Dal conflitto interiore alla letteratura, l’opera di Knausgård dissotterra la vita privata trasformandola in un trattato universale sulla condizione umana e sul potere della narrazione.
Dieci anni fa l’editore Feltrinelli cominciava a ripubblicare, con la nuova traduzione di Margherita Podestà Heir, i sei libri dello scrittore norvegese Karl Ove Knausgård. Il titolo originale dell’esalogia è Min Kamp che, in norvegese, vuol dire “la mia lotta”, e il richiamo al Mein Kampf non è casuale: la spiegazione viene rivelata nel sesto libro intitolato Fine. In più di 4.115 pagine complessive l’autore racconta in prima persona la sua vita, senza risparmiare dettagli, rinunciando a qualsiasi forma di privacy. Questo non farà che creare frizioni con alcuni suoi famigliari che diventano, a loro insaputa e involontariamente, i protagonisti dei suoi romanzi. La battaglia legale, evocata anche nel titolo, che ne segue è solo una tra le tante che KOK dovrà affrontare oltre a quella con sé stesso per continuare a scrivere e riuscire a essere riconosciuto come scrittore. I titoli dei primi cinque libri, La Morte del Padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio e La pioggia deve cadere, suggeriscono le vicende e le trame in cui è facile immedesimarsi: infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, paternità, innamoramenti e lutti famigliari. In tutti i libri l’autore rimugina sui personaggi con cui interagisce, li psicologizza, e divaga con riflessioni, anche inattuali, che originano per lo più dalla routine quotidiana, all’apparenza insignificante. Ogni sua considerazione, nascendo dalla quotidianità sua e di nessun altro, è molto originale e ogni romanzo è molto di più della somma dei resoconti, anche dettagliati, dell’esistenza di un norvegese nato a Oslo nel 1968 che vuole fare lo scrittore. Il trofeo di guerra, a voler usare una metafora bellica, per l’autore sarà un lungo romanzo con cui è stato paragonato a Marcel Proust e alla sua Recherche. Per il lettore c’è molto di più di una saga in soggettiva in sei libri che molti critici hanno classificato come autofiction. A difesa del genere si può affermare che, in un ventennio in cui il confine tra reale e virtuale è diventato sempre più labile se non invisibile, una storia come quella di KOK, che si propone come vera, è perfetta per soddisfare la fame di autenticità di cui spesso si sente la mancanza. I dettagli diventano un marcatore di realismo e fanno di KOK lo scrittore vivente, parodiato anche due volte nella serie Succession, di cui possiamo conoscere quasi tutto: dai gruppi musicali ascoltati (più di 103 sono le band e i gruppi censiti dal giornalista Giannetta) ai libri letti e commentati (tanti), dai viaggi fatti alle passioni e alle ossessioni, dalle paure inconfessabili ai tradimenti sentimentali. Niente viene tenuto nascosto e tutto diventa materia letteraria. Emblematico, anche se non tra i più intimi, è il racconto della masturbazione con un libro di arte dopo la bocciatura da parte del futuro premio Nobel per la letteratura Jon Fosse di una poesia all’interno della scuola di scrittura.
In più di 4.115 pagine complessive l’autore racconta in prima persona la sua vita, senza risparmiare dettagli, rinunciando a qualsiasi forma di privacy.
Nel quinto romanzo, La pioggia deve cadere, KOK racconta un’esperienza di autoerotismo vissuta durante il periodo del corso di scrittura a Bergen. Jon Fosse aveva chiesto alla classe di comporre una poesia ispirandosi a un dipinto del pittore Nikolai Astrup e KOK ne compone una che poi viene fatta a pezzi dal futuro premio Nobel per la letteratura. Il giovane KOK, non prendendo bene la bocciatura, abbozza un componimento con una sola parola ripetuta per 376 volte. La poesia nel libro si presenta più o meno così: «Figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa figa […]». In quei giorni, a quanto pare di scarsa ispirazione, KOK racconta di essersi masturbato all’interno della scuola con un libro di arte. Cito direttamente dal suo romanzo: «non avevo idea di che cosa scrivere. Il caffè era pronto, ne bevvi una tazza, fumai una sigaretta, osservai l’immagine di me stesso filtrata dal vetro della finestra. Mi girai e guardai in direzione della libreria. Figuriamoci se in quel posto avevano un volume fotografico di donne vestite in modo succinto o nude. Però avevano un’opera che riguardava la storia dell’arte. Dopo averlo preso, lo sfogliai qua e là. Alcuni dei dipinti del Seicento e del Settecento raffiguravano figure femminili senza indumenti. Magari c’era qualcosa che avrei potuto usare?». Possiamo anche non immaginare il giovane KOK nei giorni della bocciatura di Jon Fosse, che era già affermato, ma dobbiamo pensare allo scrittore, ormai adulto, che ci fa il resoconto di quei giorni, e raccontandoci la sua intimità ci conferma che la sua scrittura è mettersi completamente a nudo. Il romanzo continua così: «un quadro di Raffaello si distinse immediatamente, due donne davanti a una fonte, una nuda, l’altra vestita, quella nuda era palesemente bella, guardava di lato con aria misteriosa, i piccoli seni sporgenti, un panno le nascondeva il pube, ma le cosce erano visibili ed ebbi un’erezione». Vengono descritti molti dipinti, da Il ratto delle figlie di Leucippo di Rubens a La nascita di Venere di Botticelli, fino all’opera di Tiziano La Venere di Urbino. KOK scrive di seni nudi e sodi, corpi procaci, capelli rossi, visi pallidi, piccoli piedi, occhi concupiscenti, e l’elenco dei dipinti aumenta con Vulcano e Maia di Spranger e La morte di Sardanapalo dipinta da Delacroix. Alla fine, rivelandoci il dipinto che seduce la sua fantasia, KOK ci ricorda quanto è disposto a raccontare di sé ed è come se ci portasse direttamente nel suo atelier di scrittore. Stephen King nel racconto Il corpo, quello da cui è tratto il film Stand by me, scrive: «L’atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione», ma KOK rinuncia al privato e nel sesto romanzo esplicita il suo manifesto: «La sensazione che avevo era di poter scrivere qualsiasi cosa, ma per uno scrittore poter scrivere qualsiasi cosa equivale alla morte. Uno scrittore può solo scrivere qualcosa di determinato e ciò che delimita questo qualcosa di determinato sono proprio gli impegni che si è assunto. Il mio era nei confronti della realtà, che quello che scrivevo fosse accaduto per davvero e che si fosse concluso in quel modo. Ciò che sentiva l’IO del romanzo era analogo a ciò che sentiva il suo autore. Così facendo veniva eliminato lo spazio privato e io stesso, in prima persona, dovevo rispondere di tutto quello che conteneva l’opera»
Niente viene tenuto nascosto e tutto diventa materia letteraria.
Nel suo lungo romanzo KOK scrive che da piccolo pensava che una volta grande gli sarebbe piaciuto fare il chirurgo perché era affascinato dalle lunghe sequenze di operazioni chirurgiche che venivano mostrate in tv durante gli anni Settanta in Norvegia. Racconta anche di aver disegnato chirurghi in azione sui pazienti. Non sorprende che da adulto abbia una fissa per i taccuini di Leonardo da Vinci, di cui scrive nel suo romanzo in maniera articolata. «Nei suoi taccuini Leonardo sembra quasi ossessionato dal pensiero di penetrare la realtà fisica e non fa differenza tra l’umano e il materiale, il vivo e il morto, vuole descrivere, catturare, capire tutto». Nelle molte pagine in cui rivela e analizza anche qual è l’opera pittorica di Leonardo che preferisce, e di cui possiede un poster in camera, ammette che l’unicità dell’artista di Vinci è data dal suo metodo di indagine della realtà e dei corpi: «Non sgranavo gli occhi davanti a un quadro di Leonardo come avviene invece quando leggo i suoi taccuini. Probabilmente perché come pittore apparteneva a una tradizione, vedeva con gli occhi della tradizione, dipingeva con le tecniche della tradizione, mentre come anatomista, biologo, fisico, geologo, geografo, astronomo e inventore era unico». Il fascino esercitato da Leonardo, dunque, è dato dal suo metodo di indagine, un metodo di penetrazione della realtà che si serve della dissezione. Lo storico della filosofia Mario Vegetti, nel suo libro Il coltello e lo stilo, riprende il pensiero del medico Galeno e suggerisce come nell’antichità ci fosse uno stretto legame tra la dissezione, la scrittura e la lettura. Questa forma di analisi del reale, così vicina all’anatomia, è indicativa di un modo di vedere e indagare la realtà come lo potrebbe fare appunto un appassionato di chirurgia. Leggendo KOK si ha spesso la sensazione che egli prediliga un approccio alla Leonardo, e come un onnivoro curioso di tutto è capace di osservare a lungo l’oggetto della sua indagine per poi dissezionarlo, per far emergere quello che è tenuto al buio, illuminare ciò che è nascosto e liberare quello che è secretato. Nel sesto romanzo c’è una originale descrizione del corpo umano che è un insieme di metafore che uniscono anatomia e poesia: «È perché il cuore è un uccello che batte instancabile nel petto, è perché i polmoni sono due vele attraverso cui scivola l’aria, è perché la mano è un granchio, i capelli un pagliaio, i vasi sanguigni sono fiumi e i nervi lampi. È perché i denti sono un muretto di pietra e gli occhi mele, le orecchie mitili e le costole un cancello. È perché nel cervello è sempre buio, e silenzioso. È perché noi siamo terra. È perché siamo sangue. È perché moriremo». Anche l’incipit del primo romanzo, La morte del padre, che è l’evento dal quale originano tutti i sei romanzi, è simile a un trattato divulgativo su cosa succede quando si muore: «Per il cuore la vita è semplice: batte finché può. Poi smette. Prima o poi, un giorno o l’altro, questo movimento, instancabile e ritmico come quello di una pressa, cessa in modo del tutto autonomo e il sangue prende a defluire verso il punto più basso del corpo dove si raccoglie in una piccola cavità, visibile dall’esterno sotto forma di una macchia scura e cedevole al tatto che compare sull’epidermide sempre più bianca. Tutto questo mentre la temperatura si abbassa, le membra si irrigidiscono e i visceri si svuotano. I cambiamenti intercorsi in queste prime ore avvengono così lentamente e sono compiuti con tale sicurezza da avere in sé qualcosa di rituale, come se la vita capitolasse seguendo regole precise, una specie di gentlemen’s agreement, a cui si adeguano anche i rappresentanti della morte mentre attendono che la vita si ritragga per dare inizio all’invasione di questo nuovo scenario. Questo assalto è irrevocabile. Niente può fermare gli enormi sciami di batteri che cominciano a diffondersi all’interno del corpo. […] Raggiungono i canali di Havers, le cripte di Lieberkühn, le isole di Langerhans. Raggiungono la capsula di Bowman del Rene, la colonna di Clarke del Midollo Spinale, la sub-stantia nigra del Mesencefalo. E raggiungono il cuore. Ancora intatto, ma depredato del movimento». Non stupisce sapere che il New York Times abbia commissionato a KOK nel 2016, mandandolo in Albania, un articolo su una particolare operazione neurochirurgica. Pubblicato in Italia da Internazionale, il pezzo partiva dall’incontro tra lo scrittore e il neurochirurgo britannico Henry Marshche che era in attesa di eseguire una “craniotomia” con il paziente da sveglio. A KOK viene dato il permesso di seguire l’operazione, e quando vede il cervello dal vivo lo paragona a un animale in una grotta e a una cozza. Durante l’operazione viene invitato a guardarlo con un microscopio. «Davanti a me si è aperto un paesaggio. Mi sentivo come se fossi in cima a una montagna, guardando una pianura percorsa da fiumi lunghi e serpeggianti. All’orizzonte si innalzavano altre montagne, tra queste c’erano delle valli e una delle valli era ricoperta da un enorme ghiacciaio bianco. Tutto brillava e scintillava. Era come se fossi stato trasportato in un altro mondo, in un’altra parte dell’universo. Un fiume era viola, gli altri erano rosso scuro e il paesaggio che attraversavano era pieno di colori strani e sconosciuti. Ma è stato il ghiacciaio a trattenere il mio sguardo più a lungo. Si stendeva come un altopiano sopra la valle, di un bianco candido, come la neve di montagna in una giornata di sole. All’improvviso un’onda rossa si sollevò e investì la superficie bianca. Non avevo mai visto niente di così bello, e quando mi sono alzato e mi sono spostato per far posto al dottore, per un momento i miei occhi si sono velati di lacrime».
Viene ribadita la volontà di far emergere e portare in superficie quello che sgorga quando in alcuni momenti della routine quotidiana si fa esperienza di qualcosa di più grande e di significativo.
Nel 2016 KOK viene invitato a Yale per ricevere il Windham Campbel Prize e tiene una conferenza dal titolo Why I write di cui vale la pena guardare la registrazione su YouTube. Nel suo intervento racconta che il suo libro preferito è Guerra e Pace di Tolstoj e cita un passaggio per spiegare che la letteratura, le arti in generale, e anche alcune pratiche religiose, ci mostrano la contraddizione tra «l’illimitato che abita dentro di noi e la nostra simultanea limitatezza». Per ribadire le motivazioni della sua scrittura, poi, cita Van Gogh e l’intensa ricerca dell’artista olandese per trovare un suo linguaggio. Mentre racconta il senso di elevazione che gli provoca un dipinto di Van Gogh e di come quella sensazione lo prende anche quando guarda il cielo pieno di corvi mentre va a prendere i suoi figli a scuola, confessa di sentire un forte desiderio di voler far parte del mondo e nel crescendo del suo speech ammette «I write to open the world». In quel passaggio, così sincero, sembra esserci un esplicito rimando alla dissezione di Leonardo, e viene ribadita la volontà di far emergere e portare in superficie quello che sgorga quando in alcuni momenti della routine quotidiana si fa esperienza di qualcosa di più grande e di significativo. La scrittura diventa il mezzo con cui si apre il mondo, usando attrezzi limitati come il linguaggio e le parole, e con il quale è possibile esprimere e far emergere tutto l’illimitato che è in ciascuno di noi e nella realtà. Sempre nel suo romanzo, KOK descrivendo le pratiche di Leonardo dice che devono essere state «qualcosa di avventuroso e magico, una specie di seconda creazione del mondo». Non è quello che fa o vorrebbe fare uno scrittore che, come il Dio della Bibbia, crea e plasma il mondo con le sue parole?
La scrittura diventa il mezzo con cui si apre il mondo, usando attrezzi limitati come il linguaggio e le parole, e con il quale è possibile esprimere e far emergere tutto l’illimitato che è in ciascuno di noi e nella realtà.
Nella sua infanzia KOK non era solo ossessionato dalla chirurgia, era interessato anche alle immersioni subacquee e all’astronautica, tutte attività che come spiega lui stesso «nel loro complesso svelavano il mondo, la prima all’interno del corpo, la seconda nelle profondità marine, la terza nello spazio. Del mondo mi attraeva tutto ciò che era nascosto all’occhio, volevo raggiungere quei luoghi misteriosi, in altre parole, l’ignoto». La scrittura di KOK è sempre un immergersi nella (sua) quotidianità fatta anche di lavastoviglie, cambio di pannolini, liti con i condomini, lavatrici e pulizie post cena con gli amici. KOK osserva sempre sé stesso e le persone con cui si relaziona e scandaglia (termine perfetto) i suoi sentimenti, anche quelli indicibili. La sua capacità narrativa è perfetta per ricreare particolari atmosfere in cui il lettore può letteralmente nuotare. KOK è uno scrittore che a volte permette al lettore di prendere il largo e altre, quando restringe il campo e si sofferma sui particolari, trattiene il lettore nel porto e lo obbliga a temporeggiare. La lettura de La mia battaglia richiede spesso tempo e attenzione: più che in una trama ci si immerge in atmosfere, come succede con alcune installazioni d’arte o per alcuni dipinti che riescono a ricreare ambienti in cui si riesce a fare esperienza di qualcosa che non si era mai visto o provato. Tra la scrittura di KOK e l’arte pittorica c’è un forte legame. In Un uomo innamorato, dopo aver raccontato di una passeggiata in un bosco innevato, KOK scrive: «era per questo che mi sarebbe piaciuto dipingere, per questo mi sarebbe piaciuto tanto avere quel talento, perché solo così si poteva esprimere tutto ciò. Stendhal ha scritto che la musica era la forma di arte più elevata, che tutte le altre forme artistiche anelerebbero in realtà a essere musica. Era un’idea di Platone, tutte le altre forme artistiche ritraggono qualcos’altro, la musica è l’unica a possedere qualcosa in sé stessa, assolutamente incomparabile. Ma io volevo qualcosa di più vicino alla realtà, cioè la realtà fisica, concreta, e per me è la vista a venire prima di tutto, anche quando scrivevo, leggevo, quello che mi interessava era ciò che si trovava dietro le lettere dell’alfabeto». Sono parole con le quali KOK svela quanto sia importante per lui il binomio tra il vedere e lo scrivere e descrive chiaramente la sua idea di scrittura, unico strumento per esprimere tutto quello di cui si fa esperienza. Nel romanzo Fine, in cui racconta di aver tradotto la Bibbia e solo allora di aver capito cosa voglia dire veramente leggere, in cui analizza le poesie di Celan e i dipinti di Kiefer (il pittore tedesco è una forte costante nei romanzi di KOK), si ha la netta sensazione di come la riflessione sull’arte sia un modo originale per parlare e riflettere sulla sua scrittura. In una delle sue digressioni KOK scrive di Proust e di Cezanne in questi termini: «cosa è visibile e cosa è invisibile, che cosa è chiaro e che cosa è scuro, che cosa vediamo e che cosa non vediamo, e soprattutto qual è la sensazione che riempie quello che vediamo in maniera così forte? Uno scrittore come Marcel Proust sarebbe impensabile senza l’impressionismo, perché tutta la sua opera verte sul rapporto tra memoria e oblio, luce e ombra, visibile e invisibile, e la forte sensazione che il mondo, specialmente quello sommerso, ma anche quello presente, risvegliava in lui è lo sguardo degli impressionisti ad averlo plasmato, se non addirittura creato. Se si osserva Cézanne, la domanda è: che cos’è vedere? Se si osservano gli impressionisti, la domanda è: che cos’è l’esperienza del vedere?». Quando si legge si è completamente in balia di un autore che, come un pittore, illumina alcune cose mettendone in ombra altre. Ed è sempre l’autore, di volta in volta, che punta il fascio di luce per imprimere un’atmosfera, o per indicare un gioco di ombre e stimolare un nuovo modo di vedere. KOK, durante la sua conferenza Why I write a Yale, oltre a citare Van Gogh parla anche del suo conterraneo Edvard Munch proprio come fa all’interno della sua esalogia dove lo contrappone a Hitler. Tra le oltre mille pagine del sesto romanzo ce ne sono quattrocento che compongono un libro nel libro dal titolo Il nome e il numero. In quelle pagine KOK racconta la sua esperienza di lettura dell’autobiografia di Hitler: lo scrittore norvegese trova a casa del padre, dopo la sua morte, una spilletta dei tempi del nazismo, e poi a casa di suo nonno recupera una copia del Mein Kampf. All’inizio rimane scioccato dai ritrovamenti, ma in seguito dice di conoscere fin troppo bene la sua famiglia e non dubita della loro curiosità. Pur provando un iniziale senso di vergogna, legge e studia il Mein Kampf e questa sua esperienza diventa materia per il suo romanzo. La parte in cui si parla del dittatore tedesco è ricca di riferimenti che analizzano la società tedesca dell’epoca ed è piena di racconti sconosciuti ai più. Leggendo si apprendono una serie di informazioni che raramente leggiamo sulla giovinezza di Hitler e sull’ascesa dell’antisemitismo nella Germania di quegli anni. Leggere il Mein Kampf con gli occhi di KOK è utile perché tutto è contestualizzato e narrato con collegamenti e approfondimenti frutto di ricerche e di letture inusuali. Tra le molte cose si racconta della passione di Hitler per la pittura e di quando a proposito del suo futuro scrive: «un giorno capii improvvisamente che sarei diventato un pittore». Hitler inizialmente campava realizzando un dipinto al giorno, opere che poi un suo amico ebreo rivendeva, ma per come è andata la Storia sappiamo che non diventerà mai un artista. KOK spiega che Hitler non riuscì mai a trovare un linguaggio pittorico originale, e che non sopportava gli artisti che si allontanavano dall’estetica borghese del tempo. Sappiamo bene che una volta al potere i nazisti concepiranno una mostra sull’arte che consideravano degenerata.
Knausgård è uno scrittore che a volte permette al lettore di prendere il largo e altre, quando restringe il campo e si sofferma sui particolari, trattiene il lettore nel porto e lo obbliga a temporeggiare.
Per KOK, Munch, al contrario di Hitler, fu un artista che sfidò il senso comune dell’estetica borghese del tempo e viene presentato come uno di quei pittori che «si staccò, preferendo vivere gran parte della propria esistenza chiuso all’interno della propria sfera interiore, senza contatti, o ridotti al minimo, con la propria famiglia, e in pratica senza amici. […] Munch voltò la testa dall’altra parte, interiorizzò il proprio sentire, dipinse. La solitudine e l’indipendenza, non erano diverse da ciò che Hitler visse nel corso di quegli anni, ma il superamento della componente borghese da parte di Hitler fu solo di carattere sociale, non artistico. Infatti, la sua estetica era identica a quella borghese, che voleva che l’arte fosse espressione del bello e dell’ideale». Munch, rispetto a molti artisti suoi contemporanei, secondo KOK riuscì a trovare il modo di rappresentare sulla tela la sua esperienza traumatica del mondo perché a un certo punto aveva avvertito una qualche distonia «tra la sua esperienza della realtà e il modo dominante di rappresentarla, un’incongruenza così grande che non poteva semplicemente accettare il linguaggio pittorico esistente se voleva essere fedele a sé stesso, ma doveva lottare contro di esso, facendosi strada ciecamente verso l’interno, e non arrendersi fino a quando non avesse tirato fuori qualcosa all’esterno che corrispondesse alla sua esperienza interiore». KOK ha una grande passione per l’opera di Munch, sul quale ha curato una mostra e scritto il libro So Much Longing in So Little Space: The Art of Edvard Munch. Su YouTube ci sono molti video in cui KOK parla di Munch e si può ascoltare anche un talk con il pittore Peter Doig. In un’intervista pubblicata su Art Net lo scrittore norvegese racconta due fatti personali che svelano la sua passione. La prima è che per i suoi quarant’anni ha ricevuto il catalogo ragionato di tutte le opere dell’artista norvegese, la seconda è il racconto tragicomico di un’asta online in cui per aggiudicarsi una sua opera si ritrova a fare molti rilanci, di cui poi ha provato vergogna, solo perché non voleva perdere. La passione di KOK per Munch però non basta a spiegare la sua intensa analisi della sua opera. KOK confessa di aver provato a usare i pennelli: «Chiunque abbia tentato di dipingere sa che si tratta di un processo minuzioso e complicato, governato da una speciale forma di pensiero, visivo e irriflessivo, quasi come i colori e le forme stesse. Ci vogliono molti anni per acquisire abbastanza esperienza e fiducia per poter esprimere ciò che si vuole sulla tela, o almeno per ridurre al minimo la distanza tra l’immagine interna e quella esterna in modo che i pensieri visivi e non riflessivi possano muoversi più o meno liberamente tra la loro espressione interiore ed esteriore». Sempre nell’intervista rilasciata ad Artnet lo dice chiaramente: «I think there are so many similarities between writing and painting», a conferma di una speciale equiparazione tra una tela e un romanzo, e viceversa. Per KOK la scrittura e la pittura sono mezzi simili per provare a ricreare uno spazio, un nuovo mondo dove è possibile rappresentare la propria esperienza, soprattutto la più vera.
Knausgård invita il lettore ad abbandonare il proprio io, smettere di vedere con i propri occhi e indossare la visione, lo sguardo, dell’autore.
Riassumere l’esperienza di lettura de La mia battaglia è quasi impossibile, e non solo per una questione di trama, che è superflua, ma soprattutto perché quello di KOK è un romanzo pieno di flussi di riflessioni anche molto attuali. Soprattutto il sesto romanzo è pieno di considerazioni sulla nostra contemporaneità e ci sono frasi come «il bisogno più importante di un essere umano, oltre a quelli materiali, è di essere visto. Un essere umano che non viene visto non è nessuno. Essere visti è qualcosa che tutti noi cerchiamo». C’è inoltre un continuo richiamo alla nostra società mediatica, al vivere dentro un mare di oggetti ma sempre davanti a degli schermi, trasformando il mondo in un enorme soggiorno dove è possibile spiare cosa fanno gli altri. Altri temi, all’apparenza distanti, si tengono grazie alla scrittura di KOK: il vero, il falso, la guerra, la morte, l’essere riconosciuti, il senso di un’esistenza, la violenza, la famiglia, la libertà. Il romanzo è il posto in cui può scrivere e meditare su ogni cosa, passando da Leonardo da Vinci a Kiefer, da Hitler a Cioran e Dante. Con sottofondo gli U2, si parla di boxe, dei litigi con i suoi parenti, di libri e di viaggi in Italia. Tutto si tiene e tra i tanti temi ricorrenti c’è l’arte perché, come ammette lo stesso KOK, è sempre stata il suo strumento preferito per comprendere il significato che si cela dietro le cose. Mentre racconta della brama di realtà e di autenticità che nasconde il suo desiderio di trovare significati, confessa che la sua scrittura nasce dal bisogno di scandagliare i legami di cui fa parte, e racconta come abbia «sempre vissuto questo nell’arte, questa forte sensazione di significato, ma raramente nell’arte moderna, quasi sempre nei dipinti che vanno dal seicento alla fine dell’ottocento, con qualche importante eccezione». L’eccezione è Kiefer, la cui arte appare nel romanzo, che per lui è tra gli artisti più importanti, e su cui per il NYT ha scritto un indimenticabile e insolito ritratto. Nel sesto libro KOK racconta di essere a Venezia, nelle gallerie dell’Accademia, dove sta osservando i dipinti lì conservati e avverte che quelle opere d’arte non gli dicono niente: «Quello stesso giorno vidi l’unico elemento veramente sublime di tutto il viaggio. Stavo passeggiando con John nella zona circostante l’appartamento, lungo le calli strette, dove davanti a ogni porta c’erano dei piccoli sacchetti di plastica annodati, mentre i panni erano stesi ad asciugare su corde che si incrociavano tra le case, era pomeriggio inoltrato, ci avviciniamo alla piazza che dà sulla laguna, dove attraccavano i vaporetti, quando di colpo apparve dietro i tetti una nave enorme che scivolava via lentamente». Una nave da crociera, una di quelle che anche Banksy ha raffigurato nel famoso blitz fatto in laguna, diventa l’unico elemento capace di turbarlo, di rompere il quotidiano e di scuoterlo provocandogli degli scrosci emotivi. KOK elenca altre cose che inaspettatamente rivelano altro o fanno scaturire qualcosa: «una nave da crociera affollata di persone, un paesaggio industriale coperto di neve, il sole rosseggiante che splende attraverso un velo di nebbia, un uomo anziano con indosso la sua tuta da lavoro blu che getta uno scatolone in un falò». L’opera di KOK è stata molte volte associata alla Recherche di Proust e c’è una citazione molto abusata dell’autore francese a proposito della lettura che dice «ogni lettore quando legge, legge sé stesso». KOK scrive una cosa molto diversa a proposito della lettura: «leggere è vedere le parole come luci, che brillano nel buio, una dopo l’altra, e la lettura significa seguire queste luci verso l’interno. Ma ciò che si vede non è mai disconnesso da ciò che si è: nella mente esistono dei limiti, sono personali, ma anche culturali, in modo che c’è sempre qualcosa che non siamo in grado di vedere, ci sono sempre posti dove non possiamo andare. Se si è abbastanza pazienti, se si esaminano in maniera accurata le parole di circostanze a esso relative, è possibile cogliere questi limiti e in quel caso ciò che appare è ciò che esiste al di fuori dell’io di una persona. L’obiettivo del leggere è raggiungere questi luoghi. L’imparare è questo: vedere ciò che si trova oltre i confini posti dall’io. Diventare vecchi non significa capire di più, ma sapere che c’è di più da capire». KOK invita il lettore ad abbandonare il proprio io, smettere di vedere con i propri occhi e indossare la visione, lo sguardo, dell’autore. È difficile ma non è impossibile, e proprio a proposito di arte KOK scrive «cos’è un’opera d’arte se non lo sguardo di un’altra persona? Non al di sopra di noi, e neppure al di sotto, ma esattamente alla stessa altezza del nostro sguardo». Una definizione perfetta per la letteratura: alla fine della lettura de La mia battaglia, la percezione del quotidiano avrà una scossa e si avrà la sensazione di avere due occhi nuovi e un nuovo sguardo.