Una riflessione sulle narrazioni narcotiche a partire dal romanzo “Come piombo nelle vene” di Helen Garner uscito in Australia nel 1977 e portato in Italia lo scorso anno da Nottetempo.
Cosa spinge un individuo al compimento del proprio personale massacro? Al principio e alla fine di ogni storia di eroina persiste il dubbio. Un interrogativo di riflesso ma sbadato, errato nella specifica. Non è il massacro a essere ricercato nella dipendenza. Il massacro, lo sfacelo sono solo conseguenza. Lo scotto, inevitabile, di una ricerca dal segno opposto. La domanda dovrebbe comprimersi a un solo e generico “perché”, vago e fluttuante e per questo di grande capienza: possono trovare posto innumerevoli risposte, tutte valide. Possono trovare posto anche il diniego e la sospensione, validi, validissimi, anch’essi. Si procede a tentoni in questo terreno scosceso, dove la ragione non soccorre, e allora ci prova l’arte, la letteratura.
Nora, una donna di poco più di trent’anni che “non si è mai fatta” ma che con il resto delle droghe ha particolare dimestichezza, sfiora l’abisso attraverso la pelle degli altri.
Nel filone letterario dedicato a storie di droga, capeggiato, solo per citarne alcuni, dai celebri nomi di Aldous Huxley, William S. Burroughs e Hubert Selby Jr, il racconto della dipendenza è prevalentemente una narrazione diretta. Indifferentemente dal carattere autobiografico o finzionale dell’opera, il protagonista è il tossico. Al centro della narrazione lui e la sua dipendenza, la sua scimmia sulla schiena, che lo spoglia, lo degrada, lo scarnifica – tra gli esempi di ultima uscita in Italia possiamo ricordare Strade Acide di Susanna Polloni (Sandro Teti editore), Scusa i mancati giorni di Daniele Leandri tornato in libreria per i tipi di Gog, e infine il fortunato Sanpa di Fabio Cantelli (Giunti editore).
Più rari sono i casi di storie indirette, nelle quali al centro del ciclone non è il protagonista, ma un personaggio collaterale, la cui forza centripeta è incontrastabile. Un risucchio fortissimo e silenzioso. Sono storie in bilico tra la salvezza e l’oblio. Sono, paradossalmente, storie a più alta tensione rispetto a quelle dirette e sfacciatamente autobiografiche. C’è un’intercapedine di speranza che si annida nel rapporto tra parte sana e parte malata. Se il tossico è ormai perso, inabissato e tradito dai quotidiani propositi “domani smetto”, agli occhi del lettore il protagonista ha ancora un piede nel mondo dei vivi. Vacilla, rischia la perdizione per contagio, ma il lettore lo vuole vincitore, almeno lui. Uno slittamento al negativo sarebbe più tragico: il morto è già stato dichiarato morto, ma chi è ancora vivo può morire per contagio? Possono esserne esempi tra i libri di recente pubblicazione nel perimetro nazionale Josephine di Jean Rolin (Quodlibet, traduzione di Martina Cardelli dal francese) o Le droghe di Laudomia Bonanni (Cliquot), rispettivamente un amante e una madre i cui affetti più cari si trovano invischiati nella lotta al fianco e contro l’eroina. A questi due titoli, in cui si fa esperienza della droga per interposta persona, si è poi aggiunto il libro di Helen Garner, Come piombo nelle vene, portato in Italia da Nottetempo nella traduzione di Milena Sanfilippo.
«La sento, riesco a sentirgli il sapore dell’eroina in bocca. È come una medicina, inefficace e velenosa, ma non sgradevole. “Sento il suo sapore su di te”».
Il libro di Garner si inserisce in Italia nel solco di una particolare tendenza editoriale, interessata al ventennio Settanta e Ottanta e alle sue vicende tossiche. Tutti i titoli qui citati fino a ora sono o di seconda pubblicazione (Scusa i mancati giorni uscito nel 1978 per Einaudi; Strade Acide nel 1995 per Sensibili alle foglie, Sanpa nel 1996 con Frassinelli, Le droghe nel 1982 per Bompiani) o, per quelli stranieri, approdati in Italia solo decenni dopo rispetto alle uscite nei propri Paesi: Josephine ebbe pubblicazione in Francia nel 1994, così Come piombo nelle vene venne pubblicato originariamente in Australia nel 1977, con il titolo Monkey Grip, titolo difficilmente traducibile in italiano per la vicinanza burroughsiana. Apparenti casualità che denotano l’interesse crescente attuale verso una fetta di storia tanto breve quanto intensa e imprevedibile.
Il contagio avviene per prossimità e Nora paga lo scotto di un amore dannato, in un processo di transfer all’inverso.
Siamo a metà degli anni Settanta a Melbourne, in Australia, e la droga è ovunque, come era ovunque in qualsiasi Paese dell’Occidente nel ventennio Settanta-Ottanta. Nel libro di Garner, la protagonista Nora, una donna di poco più di trent’anni che “non si è mai fatta” ma che con il resto delle droghe ha particolare dimestichezza, sfiora l’abisso attraverso la pelle degli altri. Nora, che ha un matrimonio alle spalle e una figlia piccola al suo fianco, è innamorata irrimediabilmente di Javo, ventitreenne, pelle diafana, corpo scheletrico, occhi azzurri roventi e fiumi di eroina che scorrono nel sangue. La prossimità è la prima esperienza dell’amore. È un momento vertiginoso, pieno di sgomento, scoprire che in certi attimi è possibile essere così vicini. I contorni si sfumano, tutto si sovrappone, in un’illusione condivisa che sa fregare anche i limiti del corpo. Ed è quello che succede tra Nora e Javo, durante le notti insonni passate nel letto di lei, tra orgasmi, chiacchiere e dolcezze. «È che, quando scopiamo, o quando riusciamo a starcene insieme in pace, ci tocchiamo davvero. Nessun altro si avvicina così tanto a me». Pur astenendosi dall’assunzione di eroina, Nora inizia a provare sulla sua pelle ciò che prova Javo. Le sensazioni post iniezioni diventano termini di paragone quotidiani, «una specie di letargia si impossessò di me, un po’ come Javo mi aveva descritto l’eroina: piombo caldo versato nelle vene», e i malesseri fisici alla stregua di sintomi di astinenza. Un’infezione invisibile. Il contagio avviene per prossimità e Nora paga lo scotto di un amore dannato, in un processo di transfer all’inverso – il malato, il paziente è Javo; Nora è la parte sana, l’ancora di salvezza.
Nora è calamitata dall’aspetto malato di Javo, e sono numerosi i passaggi in cui la protagonista e voce narrante indugia sulle descrizioni poco nobilitanti dell’aspetto del giovane tossico. Ma questo indugio rivela un richiamo, una contemplazione compiaciuta di una bellezza caduca e sporca.
Il rapporto tra Nora e “la roba” non è semplice. Ne riconosce il danno mortifero ma non ne è immune al fascino. «Io ne sono fatalmente attratta», riflette Nora durante un tragitto in autobus. Un’attrazione che si risolve anche in termini estetici, preludendo il fortunato canone heroin chic dei primi anni Novanta. Nora è calamitata dall’aspetto malato di Javo, e sono numerosi i passaggi in cui la protagonista e voce narrante indugia sulle descrizioni poco nobilitanti dell’aspetto del giovane tossico. Ma questo indugio rivela un richiamo, una contemplazione compiaciuta di una bellezza caduca e sporca. Javo è sempre più distante dal mondo dei vivi e più vicino a quello degli spettri e la sua fisionomia, a ogni pagina più sfumata e inquietante, sembra dipinta dal tratto di Jaroslav Panuška: «Non è più in una condizione umana, è uno spettro dalle labbra livide, che mangia, dorme e geme», o ancora: «avevo notato la spigolosità delle guance, i capelli scompigliati dietro la testa, sentendomi travolgere da un duplice sentimento di tenerezza e repulsione». Si annida qui il segreto dell’amore disperato di Nora e Javo, nell’incontro, mai del tutto realizzabile, tra vita e morte, tra pieno e vuoto. Amare Javo è un’esperienza estatica, perché corrisponde non solo all’avvicinamento alla morte – un corpo danneggiato, inerme, dunque «il mio bambino malato» – ma anche a quel sogno impossibile di accedere al mondo dell’aldilà pur rimanendo con un piede nell’aldiquà. Rendere infinito il finito, la grande illusione necessaria all’amore e all’eroina: «Dipendenza dall’eroina, dipendenza dall’amore – che cosa cambia? Possono ucciderti entrambe».
Si annida qui il segreto dell’amore disperato di Nora e Javo, nell’incontro, mai del tutto realizzabile, tra vita e morte, tra pieno e vuoto. Amare Javo è un’esperienza estatica, perché corrisponde non solo all’avvicinamento alla morte ma anche a quel sogno impossibile di accedere al mondo dell’aldilà pur rimanendo con un piede nell’aldiquà.
Nelle storie indirette di eroina ciò che si sottrae alla mancanza di testimonianza in prima persona è aggiunto dalla disamina esterna, per la sovrapposizione di sguardo: di chi narra, di chi legge. Si conosce “l’oggetto drogato” per duplice inferenza. I protagonisti sono prima di tutto osservatori, contemplano una catastrofe che si abbatte e verso la quale sono impotenti. È attraverso il loro punto di vista che il lettore può accedere a territori ostici, bordeggiare gli abissi mantenendo un barlume di senso, che altrimenti, in una coincidenza tra soggetto e oggetto drogato, potrebbe naufragare. È grazie a questo barlume di senso, lògos inteso come pensiero ma anche come parola, che può compiersi quindi il tentativo di restituzione verbale e di resa intellegibile di una dimensione altra. «Il linguaggio, il lògos, diventa paradossalmente l’unica testimonianza possibile, ma anche l’unico vero modo per sperimentare l’irrazionale», scrive Alberto Castoldi all’introduzione del suo Il testo drogato (Einaudi). Le narrazioni di eroina diventano allora un viatico per l’irrazionale, come le storie di follia e di onirismo. Droga, follia e sogno hanno la medesima matrice e simili approdi e non a caso per tutto il libro le vicende di Nora sono frammezzate dal resoconto dei suoi sogni, che si insinuano e deformano, spesso addolcendola, la realtà, in una commistione a tratti priva di transizioni evidenti. Come Javo passa dalla dimensione alterata dell’eroina, resa manifesta dai suoi occhi prosciugati di azzurro, a quella della sobrietà, così Nora pare difendersi da questa altalena percettiva trovando rifugio alternativamente nella dimensione onirica o nell’assunzione di cocaina per via orale.
Narrare un delirio narcotico è spingersi oltre le Colonne d’Ercole, tentare un’impresa probabilmente volta al fallimento per scarsità di equipaggio.
La letteratura è un’arte difettosa e sul difetto si regge. Innanzitutto per una carenza linguistica, in quanto la parola è sempre insufficiente: se la realtà non si limita a essere quella materiale, quella che aderisce ai contorni delle cose, ma ogni elemento proietta un’ombra invisibile allo sguardo, percepibile per intuizione, allora la parola non potrà ignorare questa invisibilità e sarà costretta a farci i conti. Così lo scrivere parte sempre da uno svantaggio, da una condizione di inadeguatezza che prova lo scrittore verso la sua stessa opera. Nella storia tanti sono stati gli scrittori, i poeti che hanno vissuto con lacerazione questa insufficienza, al punto da maledire o da rinnegare le loro stesse opere. Funge da esempio, portato alle sue estreme conseguenze, la Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal:
«Ma a poco a poco questo malessere si estese come una ruggine corrosiva. [..] Tutto mi si scomponeva in parti e le parti in altre parti, e più nulla si lasciava abbracciare con un concetto. Le singole parole fluttuavano intorno a me; si coagulavano in occhi che mi fissavano e in cui io sono costretto a fissare a mia volta; vortici sono, che a guardarli mi danno le vertigini, che turbinano senza posa e, traversatili, si giunge al vuoto».
A maggior ragione, nelle narrazioni che, come quelle narcotiche, si prefiggono la restituzione di esperienze ultrapercettive, il compito dello scrittore è ancora più arduo, la rincorsa più lunga. Il precipizio è dietro l’angolo e altissimo è il rischio di tornare a galla senza saper proferire parola, perdersi in quel vuoto temuto da Hofmannsthal. Narrare un delirio narcotico è spingersi oltre le Colonne d’Ercole, tentare un’impresa probabilmente volta al fallimento per scarsità di equipaggio. Navigare tra flutti abnormi con una piccola barchetta e pochi rematori, si rischia di fare la fine dell’Ulisse dantesco. Non è impresa umana né verbale, perciò la parola deve essere spinta oltre i suoi limiti e ne consegue, quando non c’è più concordanza tra percezione e realtà, una parola ulteriore, una parola poetica che sappia dare conto dello stravolgimento, dell’infinito. Ecco allora la ragion d’essere dell’arte: contenere l’infinito in atomi di finitezza quali sono le parole. Un’infinitezza che si annida nel margine opaco di queste, in quelle sfumature di ambiguità che sfuggono al controllo e quindi al razionale. La narrazione narcotica diventa un cammino a tentoni nel regno dell’involontario, necessita di un doppio salto, di una doppia rinuncia. Rinunciare alla realtà e al suo linguaggio, per addentrarsi in un mondo nuovo, quello della visione. Tra gli esempi più accurati di narrazione ultrapercettiva c’è il libro Romanzo con cocaina di M. Ageev, autore ignoto, riportato in libreria nel 2020 da Gog Edizoni, in cui il protagonista e voce narrante, Vadim Maslennikov, assume per via endovenosa dosi vertiginose di cocaina alimentando stati allucinogeni della durata di circa ventisette ore, che documenta una volta tornato alla lucidità, guardandosi da fuori, in uno sdoppiamento tra prima – soggetto\oggetto drogato – e dopo – soggetto sobrio:
«Riapro gli occhi, la stanza ritorna al suo posto, conservando il suo movimento rotatorio della mia testa. Il collo non regge, la mia testa crolla sul petto, i miei piedi sono sul soffitto della stanza. “Che hanno fatto, che mi hanno fatto” sussurro io, e dopo sto in silenzio senza motivo, e dico ancora: “ecco, sono caduto nell’abisso”».
In Come piombo nelle vene lo sdoppiamento non avviene perché Nora è la testimone esterna che si avventura per la via dell’inconoscibile nascosta sotto la maschera dell’altro. In una delle pagine più crude e impudiche del libro, quando Nora aiuta l’amica Chris a bucarsi, Garner cristallizza in parole il momento in cui la distanza tra la protagonista e “la roba” si assottiglia pericolosamente. In un effetto di contagio passivo, Nora vive plasticamente l’esperienza della “botta” per interposta persona e ne dà una restituzione verbale: «Tra noi c’era uno strano spirito di squadra. E sentivo agitarmisi in petto il tremolio di un effetto passivo che andava e veniva: il cuore mi batteva più veloce, il respiro si era fatto più freddo e libero, mani e stomaco presero a fremere per effetto di un’eccitazione innominabile».
Ecco allora la ragion d’essere dell’arte: contenere l’infinito in atomi di finitezza quali sono le parole.
In queste narrazioni si impara che il rapporto tra sano e malato, tra tossico e non tossico, è una relazione complessa, a maggior ragione se l’altro è una persona vicina. Osservare non è mai un atto esclusivamente passivo e di nuovo nell’abbattimento dei confini la prossimità è la prima responsabile. Così guardare l’altro significa guardare se stessi in una scoperta onesta e terrificante. «Può darsi che io sia una di loro», recita un pensiero di Nora, guarda caso accostabile alla stessa conclusione cui arriva la protagonista di Le droghe di Bonanni: «Non sarà che abbia io stessa propensione alla droga?». E tutto fa eco. «Io è un Altro», ci ricorda Rimbaud.