolo cappello introduttivo. Sulla storia di questi due autori direte voi? No.
Gli oppiacei: dimentichiamo le nebbiose stanze in cui fumatori d’oppio cinesi inseguono il drago sdraiati su un fianco sopra letti di seta ricamata. I dati archeologici sull’oppio ci dicono che la sua origine, il suo addomesticamento da parte dell’uomo per usi alimentari e medicinali, sia avvenuto in Europa nel Neolitico. Sono diversi i Paesi che se ne contendono il primato, tra cui il nostro, con un ritrovamento datato tra i più antichi. C’è stato un passaggio in cui una pianta selvatica di papavero reperibile in natura è stata selezionata dall’uomo fino a ottenere il Papaver somniferum, la più probabile è stata identificata con il Papaver setigerum. Da lì in poi ha accompagnato l’umanità nel suo cammino fino a oggi: come alimento, come medicinale, come pianta psicotropa; ha segnato la storia contribuendo a fare vincere o perdere battaglie, ha dato origine a guerre per il suo monopolio e per il suo commercio, ha creato mitemi sui quali si poggiano molti dei miti giunti fino a noi (che il melograno offerto da Ade a Persefone non sia stato confuso con una capsula di Papaver somniferum? O per essere più precisi, visto che il mito appartiene alla storia prima della storia, con una testa di Papaver setigerum?)
I suoi effetti sono dovuti a una serie di alcaloidi in esso contenuti (morfina, codeina, tebaina, papaverina solo per citarne alcuni). La maggior responsabile della sua azione sul sistema nervoso centrale è la morfina (o perlomeno quella dagli effetti più marcati); sono considerate oppiacei tutte le sostanze derivate dall’oppio, mentre sono oppioidi quelle sostanze con stesso meccanismo di azione della morfina, effetto analgesico e psicotropo, ma ottenute per sintesi e non derivanti dalla lavorazione dell’oppio. Tutte queste molecole, come può farci supporre il loro apprezzato potere analgesico, anche quando vengono utilizzate per scopi ricreativi hanno un effetto marcatamente fisico, agendo similmente alle endorfine endogene, donano estremo piacere corporeo nonché benessere diffuso, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’orrore del dolore che provocano quando si ha una crisi d’astinenza. Sul piano mentale sono sedative ma al tempo stesso euforizzanti, appaganti, aumentano la capacità di evocazione di immagini mentali non in senso prettamente allucinatorio ma più onirico/visionario (come ci insegna De Quincey).
Questo piccolo excursus non vuole essere un’apologia dell’oppio, del resto se è un prodotto che ha riscosso successo dal Neolitico a oggi significa che la sua naturale strategia di marketing è più che corretta, ma è funzionale all’analisi stilistica dell’opera di William Burroughs (allo stesso modo affronteremo un analogo discorso per le amfetamine parlando dell’opera di Philip Dick). Per ora teniamo bene a mente la forte fisicità dell’azione degli oppiacei, sia negli effetti ricercati che in quelli collaterali.
Sul piano mentale gli oppiacei sono sedativi ma al tempo stesso euforizzanti, appaganti, aumentano la capacità di evocazione di immagini mentali non in senso prettamente allucinatorio ma più onirico/visionario.
Nel 1953 Burroughs pubblica il suo primo romanzo Junkie: confessions of an unredeemed drug addict. È un viaggio nel mondo della dipendenza e della criminalità che vi gravita attorno, un resoconto crudo dall’interno scritto in modo asciutto e diretto con un linguaggio da cronista, molto freddo e meticoloso, in gran parte autobiografico partendo dal casuale ingresso nella dipendenza e proseguendo in un pellegrinaggio continuo alla ricerca della dose successiva, tra crisi di astinenza e le codificate interazioni tra tossicodipendenti fino ad allora sconosciute a chiunque non ne fosse a sua volta coinvolto.
In quegli stessi anni Burroughs era completamente immerso nella sua dipendenza dagli oppiacei, iniziata quando per avvicinare quel sottobosco di reietti criminali da cui era tanto attratto, o meglio, quando li scelse come categoria umana e scelse di farne parte perché era un borghese che odiava la borghesia, si adoperò per l’acquisto di una cassa di syrettes (tubetti preconfezionati di morfina simili a quelli del dentifricio con un ago ipodermico al posto del tappo) da utilizzare come merce di scambio e passepartout per accedere a un mondo che diversamente gli sarebbe stato precluso, ma la sua curiosità antropologica lo spinse a provarne una e in poco tempo quella cassa si volatilizzò vedendolo passare dalla privilegiata posizione di venditore a quella disperata di acquirente.
Questo suo primo romanzo ha il pregio di fare accedere i lettori a un mondo fino ad allora inaccessibile, ma è solo in grado di raccontarlo. Come abbiamo già detto è una cronaca, solo più tardi metterà a fuoco le tematiche che più lo interessano assieme alla tecnica e il linguaggio perfetto attraverso il quale raccontarle, facendovi sprofondare il lettore: alienazione, paranoia, repressione, lotta contro il controllo sociale, sessualità fuori dalle convenzioni – tutti temi fortemente fisici, corporei, come le gioie e i dolori dell’eroina. Le descrizioni dettagliate delle sensazioni legate all’uso di oppiacei, sia quelle positive ma ancor più quelle negative, rappresentano una forma di sperimentazione del limite entro il quale ci si può muovere all’interno dei sistemi di controllo, fino a che punto spingere il proprio corpo per evaderne. Non una romantica evasione dalla realtà come possiamo intendere il sogno (la biologica alternanza sonno/veglia) ma una presa di coscienza e una lucida decisione (lucida e valida solamente fino a quel punto, fino alla presa di decisione, fino alla prima volta, che però in seguito sfuggirà completamente di mano come ogni dipendenza) di non appartenere più alla realtà, di ribellarsi a essa pagando per questo il prezzo altissimo della sottomissione alla sostanza. Il corpo, e non più solo la mente, come mezzo per sperimentare nuove forme di realtà e nuove forme di libertà.
Alienazione, paranoia, repressione, lotta contro il controllo sociale, sessualità fuori dalle convenzioni – tutti temi fortemente fisici, corporei, come le gioie e i dolori dell’eroina.
In quegli stessi anni, Borroughs sviluppò con Brion Gysin la tecnica del cut-up, che consisteva nel tagliare e riassemblare testi per creare nuove narrazioni. È quanto di più simile alla realtà dell’eroinomane: frammentazione e disordine, spazio e tempo fuori dalla loro linearità, un collage di istantanee, pensieri, situazioni, azioni, evocazione di immagini oniriche di qualcuno che ha appreso e fatta sua la lezione di De Quincey.
Nel 1959 tutte queste tematiche verranno trattate in The naked lunch, testo che lo stesso Burroughs definì un rapporto da un campo di battaglia, il campo di battaglia della sua dipendenza, ma non solo, anche campo di battaglia tra forze interne ed esterne a esso, forze di controllo esterne come la polizia, i governi, le corporazioni, tutte contrapposte alla resistenza individuale. Protagonista del romanzo è il tossicodipendente William Lee, alter ego dell’autore, perennemente in fuga dalla legge (non solo dalle polizie ma anche da fantomatiche corporazioni dedite al controllo della mente tramite sostanze e pratiche di manipolazione psicologica segrete). La storia si snoda lungo tutti i luoghi della biografia dell’autore e anche in una immaginaria città chiamata Interzona. Sono immagini, momenti, accadimenti, singoli aneddoti che si susseguono in un caleidoscopio di scene montate tramite la tecnica del cut-up. I temi principali sono tre: il già sopracitato controllo, le droghe e la sessualità, tutte dalle caratteristiche fortemente fisiche. La tecnica stessa, il cut-up, può essere vista come uno smontare e rimontare un corpo, tagliare e cucire, dare vita a un corpo nuovo (e qui si veda il mito di Prometeo che in alcune tradizioni donò il fuoco agli uomini – inteso come lume della ragione, quindi perché no la scrittura stessa – e in altre plasmò il corpo dell’uomo, fino alla sua trasposizione moderna della Shelley). Frammentare e ricombinare il testo-corpo, un corpo malleabile, modificabile, possibile di manipolazione fino alla sua trasformazione, processo attuabile tramite la scrittura, l’uso di sostanze, la violenza, il sesso. E sarà attraverso il tema della sessualità (ed ecco di nuovo il corpo) che mostrerà altri modi di essere, di sperimentare, di rompere con le norme sociali esplicitando pratiche e desideri per esplorare identità fluide al fine di contestare l’eteronormatività dell’epoca (in due testi in particolare, Cities of the red night e The wild boys, Burroughs immagina utopiche società in cui la sessualità è non solo liberata, ma celebrata in tutte le sue forme e varianti, da quelle possibili a quelle impossibili).
Ma il corpo è anche il campo di battaglia in cui si ottengono quei labili armistizi che ci permettono di sopravvivere alle malattie, quelle battaglie interne con virus e batteri, reali, immaginati, alieni, quasi sempre dai risvolti terribili utili a rappresentare la vulnerabilità umana; un corpo spesso rappresentato degradato e deturpato, da un lato come lotta contro i concetti di bellezza e forma fisica imperanti nell’America del dopo bomba, dall’altro per creare momenti di riflessione su alcune sue fissazioni come il decadimento fisico e morale (decadimenti entrambi scolpiti nell’immaginario collettivo quando parliamo di droghe e omosessuallità).
Burroughs definì The naked lunch un rapporto da un campo di battaglia, il campo di battaglia della sua dipendenza, ma non solo. Anche campo di battaglia tra forze interne ed esterne a esso, forze di controllo come la polizia, i governi, le corporazioni, tutte contrapposte alla resistenza individuale.
Durante la sua carriera, fissando la stesura del suo primo romanzo come punto di partenza (tralasciando un precedente libro scritto a quattro mani con Jack Kerouac) e la sua morte come punto di approdo finale, ovvero durante 44 anni, William Burroughs ha scritto sedici romanzi. Usando le stesse coordinate, Philip Dick in 34 anni ne ha scritti quarantaquattro. Quarantaquattro romanzi contro sedici, oppiacei contro amfetamine, autocompiacimento borghese contro produttività operaia, edonismo coloniale contro interventismo bellico.
Le amfetamine: se per gli oppiacei, contrariamente al pensiero comune, non è in Cina che va ricercata l’origine, qua invece siamo nel posto giusto. Qualche millennio dopo l’addomesticamento in europa del Papaver setigerum in Cina conoscevano e utilizzavano diverse specie appartenenti al genere Ephedra (in particolare Ephedra sinica) per le loro proprietà mediche. Sono piante caratterizzate da un potente effetto stimolante, questo perché contengono diversi alcaloidi efedrinici, alcaloidi molto simili alla moderna amfetamina (che verrà scoperta e sintetizzata solo quattromila anni dopo).
La testimonianza archeologica più antica è stata rinvenuta in delle tombe della Cina occidentale, per l’esattezza nel bacino del Tarim. Qui sono state trovate delle mummie in buono stato di conservazione sulle quali erano stati posati rametti di Efedra, rametti che erano stati anche intrecciati tra i tessuti con cui erano vestite, tra i capelli e in alcuni casi ritrovati persino a fasci all’interno delle mummie stesse. Oltre agli effetti psicotropi ha anche effetti medicinali molto importanti: l’efedrina è un ottimo broncodilatatore e decongestionante, utile nella cura dell’asma. È quasi impossibile però escludere che tali antiche popolazioni non fossero a conoscenza dei suoi effetti medicinali e psicotropi.
Con la moderna chimica farmaceutica dei primi anni del XX secolo e la costante ricerca di molecole dal facile profitto ci si rese ben presto conto che l’efedrina non era così redditizia, visto l’enorme quantitativo di materiale botanico richiesto a fronte di un’esigua estrazione di principio attivo; per questa ragione nel 1924 Gordon Alles portò avanti delle ricerche per ottenerla non per estrazione ma per sintesi ,e in uno dei tanti tentativi di sintetizzare l’efedrina scoprì casualmente l’amfetamina (in realtà la stessa molecola fu sintetizzata a fine Ottocento da un chimico rumeno, Lazar Edeleanu, che non ne depositò il brevetto ritenendola scarsamente importante). Alles la provò su se stesso, come follemente usava all’epoca, e si rese subito conto che il potenziale andava ben oltre l’asma.
L’effetto stimolante sul sistema nervoso centrale è dato inducendo il rilascio di diversi neurotrasmettitori tra cui, i più importanti, dopamina e noradrenalina. Gli effetti “positivi” notati da Alles, per intenderci quelli ancora oggi ricercati dai consumatori, non avevano alcun potenziale medico: anoressizzante, stimolante, aumento della velocità di pensiero, aumento della forza fisica, aumento del battito cardiaco e della pressione arteriosa, insonnia…
Serviva una diagnosi per commercializzare il farmaco e fu individuata nella narcolessia, ma commercialmente si rivelò essere un fallimento visto l’esiguo numero di narcolettici accertati e la bassa incidenza della malattia, senza considerare poi che il suo potere broncodilatatore (seppur di molto inferiore a quello dell’efedrina) era già commercialmente coperto da un altro prodotto, la benzedrina, altra molecola stimolante molto in voga in quegli anni e venduta sotto forma di inalatori per l’asma (la prolifica scrittura di Kerouac era dovuta molto più alla benzedrina di cui era un grandissimo consumatore che alle smodate quantità di alcol che ingurgitava).
Come vendere la capacità di donare benessere diffuso di una molecola? E a chi? Il consumatore ideale fu individuato nelle persone affette da depressione e altri non ben specificati disturbi psichiatrici, ma ben presto ci si rese conto che l’amfetamina non ne migliorava la situazione clinica ma anzi la peggiorava con quadri ben più severi, slatentizzando molto spesso psicosi che altrimenti non si sarebbero manifestate. E allora si trovò una nuova indicazione terapeutica, un nuovo concetto, nuovi soggetti: le persone sane. Questa miracolosa molecola avrebbe aiutato nella vita di tutti i giorni, sul lavoro, in casa, avrebbe combattuto la stanchezza, dato nuovo vigore, eliminato ogni forma di tristezza (non di depressione visto che si trattava di un quadro clinico vero e per il quale in precedenza non aveva dato i frutti sperati). Il prodotto conobbe un rapido successo, era la molecola perfetta per la nuova società capitalista. Ma poi avvenne qualcosa di inaspettato, un enorme “colpo di fortuna” che ne fece esplodere la produzione e il consumo: la seconda guerra mondiale. Le amfetamine si rivelarono utili per tenere alto il morale delle truppe e soprattutto per tenerle sveglie per giorni e giorni e furono anche (in parte, sia mai che diventino una giustificazione) motore per alcune delle peggiori atrocità compiute. Nel frattempo i tedeschi avevano “migliorato” il prodotto mettendo in produzione il Pervitin, un farmaco con la metanfetamina come principio attivo. Alcuni storici contemporanei vedono nel suo utilizzo il segreto della velocità, l’inarrestabilità e la violenza dell’esercito del Reich durante la guerra lampo che lo vide protagonista di una inarrestabile irruzione in tutta Europa. Nel frattempo le stesse molecole fecero ritorno verso Oriente diventando il cibo prediletto dei kamikaze giapponesi. A guerra terminata la sovrapproduzione di amfetamine andava in qualche modo smaltita e in questo clima di totale tolleranza vennero prescritte con ancora più facilità ampliando la platea: tonico, energizzante, valido aiuto per lavorare di più e meglio e adesso, in aggiunta, anche dimagrante, aprendo così di fatto il mercato alle donne. Fu molto probabilmente in questo clima ancora permissivo che Philip Dick entrò in contatto giovanissimo con le amfetamine, quando gli vennero prescritte per i suoi problemi legati ad ansia e depressione.
Alcuni storici contemporanei vedono nell’utilizzo delle amfetamine il segreto della velocità, l’inarrestabilità e la violenza dell’esercito del Reich durante la guerra lampo che lo vide protagonista di una inarrestabile irruzione in tutta Europa.
Fuori dalla legalità dei farmaci prescritti le molecole spariscono e si nascondono dietro nomi comuni: è così che in strada la diacetilmorfina si trasforma in roba, qualcosa di generico, qualcosa di non definibile e per sua natura sfuggente; ed è in questo stesso spazio grigio dell’illegalità che l’amfetamina diventa speed, dall’inglese velocità. La stessa velocità dello stile narrativo di Philip Dick, velocità che troviamo nella sua prosa con quel spesso malcelato senso di urgenza e quelle trame sempre più intrecciate e complesse dal ritmo narrativo frenetico. La velocità dell’amfetamina si riflette anche sui suoi tempi di produzione: l’immensa quantità di pagine scritte tra romanzi, racconti e articoli è stata possibile grazie alle prestazioni aumentate dallo speed, sia per la velocità di esecuzione sia per il tempo dedicato all’atto dello scrivere avuto a disposizione sottraendolo a quello che qualunque altro essere umano avrebbe dedicato al sonno.
La sostanza ha influenzato anche molti dei temi da lui trattati, come la sorveglianza, la paranoia e la manipolazione mentale, la costante messa in dubbio della realtà; essendo stato un fortissimo consumatore alternava prescrizioni mediche al ricorrere al mercato nero delle sostanze. Molto spesso la sua biografia ricalca le vicende dei suoi romanzi, e per questo paranoia, senso di persecuzione e costante sfiducia nelle forze dell’ordine sono state a lungo il suo pane quotidiano – tanto nei suoi scritti quanto nell’esistenza fuori dalle pagine. Questa iperproduttività ha avuto i suoi costi: l’abuso di amfetamine ha distrutto la vita di Dick con non pochi danni sia sul piano relazionale che su quello psicofisico, e fu probabilmente alla base della sua prematura scomparsa. Non come agente diretto, visto che si era disintossicato ormai da anni quando avvenne, ma come conto che si presentò, come spesso accade, con un certo ritardo quando ormai il danno è fatto.
I personaggi dei suoi romanzi molto spesso conducono estenuanti lotte per distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra finzione e simulazione, sia sul piano del reale che su quello metafisico, dimensione alquanto tipica nel quadro di abuso da certe sostanze, riuscendo a coinvolgere persino il lettore più salutista in questa riflessione, destabilizzandone ogni certezza. Lo vediamo in quel capolavoro che è The three stigmata of Palmer Eldritch o più chiaramente in Do androids dream of electric sheep?.
In testi come Ubik e A scanner darklyil dubbio sulla realtà assume toni differenti: qui a essere messe in discussione sono la fragilità con cui costruiamo la realtà e come questa possa venire minata dalla paura della perdita di identità, altro stato indotto dall’abuso di amfetamine. La dissociazione come forza generatrice di nuovi spazi, nuove linee temporali, squarci sul velo del reale capaci di mostrarci, senza troppe spiegazioni, che c’è altro. Se in Ubik abbiamo un chiaro riferimento al Bardo Thodol di tradizione tibetana e a tutto ciò che un autore come Dick può averne dedotto e ricavato, in A scanner darklyla paranoia, la paura per la perdita del sé e il suo definitivo realizzarsi, i sistemi di controllo, la sfiducia nelle autorità, i meccanismi che regolano la dipendenza, insomma, uno dei manuali più completi di etica ed estetica del tossicomane, sono non solo influenzati ma completamente guidati da quella che fu l’esperienza dell’autore con l’amfetamina. Dick/ il protagonista dirà:«Io stesso non sono un personaggio di questo romanzo. Io sono il romanzo».
Se volessimo porci un’ultima domanda potrebbe essere questa, che ne riprende un’altra già posta inizialmente a questo discorso ma lasciata in sospeso: le opere di William Burroughs e di Philip Dick esisterebbero comunque senza il loro vissuto di dipendenze? Molto probabilmente sì, ma sicuramente non sarebbero le stesse che conosciamo.