The problem with music

Francesco Farabegoli

La vita e le opere di Steve Albini: un uomo che ha provato a mostrare al mondo un altro modo di vivere la musica.

da Quants numero 12, 2024

«Ogni volta che parlo con una band che sta per firmare per una grossa etichetta, mi ritrovo sempre a pensare a loro in un particolare contesto. Mi immagino un fossato, largo circa un metro e profondo un metro e mezzo, lungo una cinquantina di metri e pieno zeppo di merda puzzolente. Mi immagino queste persone (alcuni sono miei buoni amici, altri li conosco solo di vista) a un capo di questo fosso. Dall’altro lato mi immagino un anonimo galoppino dell’industria musicale: tiene in mano una penna stilografica e un contratto sul punto di essere firmato. Nessuno riesce a vedere cosa c’è stampato di preciso sul contratto. È troppo lontano, e i miasmi esalati dalla merda hanno effetto lacrimogeno. Il galoppino urla alla gente dall’altro lato: “Il primo che riesce ad attraversare il fosso a nuoto ha diritto di firmare il contratto”. Tutti si tuffano e iniziano a nuotare come pazzi per arrivare dall’altra parte. Due persone arrivano in fondo a pari, e così iniziano a lottare furiosamente, prendendosi a unghiate e spingendosi la testa l’un l’altro sotto la merda. Alla fine uno dei due si arrende, e rimane solo un contendente. Sta per prendere in mano la penna, ma il galoppino dice “Credo che tu non sia pronto e ci sia bisogno di un altro po’ di lavoro. Tuffati ancora, per favore, e rifatti il fosso all’indietro”. E lui, ovviamente, si tuffa e inizia a nuotare».

Il passo viene da un articolo del novembre 1993 intitolato The Problem With Music. Nevermind dei Nirvana, uscito due anni prima, aveva spaccato in due la storia del rock indipendente americano. Il successo improvviso e completamente fuori scala della band di Kurt Cobain era il frutto inatteso di quello che alcune grandi etichette dell’epoca consideravano un oculato investimento di lungo periodo: mettere sotto contratto qualche gruppo fuoriuscito dal sottobosco post-hardcore degli anni Ottanta. Con budget di registrazione non eccelsi e spese promozionali ridottissime avrebbero potuto assicurarsi band con un pubblico fedele, che – alle giuste condizioni – sarebbe tornato per più dischi. Poi, improvvisamente, il successo sterminato dei Nirvana aveva creato il bisogno di mettere sotto contratto gruppi simili a loro: stessa musica, stessi vestiti, stesso atteggiamento, stesso pubblico (in crescita esponenziale). In realtà i Nirvana erano espressione di un network musicale, di una rete la cui diffusione era già sterminata: centinaia di piccoli gruppi che operavano perlopiù a livello locale, e una struttura di supporto fatta di amicizie e micro-imprese che aveva permesso a molti di loro di farsi ascoltare in giro per l’America e oltre. Si trattava semplicemente di capire chi valesse la pena mettere sotto contratto, buttare sul piatto abbastanza soldi da sciogliere le riserve e aspettare che l’investimento pagasse i dividendi. Guardando alle cose da un punto di vista manageriale, il rock indipendente era semplicemente un asset di cui ci si aspettava un incremento di valore. La mania intorno al grunge giustificava investimenti importanti, in giro erano volate tante promesse e l’entusiasmo di tutti era alle stelle. Una bolla.

Steve Albini ha passato la sua intera esistenza a costruire ponti e a bruciare ponti. La sua etica del lavoro era cucita su una vita intera di passioni, interessi e ossessioni che ha spesso disconosciuto ma mai negato.

La rivista che pubblica The Problem With Music si chiama The Baffler, magazine la cui redazione in quel momento ha sede a Chicago. La principale caratteristica della rivista è di non mettere sotto copyright i propri articoli, e quindi permetterne la riproduzione in altre testate giro per il mondo. Colui che firma l’articolo è un musicista e ingegnere del suono, anche lui di stanza a Chicago, di nome Steve Albini. Ha avuto una formazione accademica da giornalista e un passato da fanzinaro/critico musicale in giro per la stampa mondiale (leggendaria una recensione di Spiderland degli Slint su Melody Maker, che inquadra con precisione ciò che il disco sarebbe diventato soltanto molti anni dopo la sua uscita), ma da tempo la sua attività giornalistica è diventata a malapena un passatempo. L’articolo però verrà letto da tantissime persone, conoscerà una straordinaria diffusione negli anni successivi e ancora oggi, a trent’anni di distanza, viene discusso e analizzato. Non è affatto esagerato dire che The Problem With Music è, a sua volta, uno spartiacque: l’inizio di una nuova consapevolezza all’interno del rock alternativo statunitense. Se Nevermind aveva fatto gonfiare la bolla, The Problem With Music è il primo tentativo di farla esplodere in sicurezza e limitare i danni.

Un assunto piuttosto diffuso nell’underground degli ultimi quarant’anni è quello secondo cui chi segue la scena indipendente è ostile, a prescindere, agli artisti e ai gruppi che si fanno coinvolgere nel mondo major. E che quindi le riserve di una band indipendente a firmare con una grossa etichetta sono soprattutto una questione di etica, o di galateo: l’artista ha paura di farsi dare del venduto dai suoi fan di vecchia data, prima di riuscire ad attirare un numero sufficiente di neofiti. Se guardiamo alla storiografia della musica indipendente non abbiamo problemi a constatare che questo assunto di partenza sia falso, o comunque molto parziale. Nei quasi quarant’anni che vanno dal primo disco degli Hüsker Dü su Warner Bros. (1986) a oggi ci sono stati artisti ripudiati senza pietà dalla comunità indipendente e artisti per i quali l’amore non è mai scemato. Ci sono stati, allo stesso modo, esempi di artisti che hanno condotto la propria carriera major in maniera impeccabile e di artisti che sono rimasti nel mondo indipendente e hanno commesso scorrettezze. L’idea che quello della comunità indipendente sia oscurantismo fine a sé stesso è stata portata avanti soprattutto dai neofiti del genere, o da ex-membri che per qualche motivo sono stati oscurati. Con The Problem With Music, Steve Albini bypassa questo approccio. Il suo articolo contiene un piccolo riassunto di quelli che sono i più prevedibili scenari a cui una band andrà incontro una volta entrata in contatto con il mondo delle multinazionali della musica: scout compiacenti assoldati all’interno della comunità indie, spesso con un cursus honorum di un certo livello; oscure lettere di intento, avvocati di dubbia moralità, contratti di difficile interpretazione e, soprattutto, un agghiacciante conto economico di quello che sarà il futuro della band. La simulazione di Albini considera un gruppo di successo, con un disco che venderà circa 200mila copie, e sarà realizzato in certi studi e servendosi di gente ‘affidabile’ all’interno della struttura. La conclusione è amara: il disco ha avuto successo, l’etichetta ha incassato un cospicuo utile netto, la band ha guadagnato pochissimo e per qualche ragione è in debito con la label.

Nel momento in cui l’articolo esce, è una specie di doccia fredda. A maggior ragione perché è scritto da quello che, suo malgrado, in quel periodo è il più controverso produttore artistico del mondo. Da appena due mesi è uscito il disco più famoso a cui ha lavorato, In Utero. Kurt Cobain non ha mandato giù i compromessi che i Nirvana hanno dovuto accettare per il loro esordio major e ha deciso di produrre il disco in autonomia, assoldando un ingegnere celebre per lavorare con suoni scarni e non mettere mai il becco sulle decisioni artistiche della band.

Gli Shellac suonano per conto loro, registrano in tempi rilassati, non usano una struttura di supporto (niente manager né uffici stampa né niente del genere), non promuovono i loro dischi, non organizzano tour estesi. Opereranno per trent’anni secondo le regole informali che si sono dati nei primi giorni d’attività.

Steve Albini ha passato la sua intera esistenza a costruire ponti e a bruciare ponti. La sua etica del lavoro era stata cucita su una vita intera di passioni, interessi e ossessioni che ha spesso disconosciuto ma mai negato. The Problem With Music è la principale emanazione di una di queste ossessioni: una visione equo-solidale della musica a cui si è donato anima e corpo per tutto il tempo in cui è stato attivo. La storia musicale di Albini inizia a Missoula, in Montana: impara a suonare durante la convalescenza di una frattura, comincia a far parte di qualche band locale, si trasferisce a Evanston e poi a Chicago, viene coinvolto dalla scena punk rock. La sua prima incarnazione musicale è un progetto chiamato Big Black inizialmente composto da lui, una drum machine e l’obiettivo di suonare più riprovevole, odioso e violento del già piuttosto severo standard hardcore punk del periodo. Il progetto durerà diversi anni, si trasformerà in una vera e propria band, produrrà un paio di dischi da isola deserta e un’influenza fondamentale per tutto il rock estremo (industrial, noise e affini). Più di tutti, con i Big Black Albini entra in contatto da assoluto protagonista con la mentalità proto-socialista del circoletto punk del periodo: una rete di band, promoter e semplici appassionati che fanno succedere le loro cose nella totale indifferenza (spesso nell’aperta ostilità) della cintura di locali e negozi legit del periodo. Il suo racconto di quegli anni, fornito a spizzichi e bocconi in un numero sterminato di panel e interviste concessi praticamente a chiunque gliel’abbia mai chiesto, è forse il più divertente e rivelatorio di un’epoca storica il cui ossessivo bisogno di celebrarsi ha oltrepassato più volte il labile confine tra mitologia e stronzata. I racconti di Albini parlano di una rete di parassiti del sistema, normali colletti bianchi che frodavano i datori di lavoro per ottenere qualche cosa senza pagare. Jam econo, nella definizione dei Minutemen. Lui stesso si trova impiegato in un’azienda che stampa t-shirt non-originali di grandi gruppi musicali (come dice lui, «una ditta che vendeva magliette di David Bowie o degli Stray Cats in chioschi e negozi finché non arrivava una lettera di diffida, e a volte anche dopo che era arrivata»), nella quale rimane spesso dopo l’orario di chiusura a stampare, all’insaputa del datore di lavoro, magliette per le band dei suoi amici. È uno strano mondo in cui l’etica del lavoro e l’arte di arrangiarsi si mescolano. La necessità di registrare la sua musica gli insegna i rudimenti di quello che diventerà il lavoro della sua vita: registrare musica. Offrirà i suoi servizi di lì a poco, utilizzando attrezzature di fortuna e una naturale curiosità per l’aspetto scientifico della cosa. Lo scioglimento dei Big Black porta alla nascita di un progetto effimero di nome Rapeman, e intanto il suo lavoro di tecnico del suono diventa sempre più serio. Lavora nello scantinato di casa, accumulando nel tempo attrezzature, o in giro per studi altrui nei quali ha buone esperienze. Quando nel ’93 si trova a registrare PJ Harvey e i Nirvana, il suo cursus honorum è già quello di un mammasantissima del rock indipendente. Ha benedetto con un suono vibrante e rustico il primo album dei Pixies, ha registrato l’evoluzione degli Slint in quello che di lì a qualche anno verrà definito “post-rock”, battezzato l’esordio di Will Oldham a nome Palace Music. Il suo più grande orgoglio del periodo è probabilmente essere l’uomo di fiducia dei Jesus Lizard, l’uomo che registra dischi come Goat. Al contempo, ha già una lista di nemici piuttosto lunga: gente che ha stroncato sulle colonne di Matter, ex-amici con cui ha avuto dissapori, e personaggi che conducono i loro business in maniera reprensibile (tra cui numerosi colleghi colpevoli di accettare punti percentuali sulle royalty del disco, una prassi all’epoca molto comune).

The Problem With Music è il manifesto di un’etica del lavoro che si è formata in quel periodo. Occorre registrare un’altra contemporaneità all’articolo: a ottobre ’93, un mese prima, era uscito il primo EP degli Shellac, rock band della domenica messa in piedi da lui con un paio di amici.Un gruppo completamente fuori dalle logiche del mercato, che rifiuta la maggior parte delle consuetudini legate all’essere una band e che opera orgogliosamente al di fuori dell’universo musicale. Gli Shellac suonano per conto loro, registrano in tempi rilassati, non usano una struttura di supporto (niente manager né uffici stampa né niente del genere), non promuovono i loro dischi, non organizzano tour estesi. Opereranno per trent’anni secondo le regole informali che si sono dati nei primi giorni d’attività. Accompagneranno Albini nella seconda fase della sua carriera. Una fase che inizia in quel periodo, e che in realtà – nella sua ricostruzione – è molto faticosa.

L’ultimo ventennio di attività di Steve Albini si è svolto in un contesto di relativa pace interiore, che sembra avere in qualche modo chiuso il ciclo di un’esistenza complessa e passata nella sua interezza a combattere dalla parte dei buoni.

L’etichetta dei Nirvana aveva preso molto male i risultati di quello che era stato interpretato come un mezzo capriccio della band. Quando Cobain e gli altri avevano consegnato i master di In Utero, a qualcuno era venuto un mezzo infarto. Il disco era stato giudicato impubblicabile e da lì era partito un tira-e-molla che, come effetto collaterale, aveva fatto finire Albini nell’occhio del ciclone (era uscito fuori il suo compenso, spiattellato a mezzo stampa e giudicato da molti eccessivo; si era messo l’accento su certe scelte produttive e qualcuno aveva suggerito un’influenza nefasta sulla band). Negli anni successivi Albini avrebbe avuto molte difficoltà a sbarcare il lunario. Nel giro major il suo nome era quello di un appestato, oltretutto associato a un sostanziale fallimento artistico; nel giro indie la sua posizione era stata pesata da qualche integralista e, a quel tempo, non ne era uscita pulitissima. Il grosso delle band con cui lavorava abitualmente era a cavallo tra le due comunità: alcuni avevano firmato con grosse etichette, altri stavano aspettando l’occasione giusta. Entrambi si tenevano a debita distanza.

«A questo punto la band ha onorato un quarto degli impegni richiesti dal suo contratto e fruttato all’industria musicale più di 3 milioni di dollari, ma nel conteggio risultano 14mila dollari di passivo sulle royalty. Ciascuno dei membri della band ha messo in tasca all’incirca un terzo di quel che avrebbe guadagnato lavorando in un supermercato, e in cambio ci ha guadagnato di viaggiare dentro a un tour bus per un mese. Il conto per il prossimo album sarà più o meno uguale a questo, a parte il fatto che l’etichetta insisterà perché la band ci spenda più tempo e soldi per registrarlo. E siccome il disco precedente non ha mai “recuperato” i costi, la band non avrà nessun potere contrattuale sull’etichetta, e obbedirà. Anche il prossimo tour sarà uguale al precedente, a parte il fatto che l’anticipo sul merchandising è già stato pagato e la band, in maniera piuttosto misteriosa, non avrà ancora maturato nessuna royalty sulle sue t-shirt. Forse i produttori di magliette hanno trovato il modo di contare i soldi come li contano quelli dell’etichetta discografica. Con tutta probabilità, alcuni dei vostri amici sono già nella merda fino a questo punto».

A rendere The Problem With Music un testo fondamentale per la comprensione delle dinamiche del periodo non era stata tanto la ferrea logica con cui Albini portava avanti la sua simulazione, quanto piuttosto l’evidenza empirica di quello che stava succedendo nel circoletto. La moda del grunge stava scemando, lasciando il posto al corporate punk o a qualunque altra cosa funzionasse in quel periodo. Dalla metà degli anni Novanta i fallimenti major di molti gruppi storici, portati spesso allo scioglimento o a sfiancanti battaglie legali, avevano iniziato a far girare qualche testa dalla parte di Steve Albini. Il quale, naturalmente, era riuscito in qualche modo a evitare la bancarotta e rimanere dentro al giro. Perfino il mondo major tornerà a bussare alla sua porta. Lo farà inizialmente nella persona di Jimmy Page, che si è rivolto a lui per un reunion album assieme a Robert Plant – ha raccontato di avere ascoltato dischi da lui registrati e di averci trovato dentro il suono che cercava disperatamente di ottenere per i dischi dei Led Zeppelin, poi gli Stooges e molti altri. Inizia qui una fase adulta di Steve Albini, in cui il musicista e tecnico del suono cercherà (in tempi non sospetti) di trovare un modello economico alternativo a quello dell’industria. Un progetto estremamente ambizioso e portato avanti nel silenzio assoluto. Un progetto che passa per diverse fasi. La prima è la creazione degli Electrical Audio, lo studio di registrazione dei suoi sogni, progettato/costruito da lui e dal suo circolo, sempre a Chicago, in maniera certosina: una risorsa progettata per fornire un supporto tecnico di alto livello a gruppi piccoli e medi, con prezzi che rimarranno accessibili lungo tutto l’arco della sua esistenza. La seconda è l’insistenza ossessiva a registrare in analogico, per fornire alle band con cui lavorava una registrazione la cui accessibilità non sia soggiogata alla tecnologia digitale (e spesso non libera) della nostra epoca. La terza è lo spostamento su un canale commerciale medio-piccolo in cui conduce quasi tutte le sue imprese, a partire dalla band con cui ha suonato per trent’anni.

Mentre il mondo major pubblica rapporti entusiasti di fatturati in costante aumento e servizi sempre nuovi per diffondere la musica e supportare gli artisti, le notizie dal mondo reale sono di festival cancellati, band che non riescono a sostenere economicamente i loro tour, locali che chiudono e dischi che non si vendono più.

In maniera piuttosto curiosa, anche questa impresa inizia simbolicamente alla fine del ’93, un mese dopo In Utero e un mese prima di The Problem With Music. È nell’ottobre di quell’anno che arriva nei negozi il primo EP di una band chiamata Shellac Of North America (o più comunemente Shellac, come dicevamo). Un progetto part-time che ha origine in maniera un po’ fortuita: Albini si ritrova a suonare il basso nella backing band di Peter Conway (un progetto solista chiamato Flour, quattro dischi di area industrial-noise da riscoprire), assieme a un pittoresco batterista di Minneapolis di nome Todd Trainer. Finito il progetto, si reincontrano per jammare assieme, chitarra e batteria, e le cose funzionano abbastanza da convincerli a mettere insieme una vera e propria rock band. Il contemporaneo scioglimento dei Rapeman, il progetto precedente di Albini, ha lasciato tanti strascichi e qualche lezione importante. In quel momento nella vita di Steve Albini è entrata un’altra persona importante. È il bassista dei Volcano Suns, un tale di nome Bob Weston: ingegnere elettrotecnico e punk rocker a tempo perso, sta pensando di andarsene da Boston. Albini sta ingrandendo il suo studio casalingo e cercando di portare qualche modifica tecnologica, ed è così che Weston si trasferisce a Chicago e diventa a tutti gli effetti il suo secondo. È coinvolto nelle prime prove della band, e le cose semplicemente funzionano. Per qualche motivo decidono che la band dovrà mettere insieme tutti i lati positivi delle precedenti esperienze dei musicisti, rifiutando categoricamente tutto quello che aveva portato cose spiacevoli. La lista è lunghissima e va da aspetti puramente tecnici (non usare casse spia, non perdere più di mezz’ora a sistemare i suoni live…) a questioni di principio. Esempio: gli Shellac non promuovono i loro dischi. Non mandano copie in anticipo alla stampa per le recensioni, così da non dover creare un circolo di ‘introdotti’ che godono di qualche privilegio sulla loro musica; per lo stesso motivo non accreditano giornalisti ai concerti, eccetera. Concordano personalmente le date dei tour, spesso tornando nei posti dove hanno avuto buone esperienze in passato. La lista di stranezze e amenità della band è lunghissima e tutta impostata a evitare alla band situazioni di imbarazzo. L’attività degli Shellac ha prodotto in 32 anni di attività una discografia di sei album ufficiali più qualche EP e un disco (The Futurist) stampato come regalo per gli amici e mai distribuito. Tutti i loro dischi sono usciti sulla stessa etichetta, la Touch&Go di Corey Rusk, con cui Albini ha un rapporto di amicizia ultraquarantenne.

L’ultimo ventennio di attività di Steve Albini si è svolto in un contesto di relativa pace interiore, che sembra avere in qualche modo chiuso il ciclo di un’esistenza complessa e passata nella sua interezza a combattere dalla parte dei buoni. Il modello economico di cui è diventato incidentalmente tra i principali alfieri ha finito, altrettanto incidentalmente, per spopolare nella scena musicale contemporanea. In questo periodo Steve Albini ha espresso un’infinità di volte il suo entusiasmo per tutti i vantaggi che internet ha portato alla musica, in termini di accessibilità e stile. È riuscito a sopravvivere come tecnico del suono in un’epoca nella quale molti hanno dovuto cambiare lavoro; l’ha fatto tenendo i prezzi bassi e mettendosi al servizio delle esigenze che i gruppi di oggi hanno avuto. Ha continuato a suonare con gli Shellac. Era previsto che partissero per un breve tour inglese quando il 7 maggio 2024 il mondo ha ricevuto la notizia, totalmente inattesa, della morte di Steve Albini. La sua dipartita è stata salutata con rara commozione dal mondo della musica, che gli ha riconosciuto unanimemente un ruolo di guida spirituale da cui forse il chitarrista dei Big Black sarebbe stato imbarazzato.

Non è infrequente, negli ultimi tempi, incontrare discussioni catastrofiste sullo stato del mercato musicale. Mentre il mondo major pubblica rapporti entusiasti di fatturati in costante aumento e servizi sempre nuovi per diffondere la musica e supportare gli artisti, le notizie dal mondo reale sono di festival cancellati, band che non riescono a sostenere economicamente i loro tour, locali che chiudono e dischi che non si vendono più. Il divario tra il mondo fatato dei grandi numeri della discografia emersa e la realtà quotidiana di chi tira la carretta non è mai stato così ampio. Rileggere oggi The Problem With Music fa bene alla salute, ed è facile ritrovare nella distopia messa giù da Steve Albini i prodromi del sistema di ‘servizi’ (promozione, management, booking, sync o qualunque altra parola venga usata oggi) che si intasca quasi tutti gli introiti della musica odierna senza lasciare agli artisti altro che le briciole. Rileggendo l’articolo si può quantomeno intravedere una strada di sassolini bianchi che Steve Albini non ha mai smesso di segnare lungo tutta la sua vita. Molti han deciso di seguirla, buttare qualche altro sasso e cercare di rendere il mondo della musica un po’ più equo per chi lo vive ogni giorno. In questo, soprattutto, molti di noi considerano un privilegio averlo avuto come guida e compagno di viaggio.

Romagnolo, classe 1977, scrive di musica. Collabora con Rumore, ha una newsletter intitolata Bastonate per Posta, un canale telegram (Nuova Musica Il Venerdì) e la pagina instagram Il Basso Sfasciato.