La fine della fine della Storia

Jade Koroliuk

Dopo il mito della pacificazione globale, il XXI secolo si rivela un laboratorio di guerre ibride, crisi economiche, fratture democratiche e revisionismi imperiali. Quella che Fukuyama aveva chiamato “fine della Storia” era in realtà una tregua: oggi si rimette in moto, svelando le crepe dell’ordine liberale e la fragilità del mondo globalizzato.

da Quants n. 22 (2025)

La data sul calendario è una convenzione, lo sappiamo. Siamo nel 2025 solo perché qualcuno, nel passato, ha iniziato a scandire il tempo in un certo modo e a contarlo da un certo evento ed è riuscito a imporre la sua convenzione al resto del mondo (o quasi). Tuttavia anche le convenzioni hanno un loro peso simbolico. Credo sia perciò interessante che, dal mezzogiorno dello scorso 2 luglio, ci troviamo più vicini al 2050, il cuore del secolo, che al primo gennaio 2000, l’inizio.

I secoli sono creature strane. Non sempre iniziano (o finiscono) quando lo dice il calendario. A volte le correnti storiche si trascinano dal secolo precedente, altre straboccano in quello successivo. Ci vuole tempo prima che un secolo mostri la sua “verità”. Pensate all’Ottocento: comincia con Napoleone, ovvero la coda di questioni settecentesche irrisolte – l’eredità della rivoluzione, lo scontro per l’Impero tra Francia e Inghilterra che comincia nel tardo Seicento. L’Ottocento diventa l’Ottocento – il secolo dell’accelerazione industriale, del positivismo, del treno, dell’elettricità – solo quando Napoleone, uomo nuovo e superato allo stesso tempo, si eclissa. L’Ottocento, per molti versi, comincia solo nel 1815.

I secoli sono creature strane. Non sempre iniziano (o finiscono) quando lo dice il calendario. A volte le correnti storiche si trascinano dal secolo precedente, altre straboccano in quello successivo. Ci vuole tempo prima che un secolo mostri la sua “verità”.

O prendiamo il Novecento e il modo in cui la prima guerra mondiale dà sfogo ai nazionalismi addensati nei decenni precedenti, alle recriminazioni che gli imperi europei avevano accumulato nel mondo, all’insostenibilità geopolitica di strutture antiquate come l’impero austro-ungarico e quello ottomano. È evidente – quasi tutti gli storici lo confermano – che gli uomini che fecero precipitare il primo conflitto mondiale pensassero in termini ancora ottocenteschi. Immaginavano guerre brevi e scontri di cavalleria, annessioni semi-dinastiche e diplomazia cortigiana. Solo con la guerra scoprirono quanto diverso fosse il volto della loro epoca. Cosa fosse diventato il mondo, una volta uscito dal cono d’ombra del passato. Fu attraverso le trincee, le mitragliatrici pesanti, le corrazzate, i gas, che il Novecento rivelò gli orrori meccanici, i vortici di alienazione, le dimensioni colossali dei fenomeni che lo avrebbero contrassegnato.

Un giorno gli storici forse diranno qualcosa di simile anche in merito ai primi decenni di questo secolo. Il XXI è un secolo cominciato ancora nel segno di un “lungo dopoguerra” (anzi “dopoguerre”, includendo la guerra fredda), nel segno del “trionfo” del capitalismo liberale sui propri nemici e della convinzione che la globalizzazione e il progresso tecnologico avrebbero aperto a tutti le porte della democrazia.

Il XXI è un secolo cominciato ancora nel segno di un “lungo dopoguerra”, nel segno del “trionfo” del capitalismo liberale sui propri nemici e della convinzione che la globalizzazione e il progresso tecnologico avrebbero aperto a tutti le porte della democrazia.

In ossequio alla liturgia del “lungo dopoguerra”, l’Occidente ha reagito all’11 settembre come fosse una cosa sola. Tuttavia, a posteriori, proprio da quel giorno abbiamo capito che nell’Occidente esistevano due nuclei – uno forte e sovrano che “decideva dell’eccezione” e iniziava guerre riscrivendo le sue stesse regole – e uno debole e vassallo che poteva al massimo abbozzare. Uno forte e sovrano che usciva da un’enorme crisi economica stampando tutti i triliardi necessari per investirli nei settori più futuribili, e uno debole e vassallo che doveva aprire i mercati ai servizi delle imprese digitali del primo senza ottenere nulla in cambio. Il re era nudo da tempo, tuttavia finché ha continuato a rivolgersi a noi in harvardiano andava tutto bene. È stato solo con l’arrivo di un cafone alla Casa Bianca che si è rotto l’incantesimo e il vero volto del secolo ha cominciato a rompere il guscio.

Significativo è anche che il capodanno 2000 sia coinciso con l’arrivo sulla scena di un personaggio che i grandi eventi del tardo Novecento li ha vissuti tutti sulla propria pelle: l’ex agente del KGB, l’ex cattivo tenente del caos eltsiniano, Vladimir Putin. Un uomo le cui recriminazioni, da almeno quindici anni, sono tutte declinate al passato: dalle promesse fatte (e non mantenute) ai suoi predecessori sovietici fino all’idea di una Grande Russia che è insieme Otto e Novecentesca, zarista e stalinista. Fino al 2014, lo “spirito dei secoli passati” di Putin ha aleggiato sull’Europa quasi come una buffoneria, dopo si è rivelato una tragedia.

La vittoria nella Guerra Fredda veniva letta come una pacificazione definitiva della storia. Non si trattava solo di un trionfo geopolitico, ma di una riconfigurazione: la Storia, come arena di antagonismi sistemici, era finita. Ciò che rimaneva era gestione: dei mercati, della sicurezza, delle tecnologie. Amministrazione dell’inevitabile.

La guerra in Ucraina – che è insieme rigurgito Novecentesco e catastrofe militare iper-contemporanea – ci ricorda fino a che punto l’Occidente abbia frainteso il significato della caduta del comunismo in Russia. L’idea che quell’evento fosse la prova che la democrazia liberale rappresentasse il punto d’arrivo obbligato di ogni società umana non era solo scorretta politicamente ma epistologicamente.
A partire dal 1989, l’ordine globale è stato interpretato dall’Occidente (forte e debole), attraverso una cornice che potremmo chiamare post-traumatica. La vittoria nella Guerra Fredda veniva letta come una pacificazione definitiva della storia. Non si trattava solo di un trionfo geopolitico, ma di una riconfigurazione: la Storia, come arena di antagonismi sistemici, era finita. Ciò che rimaneva era gestione: dei mercati, della sicurezza, delle tecnologie. Amministrazione dell’inevitabile.
L’ordine liberal-democratico emerso da questa convinzione si fondava su tre assunti: 1 – che l’economia di mercato fosse non solo efficiente, ma anche intrinsecamente pacifica; 2 – che l’integrazione economica globale avrebbe indotto convergenza politica; 3 – che la tecnologia avrebbe accelerato e consolidato entrambi i processi. Questi assunti hanno guidato la strategia dell’Occidente per oltre due decenni: nei negoziati WTO, nell’allargamento dell’UE, nell’espansione della NATO, nell’ingresso della Cina nel sistema economico multilaterale.
E tuttavia, ciascuno di questi pilastri ha mostrato crepe profonde proprio nel momento in cui veniva dato per consolidato.

La guerra globale al terrore non fu una deviazione temporanea, ma un passaggio strutturale: ha riportato nella governance occidentale una logica premoderna di imperium, svincolata dai meccanismi multilaterali faticosamente costruiti nel dopoguerra.
L’11 settembre 2001 ha segnato una prima discontinuità. Non solo per l’evento in sé, ma per la risposta che ha generato: un unilaterale ritorno alla forza militare, con la costruzione di un diritto d’eccezione su scala planetaria. La guerra globale al terrore non fu una deviazione temporanea, ma un passaggio strutturale: ha riportato nella governance occidentale una logica premoderna di imperium, svincolata dai meccanismi multilaterali faticosamente costruiti nel dopoguerra. Ha mostrato al mondo non occidentale il volto più ipocrita e cinico dell’ideologia liberale, ricordando a tutti come dietro le sigle internazionali, i forum multilaterali, le buone maniere della diplomazia, alla fine contasse solo la legge del più forte.
La crisi finanziaria del 2008 ha introdotto un’altra faglia: quella tra capitalismo globale e democrazia nazionale. Il sistema bancario transnazionale, interdipendente e opaco, si è rivelato una fonte di rischio sistemico, non di stabilità. E se la risposta americana (quantitative leasing, salvataggi, espansione monetaria) ha salvato il sistema, essa ha anche segnato un ulteriore squilibrio: tra chi può gestire crisi con strumenti illimitati, e chi deve subire le conseguenze delle sue asimmetrie.
Il mondo post-2008 è stato un mondo di crisi non risolte ma normalizzate. La crisi dell’eurozona – paradigma di austerità senza sovranità. Le primavere arabe – implose sotto il peso di regimi resilienti e contro-rivoluzioni regionali. La guerra in Siria – ridisegnata come laboratorio per potenze rivali. L’ascesa della Cina – non come copia convergente dell’Occidente, ma come alternativa autoritaria efficiente. E infine, il 2016 – Brexit e Trump – segnano il ritorno della frattura tra élite globalizzate e consenso democratico. Non tanto un rigetto della modernità, quanto un rigetto del modo in cui la modernità era stata imposta.

Forse è proprio in questo angosciante scorcio di anni Venti che il XXI secolo comincia a mostrare il volto con cui la Storia lo riconoscerà.

Nel frattempo la Silicon Valley – un tempo cuore prometeico dell’Occidente che nei primi anni 2000 sembrava promettere empowerment diffuso – si è trasformata in un’infrastruttura di sorveglianza e monopolio. Sorto a partire dalla rivoluzione decentralizzante di internet, il modello di business delle big tech non assomiglia alla “zona” di Hakim Bey, a cui aspiravano i primi cibernauti, ma a una nuova forma di feudalesimo. Gestisce spazi digitali privati, accumula dati come capitale, esternalizza i costi sistemici. Le reti, nate orizzontali, si sono verticalizzate. Le piattaforme non distribuiscono il potere, lo concentrano. E dopo averlo concentrato, i loro “baroni” cercano ora di trasformarlo in potere politico di tipo anche ideologico e fungibile, tra Dark Enlightement e rifiuto del processo democratico tradizionale.
Il covid prima e il 2022 poi hanno reso tutto più esplicito. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non è stata un ritorno al passato, ma una conseguenza diretta dell’incapacità dell’ordine liberale di trasformare le vittorie simboliche in strutture inclusive. Il fallimento del “partenariato strategico” con Mosca, unito all’espansione incoerente della NATO, ha alimentato un revisionismo che, pur anacronistico nei toni, è profondamente contemporaneo nella forma: ibrido, digitale, ideologico, e capace di mobilitare consenso in una società della post-verità.
Lo stesso vale per Gaza. L’attacco del 7 ottobre e la risposta israeliana non sono una semplice escalation regionale, ma un indicatore della disarticolazione delle norme minime di legittimità internazionale. L’architettura giuridica del dopoguerra – diritti umani, diritto umanitario, multilaterialismo ONU – appare oggi come un involucro svuotato. I conflitti non sono più regolati: sono gestiti per audience, come oggetti di performance morale e guerra cognitiva.
Tutto ciò si svolge all’ombra della crisi climatica – la vera meta-struttura del XXI secolo. Eppure anche su questo la risposta è diseguale, tardiva, spesso catturata da logiche puramente tecnosoluzioniste che innescano forme di competizione industriale che, anziché calmierare i processi di aggravamento della crisi, li accelerano.
Forse è proprio in questo angosciante scorcio di anni Venti, e in questo 2025 che scollina tra il 2000 e il 2050, che – tra pandemie, guerre, genocidi, politica spazzatura, anomalie climatiche e afflati post-umani – il XXI secolo, fino a pochi anni fa ancora così tardo-Novecentesco, comincia finalmente a mostrare il volto con cui la Storia lo riconoscerà. E non sarà certo quello della fine della Storia. O forse sì, ma in un senso molto diverso da quello che immaginava Fukuyama.

Saggista ed editor. Per Luiss University Press ha pubblicato "La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo" (2023), "Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip" (2024) e "Velocissima. L’industria dell’auto da Henry Ford a Elon Musk" (2025). Cura la newsletter Macro su Substack.