Dove sono andati a finire i soldi

Francesco Farabegoli

Come l’industria musicale ha cercato di distruggere la musica e ricostruirla a sua immagine, lasciando ad artisti e ascoltatori il compito di raccogliere i pezzi e cercare di salvare il salvabile.

da Quants n. 16 (2024)

Qual è lo stato di salute del mercato musicale nell’anno del Signore 2024? Basta spulciare un attimo i report del settore per arrivare a una risposta definitiva e innegabile. Mai stato meglio!, col punto esclamativo. La storia di una vera e propria risurrezione, dopo anni e anni di crisi nera. Questo è quel che emerge, ad esempio, dal Global Music Report 2024 – State Of The Industry, ultimo rapporto IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), il quale non potrebbe essere più entusiasta: una crescita del settore pari al 10,2% nell’aggregato mondiale nell’ultimo anno. Dopo anni di crisi nera dovuta al file sharing e altre pratiche ugualmente perniciose, il settore ha trovato una quadra e i ricavi sono in continuo aumento. Nessun lato negativo, per giunta. Ok, il mercato dei download sta inesorabilmente perdendo fatturati, ma è compensato alla grande dall’ennesima grande performance dello streaming (+10,4%) e perfino del mercato fisico, CD e vinili, che nell’aggregato hanno registrato un fatturato in crescita del 13%. Per non parlare del synch, dei diritti di utilizzo della musica in film, pubblicità, serie TV e videogiochi: un settore che ha registrato un 4% di aumento (che si somma al 20% dell’anno precedente). E se annusate l’aria che si respira alle music week, ai panel dei festival musicali e negli open bar degli eventi di presentazione del prossimo tour di qualche novella popstar, concludere che le aspettative future sono rosee è un puro eufemismo. Questo ha portato un nuovo entusiasmo lungo la filiera, nuovi investimenti, attenzione ai movimenti culturali più cutting edge e una certa palingenesi anche nelle zone più calde delle classifiche, dove anche in Italia la classe dominante degli ultimi decenni è stata scalzata da una nuova generazione di popstar, gente che rispetto ai Ramazzotti e alle Pausini sembra quasi delegata del compito di farci vivere un sogno per interposta persona.

Nel presente l’industria musicale è il principale antagonista della musica, la sua nemesi, l’esatto opposto di quel che la musica è stata per tutta la sua storia.

Come tutto questo possa coesistere con il malumore che serpeggia in (letteralmente) qualunque altro evento dell’industria musicale è difficile da spiegare. È difficile, leggendo i rapporti come quello di IFPI, comprendere come sia possibile che, ad esempio, diversi artisti ultra-coccolati e con milioni di streaming mensili si vedano costretti ad annullare i loro tour per il mancato verificarsi delle condizioni economiche per sostenerli. O come possano moltiplicarsi in questo modo le testimonianze di artisti che hanno campato della loro musica per vent’anni, e oggi non arrivano a sbarcare il lunario. O come tantissimi lavoratori dello spettacolo si siano trovati più volte in piazza, in diverse parti del mondo, per mettere in campo le notevoli difficoltà economiche in cui il loro settore ha versato durante la pandemia. O come si stia sempre più delineando un quadro clinico disarmante per quello che riguarda una serie di patologie mentali derivate dalla permanenza di alcuni artisti all’interno del mercato musicale. O come si stia sempre più accentuando il gap tra i costi/tempi per realizzare un disco (sempre più bassi) e i costi/tempi per stamparlo (sempre più alti), un gap che inesorabilmente portando il mercato del vinile a una situazione di sostanziale impraticabilità al di fuori di alcune nicchie legate al lusso (collezionisti d’alto bordo, fanatici dell’hi-fi eccetera). E di come tutto questo si stia trasformando, lentamente ma inesorabilmente, in una sfiducia generale che serpeggia tra i consumatori della musica, trattati come una componente sempre più marginale del mercato di cui, a conti fatti, sono ancora i principali finanziatori. I prezzi dei concerti estivi sembrano testimoniare questa situazione di pre-collasso: biglietti al doppio o al triplo del prezzo che costavano una decina d’anni fa, come se per ognuno di quegli artisti fosse l’ultima possibilità per uscire a suonare e portare a casa qualche soldo, all’interno di un impianto narrativo nel quale ogni concerto medio-grosso che non va sold out entro 48 ore dalla messa in vendita dei biglietti viene percepito, sia all’interno della filiera che nelle riviste di settore, come uno smacco incancellabile. Come è possibile che un tale ottimismo e un tale pessimismo possano coesistere all’interno dello stesso settore?

La musica è nata dal basso e si è sviluppata sempre in maniera orizzontale, dando il meglio di sé quando ha saputo esaltare la sua caratteristica di condivisione tra pari.

Farei un passo indietro per provare a fissare un’idea, facilmente dimostrabile ma per qualche motivo difficile da comprendere, che ci serva come ideale punto di partenza: la musica e l’industria musicale non sono la stessa cosa. Più esattamente, nel presente l’industria musicale è il principale antagonista della musica, la sua nemesi, l’esatto opposto di quel che la musica è stata per tutta la sua storia. Certo, l’industria musicale è nata per servire la musica, per diffonderla e supportarla; ma una volta acquisita una vita propria al di fuori della musica stessa, è stata costretta a sconfessare la propria ragion d’essere e trovarne un’altra, formalmente identica ma radicalmente diversa nella sostanza: creare una musica ex-novo, una propria idea di musica, su cui l’industria e solo l’industria sia in condizione di esercitare il controllo assoluto – e quindi produrla e diffonderla alle proprie condizioni, per quanto ciniche disumane e paradossali possano apparire.

La musica è nata più o meno 45mila anni fa. Per quanto ne sappiamo è nata in forme ritmiche, legate a strumentazioni informali e di fortuna, e nelle successive evoluzioni ha iniziato lentamente a strutturarsi sia tecnicamente (i primi strumenti musicali a fiato, le prime codifiche tecniche) che socialmente, diventando una componente di riti religiosi e celebrazioni sociali. Su questa base di condivisione ritualistica la musica ha segnato l’intero arco del suo sviluppo, generando micro-musiche molto ben localizzate nel territorio e condivise attraverso il sapere popolare. In altre parole la musica è nata dal basso e si è sviluppata sempre in maniera orizzontale, dando il meglio di sé quando ha saputo esaltare la sua caratteristica di condivisione tra pari. Ma questa divisione, cinquantamila anni dopo lo svolgersi dei fatti, è espressamente proibita dalla legge. Poniamo ad esempio che mercoledì prossimo un gruppo di amici percussionisti decida di suonare nel parchetto davanti a casa mia, e che gli abitanti delle case attorno al parchetto decidano di scendere a godersi il concerto, magari organizzando una festa del vicinato, condividendo il vino i ravanelli la piadina e il formaggio che ognuno tiene in casa. Una normalissima festicciola tra conoscenti, sviluppatasi attorno alla musica. Quasi banale, senza dubbio inoffensiva. Ma è probabile che a questa normalissima festicciola possa intervenire qualche poliziotto, magari in tenuta antisommossa, per rimuovere con la forza musicisti e tamburelli. O magari un delegato della Società Italiana Autori Editori a richiedere il pagamento di un “diritto”, e perché no, qualche controllo della Guardia di Finanza, il controllo dei volumi e i NAS dei Carabinieri in cerca di tracce di escherichia coli nello stracchino della mia vicina di casa. Come si possa essere arrivati al punto che la forma più basilare, primigenia e inoffensiva di musica sia percepita da chiunque come una barbara violazione delle regole del vivere civile è sostanzialmente inspiegabile, se non ipotizzando un’acquisizione ostile dell’idea di musica da parte dell’industria musicale, e del necessario lavaggio del cervello che segue quest’acquisizione, e dei miliardi di dollari o euro investiti per far accettare a chiunque l’assunto che ogni cosa musicale succeda fuori dall’industria sia sbagliata e illegale. Da questo punto di vista non sembra più così assurda, ad esempio, la recente stretta del cosiddetto “decreto-rave” (articolo 633-bis del Codice Penale Italiano, dicembre 2022): quella che ai tempi fu additata da molti come espressione giuridica della cultura autoritaria alla base di questa maggioranza di governo, a distanza di qualche tempo sembra più l’incarnazione giuridica di una continuità d’intento assolutamente bipartisan: i free party (o rave o comunque li vogliate chiamare) sono la forma più organizzata di raduno musicale non organizzato, quella più in vista, e di conseguenza la più pericolosa, perché negano l’ineluttabilità di una condivisione musicale che continua ad esistere senza che nessuno la possa controllare all’interno del mercato di riferimento; e credo che se 45mila anni fa l’avessero immaginato, ci avrebbero pensato bene prima di iniziare a battere a tempo quella tibia di animale sul tronco.

Dei soldi che compongono il fatturato del “settore musica”, quelli che gli ascoltatori versano agli artisti sono una percentuale irrisoria.

La musica è un bene di scambio relativamente semplice. Alcune persone amano ascoltarla, alcune persone amano suonarla; i due gruppi di persone entrano in contatto in modi diversi, e in quell’incontro avviene uno scambio che – alle volte – può essere monetario. Guardando ai fatturati del mercato della musica odierno, la quantità di danaro generata da questo scambio diretto è irrisoria. Parafrasando: dei soldi che compongono il fatturato del “settore musica”, quelli che gli ascoltatori versano agli artisti sono una percentuale irrisoria. Il resto di quei soldi serve ad annaffiare un ecosistema che l’industria musicale ha costruito attorno a sé, per garantire (come accennavo sopra) la sua stessa sopravvivenza. Questo non è necessariamente qualcosa di negativo o ingiustificato: registrare la musica, stampare la musica e distribuirla nello spazio fisico è stato sempre oneroso, e l’industria musicale è riuscita a portare la musica (una certa musica, quantomeno) in luoghi che prima dell’industria musicale era impensabile raggiungere. All’interno di questo sistema produttivo/distributivo si è andata a creare progressivamente una struttura sempre più complessa e labirintica di intermediari, faccendieri e specialisti, una struttura la cui frammentazione rende oggi impossibile giustificarla sulla base del solo commercio della musica (una cosa simile a quel che è successo negli ultimi decenni nel mercato dei prodotti finanziari complessi). E quindi il prodotto-musica è stato reso più complesso: alla musica è stato aggiunto ad esempio il mito della musica (pensate ai Beatles, buon gruppo per carità, che ogni anno stampa un nuovo qualcosa in vista delle feste natalizie). È stato creato l’evento musicale, e cioè un raduno sociale in cui tutti i presenti sono lì per la musica, ma nel quale al contempo la musica sembra comunque svolgere un ruolo di esca e poco più – a un grande festival estivo è abbastanza evidente che siano gli stessi musicisti a svolgere il ruolo di intermediari, e che quel che è davvero venduto è una sorta di esperienza, spesso al limite delle capacità umane di sopportazione (caldo, folle sterminate, token, birra cattiva, gabinetti chimici). La complessificazione del prodotto ha influito sulla nostra percezione di esso, in modi che anche solo trenta o quarant’anni fa sarebbero stati impensabili. Quindi ad esempio oggi si può essere fan totali dei Depeche Mode senza avere alcun interesse per il synth pop, un po’ perché i Depeche Mode hanno scavalcato le barriere dei generi ma soprattutto perché il prodotto-Depeche Mode, nel momento in cui viene venduto, divide gli introiti in un modo molto più efficiente del prodotto-synth pop. Questo processo di branding sempre più intenso e insensato della musica non è così diverso da quel che succede in altri settori del consumo contemporaneo, naturalmente. E del resto la mancanza di una relazione diretta tra la prosperità di un settore e la prosperità di chi in quel settore ci lavora è una piaga della contemporaneità che va ben oltre il bisogno di ascoltare dischi e canzoni. Guardare a quello che succede nella musica è semplicemente più interessante per due motivi: il primo è che la musica è vista ancor oggi come una sorta di impiego ideale, qualcosa che ha a che fare coi sogni di bambino; il secondo è che l’industria musicale, forte di una storia pluridecennale di sfruttamenti e prevaricazione regolati per contratto, non ha quasi mai dovuto preoccuparsi dell’intrusione di sindacati, associazioni di categoria e simili amenità. Artisti e band sono abituati a competere con i loro pari, a pensarli come acerrimi nemici e concorrenti diretti: un atteggiamento strutturato e mai discusso, che ha contribuito in maniera fondamentale alla mancata creazione di una solidarietà di categoria che in quasi tutti gli altri settori, a certi livelli, sembra scontata.

Artisti e band sono abituati a competere con i loro pari, a pensarli come acerrimi nemici e concorrenti diretti: un atteggiamento strutturato e mai discusso, che ha contribuito in maniera fondamentale alla mancata creazione di una solidarietà di categoria che in quasi tutti gli altri settori, a certi livelli, sembra scontata.

Tutte queste cose fanno sì che nella quotidianità dell’industria musicale avvengano cose completamente prive di senso per ragioni che dal punto di vista della logica sembrano completamente assurde. Cose che succedono anche nelle parti più emerse e in bella vista del mercato musicale. Un esempio clamoroso sono le Taylor’s Version di Taylor Swift. I negoziati che hanno seguito il cambio di etichetta della più grande popstar oggi attiva hanno messo sul mercato i master dei suoi primi dischi (nel senso dei diritti economici legati alle registrazioni); l’artista ha tentato invano di comprarli, e dopo che l’accordo è saltato ha semplicemente deciso di ri-registrare integralmente gli album, creando dei veri e propri doppioni, dei falsi più veri del vero su cui può vantare un controllo completo. Ma se nel caso di Swift la contesa tra diritti d’autore e diritti di scambio si è risolta in un dozzinale braccio di ferro, appena sotto quel livello di esposizione è un bagno di sangue. La classe media dell’artigianato musicale è in ginocchio, grazie a oziosissime questioni legate alla spartizione degli introiti nello streaming, alla totale oscurità nella quale le royalty vengono spartite e a una serie di contratti (a volte vecchi di decine di anni) su cui gli artisti non hanno diritto di parola. Per giunta in un sistema economico che in una delle sue parti fondamentali (lo streaming) funziona in maniera poco diversa da un ponzi scheme. Portali come Spotify incamerano una quantità insensata di soldi sotto forma di abbonamenti premium e inserzioni; vengono regolarmente accusati dagli artisti di pagare troppo poco in termini di royalty, e i loro budget in costante perdita sono salvati dalle performance sul mercato azionario (sempre meno entusiasmanti, peraltro). Una delle tante apocalissi imminenti nel mercato musicale, così come percepito da analisti indie, consumatori e addetti ai lavori. Il sistema dello streaming sembra contemporaneamente accontentare tutti e scontentare tutti. Il mercato fisico, nominalmente in aumento, ha già ricevuto un centinaio di estreme unzioni. Quello dei download è morto e sepolto. Il tutto mentre i fatturati del settore continuano a migliorare, altri artisti di fascia media annunciano di essere costretti ad annullare il tour per problemi economici, altri gruppi si sciolgono per cercare di rimettere in piedi i pezzi dopo essere finiti in ospedale per mental breakdown. Ripeto la domanda iniziale: qual è lo stato di salute del mercato musicale nell’anno del Signore 2024? Se non vi spiace, mi prendo un secondo per pensarci.

Romagnolo, classe 1977, scrive di musica. Collabora con Rumore e tiene una newsletter intitolata "Bastonate per Posta".