Insignita a ottobre del premio Nobel per la letteratura, è la prima scrittrice francese a ottenere questo riconoscimento. Ripercorriamo la sua vita, il suo percorso letterario, la ricerca di senso della sua scrittura, le tematiche di una carriera in cui opere e vita si mescolano inestricabilmente, e il perché di un premio così importante.
da Quants numero 0, febbraio 2023
Anne Thèrese Blanche Duchesne nasce a Lillebonne, in Normandia, il primo settembre del 1940; i suoi genitori gestiscono un bar-épicerie in una cittadina chiamata Yvetot. È figlia unica, nonché la prima, in famiglia, a frequentare l’università; studia lettere prima a Rouen, poi a Bordeaux, prepara il Capes e l’agrégation, i due concorsi pubblici che in Francia bisogna superare per diventare insegnante. Quando ha circa vent’anni, scrive il suo primo testo di finzione; lo chiama L’albero, in riferimento alla frase dello scrittore e archeologo francese Prosper Merimée, che dice “Bisogna imparare a vivere come un albero”. Lo spedisce a diversi editori che ammira, tra cui Seuil, ma nessuno si mostra interessato a pubblicarlo. Quei rifiuti le sembrano un segno, la dimostrazione che lei, nata in un milieu “inculte”, non è destinata alla carriera letteraria.
Da allora, per diverso tempo, non scrive più; in compenso diventa prof, comincia a lavorare, conosce e sposa Philippe Ernaux, uno studente di scienze politiche e futuro fonctionnaire publique con cui avrà due figli maschi, Éric e David. Per il lavoro di Philippe, si trasferisce nel comune di Cergy, Île-de-France, a nord ovest di Parigi. Lì, nella casa in cui abita ancora oggi e di cui anni dopo dirà che “la stava aspettando”, nei ritagli di tempo inizia a scrivere il suo primo romanzo, Gli armadi vuoti. Lo fa di nascosto da tutti, quasi vergognandosi di quell’istinto a narrare che non l’ha abbandonata; lo finisce nel 1972, quando ha trentadue anni. Stavolta un editore lo trova, e non uno qualunque: il libro uscirà per Gallimard due anni dopo, firmato con quello che da lì in poi sarà il suo nom de plume, Annie Ernaux. Ecco che la sua vita da scrittrice ha inizio. E intanto quella da borghese apparentemente qualunque va avanti. Gli anni passano, Anne o per meglio dire Annie divorzia, smette di insegnare per dedicarsi solo alla letteratura. Nel 2022, cinquant’anni dopo e una buona ventina di opere più tardi, vince il Nobel per la letteratura, “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici della memoria personale”. A ottantadue anni, è la prima scrittrice francese a ottenere un tale riconoscimento.
Il Nobel viene assegnato dal 1901, e fino a oggi ha premiato solo sedici donne (Ernaux è la diciassettesima, nonché la sedicesima francese, otto anni dopo Patrick Modiano). Questo suo Nobel è stato da molti definito un premio “politico”, e senza dubbio lo è, per il momento storico e le tematiche che da sempre Ernaux tratta nel suo lavoro di scrittrice (il ruolo della donna, la vergogna e l’emarginazione sociale, il senso di inadeguatezza rispetto all’epoca e alla società in cui si vive). Eppure il Nobel a questa insegnante di provincia dall’esistenza tutto sommato innocua e dalla memoria così nitida da diventare feroce è per forza di cose anche anche un premio intimista, personale, profondamente umano, per la natura stessa della sua scrittura, per quello che i suoi libri lasciano al lettore dopo che li ha attraversati. È difficile scrivere o parlare di Annie Ernaux senza ritrovarsi a scrivere o parlare di noi stessi; i suoi testi sono ostinatamente, pervicacemente autobiografici, eppure uno dei suoi grandi talenti di narratrice sta proprio nel creare un senso di vicinanza, di convivenza talvolta quasi forzata col lettore, in questo suo riuscire a parlarci sempre e comunque di lei ma riuscire sempre e comunque a farsi specchio: di un’epoca, di una società, di un modo di essere donna o più in generale di stare al mondo.
Nel 2022, cinquant’anni dopo e una buona ventina di opere più tardi, vince il Nobel per la letteratura,”per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici della memoria personale”.
Nel Journal du dehors, uscito in Italia per Rizzoli nel 1994 col titolo di Diario dalla periferia, Ernaux ha scritto: «Mi sento un luogo di passaggio delle cose. Sono attraversata dalla gente, dalla loro esistenza, come una puttana. […] È all’esterno, nei passeggeri del metrò o della R.E.R., che è deposta la mia vita passata. Negli individui anonimi che non sospettano di possedere una parte della mia storia.”
Sebbene fosse già all’epoca affermata in Francia e tradotta in Italia, a quel tempo non è ancora la Annie Ernaux che conosciamo oggi: studiava la vita quotidiana della gente intorno a lei a Cergy, annotandone pose, dettagli, tentando di “esaurirla”, di catturarne l’anima un po’ come, vent’anni prima, Georges Perec aveva esaurito una piazza della rive gauche, ovvero osservandola nei suoi momenti più banali, comuni, apparentemente senza importanza. L’oggetto della sua scrittura era dunque ancora fuori di sé, dal suo mondo intimo e familiare, eppure si stava già preparando a diventare quello che è oggi e per cui è stata premiata, potente riflesso del mondo attraverso le sue stesse storie. Lette a distanza di anni, queste righe suonano come una dichiarazione d’intenti, una promessa per i libri che sarebbero venuti poi, in particolare a quello che forse resta il suo capolavoro, Gli Anni. Uscito in Francia nel 2008, il testo è un’opera mondo, un tentativo di riassumere l’esistenza per istantanee, un monumento al guardarsi dentro osservando fuori (e viceversa), a scandagliare il passato per capire il presente o, come lei stessa ha scritto in un altro dei suoi testi fondativi, Memorie di ragazza, a “esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto”.
Gli Anni e Memorie di ragazza, così come gli altri titoli di Annie Ernaux, in Italia hanno trovato il loro spazio grazie al lavoro del traduttore Lorenzo Flabbi e quello della casa editrice L’Orma, che a partire dal 2014 si sono dedicati alla sua riscoperta – o meglio alla scoperta, visto che nessuno si ricordava di lei da questo lato delle Alpi. Senza la cura linguistica di Flabbi e la dedizione editoriale del piccolo editore indipendente romano, il nome Ernaux sarebbe rimasto nei vecchi cataloghi Rizzoli degli anni Novanta, e oggi probabilmente sarebbe uno degli ennesimi premi Nobel di cui il grande pubblico sa poco e niente.
“Tutti mi chiedono quando ho letto per la prima volta Annie Ernaux”, ha detto Flabbi in un’intervista ad Alice Figini, giornalista culturale che a Ernaux ha dedicato la sua tesi di laurea. “La verità è che non lo ricordo. In Francia il nome di Ernaux era nell’aria, una di quelle persone che si conoscono per fama da sempre, come il presidente della Repubblica. Quindi davvero non riesco a ricordare la prima volta che l’ho sentita nominare. I suoi libri erano dappertutto, ho letto La Place e Les Armoires Vides trovandoli per caso in un appartamento condiviso.”
Una delle definizioni più esatte sul lavoro di questa scrittrice è contenuta proprio nel risvolto dell’edizione italiana de Gli anni, e recita così: “Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diviene la nostra vita?”. La frase, che in questo caso si riferisce al romanzo in questione, racchiude il senso profondo della narrazione che Ernaux ha costruito libro dopo libro. Quel “nostra” spiega molte cose, è una prima persona plurale che contiene lei e noi, lega chi scrive e chi legge in una stretta solida e inscindibile, come a dimostrare che non esistono vite davvero uniche, o davvero banali: chiunque, anche l’uomo più banale o la donna più comune, può ambire a farsi memoria collettiva, a scoprire se stesso negli altri, a cercare e magari anche scoprire un senso lì dove in apparenza si annidano solo ricordi sparsi e punti di vista. Un’acrobazia delicata, quella cui Ernaux si dedica da oltre cinquant’anni, che si regge sulla materia stessa in cui questi suoi libri sono scritti, con un passo e un tono contraddistinti da quella che lei stessa definisce un’«écriture plate»: una scrittura clinica, bianca, apparentemente neutra eppure sempre tagliente, mai neutrale, a tratti feroce.
Uno stile che non era presente nei suoi primissimi testi, che è andato affermandosi da Il posto in poi (uscito in Francia nel 1983, e il primo a essere pubblicato da l’Orma nel 2014), il romanzo che l’ha fatta scoprire al grande pubblico. Qui Ernaux traccia il ritratto di suo padre, un operaio divenuto commerciante che “non ha mai messo piede in un museo, leggeva solo Paris-Normandie, e si serviva sempre del suo coltellino Opinel per mangiare”, e ragiona sull’incomunicabilità tra il mondo operaio e quello intellettuale, sul non trovare un posto nel mondo come individui e come persone sociali.
È per forza di cose anche anche un premio intimista, personale, profondamente umano, per la natura stessa della sua scrittura, per quello che i suoi libri lasciano al lettore dopo che li ha attraversati.
Nel libro-intervista Ecriture comme un couteau, la scrittura come un coltello, a cura di Frédéric Yves-Jeannet, uscito per Gallimard nel 2011, Ernaux dice di aver iniziato a scrivere a sei anni, su un quadernetto Claire-Fontaine che aveva rubato nella drogheria dei suoi genitori a Yvetot. A quelle pagine di diario racconta che sarebbe dovuta andare a una festa dove ci sarebbe stato anche il bambino di cui era innamorata, ma non aveva niente di abbastanza bello da mettersi: passione amorosa e inadeguatezza sociale, due dei temi cardine della scrittrice, che sarebbero tornati poi in cento, mille forme diverse nei suoi testi successivi, che partono sempre e comunque da una ferita.
“There is a crack in everything. That’s how the light gets in”, cantava Leonard Cohen in “Anthem”. “C’è una crepa in ogni cosa: è da lì che entra la luce”, e qual è la ferita di Annie Ernaux?
Forse quel giorno del 1950 in cui origliando una conversazione di sua madre, ha scoperto di avere avuto una sorella maggiore, è morta di difterite, alla quale dedicherà poi L’altra figlia, (pubblicato da l’Orma nel 2011)? A leggere La vergogna, pubblicato in Francia nel 1997 e uscito in italiano nel 2018, si direbbe sia un lontano pomeriggio d’estate del 1952, in cui lei aveva dodici anni, e suo padre, in preda a un raptus, durante una lite più violenta delle altre ha cercato di uccidere sua madre. Ma basta aprire Memoria di ragazza e quel momento diventa l’estate del 1958 in cui, durante una vacanza in colonia, quella stessa ragazza, nel frattempo diventata sedicenne, viene abusata da uno degli educatori. Le verità è che non esiste una risposta giusta, e neppure una risposta sola. Ogni libro è un tassello di una identità che sembra mutare sempre, che ognuno interpreta come vuole, a partire dal suo stesso vissuto. E forse proprio per questa condanna al soggettivo, all’aleatorietà, Ernaux crede così tanto alle immagini. Le fotografie, e in generale gli oggetti tangibili, materiali, hanno una solidità che la memoria e le parole non potranno mai avere.
Ecco perché i suoi libri sono in parte, quasi sempre, libri visivi: lavorano e raccontano a partire da fotografie – instantanee, fototessere, vecchi scatti ripescati dal fondo di un cassetto, a partire dai quali Ernaux racconta, o tenta di ricordare, di rimettere insieme i pezzi, di guardare oltre il non detto, o al contrario oltre quello che è stato ripetuto così tante volte da aver perduto ogni mistero, ogni senso, ogni autorità. Non a caso “Tutte le immagini scompariranno” è la frase con cui si apre Gli anni, e la più grande minaccia per chi scrive, per chi prova a trattenere, a trasmettere e ricordare. Che non ci sia più nulla cui appigliarsi.”Proust ha scritto pressappoco proprio questo, che la nostra memoria è al di fuori di noi, in un alito di vento piovoso, nell’odore della prima fiammata dell’autunno, ecc. Fenomeni naturali che rassicurano, per il fatto che si ripetono, sulla permanenza della persona.”, scriveva Ernaux nel 1997, nelle pagine de La vergogna. “A me, e forse a tutti coloro che appartengono alla mia epoca, i cui ricordi sono legati a una canzone estiva di successo, a una cintura alla moda, a cose destinate a scomparire, la memoria non porta nessuna prova della continuità della mia esistenza o della mia identità. Mi fa sentire e mi conferma la mia frammentarietà e il mio far parte della storia.” Sembra farne una questione generazionale, ma in fondo non ci crede neanche lei: sa benissimo che ognuno si salva come può, e questo è soltanto un modo come un altro che ha trovato per sopravvivere al tempo e allo stare al mondo.