Last nite a band saved my life

Ana Grave

Il documentario “Meet Me in the Bathroom” racconta l’epopea musicale della New York di vent’anni fa. Dagli Strokes agli LCD Soundsystem, cosa è stata e cosa ha lasciato l’ultima (?) rivoluzione del rock’n’roll.

da Quants numero 0, febbraio 2023

Times Square, New York, 23 e qualcosa del 31 dicembre 1999. Bill Clinton, in frac e papillon, proclama: “l’alba di un nuovo millennio è davanti a noi, celebriamo il futuro”. Né lui, presidente democratico di prossima scadenza, né il milione di persone in piazza potevano in quel momento avere la minima idea di come quel futuro avrebbe presto presentato un conto salatissimo. Altro che millennium bug, in quel momento temuta distopia da romanzetto pulp. Non ci fu nessun black-out apocalittico: i sistemi informatici avrebbero continuato a funzionare, il mondo non si sarebbe paralizzato e poi spento come in un brutto film di fantascienza. Ma l’Armageddon era solo rimandato. Sarebbe piombato proprio su New York una mattina di settembre del 2001, dando la stura a un vaso di Pandora che tra guerre infinite, crisi economiche, emergenze climatiche, pandemie e tutto il resto ancora oggi è ben lungi dall’essersi svuotato. 

Chissà se a Times Square, in quel momento, erano a far festa anche i protagonisti di quella che proprio “all’alba di un nuovo millennio” sarebbe stata l’ultima epoca gloriosa del rock’n’roll, e in particolare di quello newyorchese. Oppure se, più probabilmente, erano a stonarsi ascoltando dischi dei Velvet Underground, degli Stooges o dei Modern Lovers. Un pugno di giovani musicisti che si conoscevano tutti tra loro, abituati com’erano a incrociarsi nei club underground di Manhattan e Brooklyn o in qualche party in appartamenti di Downtown che allora si potevano ancora affittare a prezzi umani. Una piccola enclave di aspiranti rockstar che avrebbe avuto un successo e una risonanza enormi nel giro dei successivi tre-quattro anni, per poi mestamente rifluire tra le pieghe di un decennio man mano indirizzatosi verso altri lidi. Eppure, per quei pochi anni quanto brillò quel microcosmo rock’n’roll: quasi quanto i fuochi d’artificio a Times Square di quell’inconsapevole Capodanno del 2000.

Strokes, Moldy Peaches, Yeah Yeah Yeahs, Interpol, LCD Soundsystem, Tv on the Radio, Rapture, Liars: eccoli, più o meno in ordine di apparizione, i personaggi principali di quell’epopea di più di vent’anni fa nonché di Meet Me in the Bathroom, il documentario di Will Lovelace e Dylan Southern ispirato all’omonimo libro della giornalista Lizzy Goodman (che a sua volta riprendeva il titolo di una canzone dal secondo album degli Strokes). Ripercorrere in un’ora e mezza di film la storia di queste band, focalizzandosi sull’attimo del loro big bang, significa in prima battuta realizzare quanto una fase storica della recente cultura pop sia in realtà tutto tranne che…recente. Ogni cosa, in Meet me in the Bathroom, sottolinea una distanza che – anche in quest’epoca in cui tutto appare come un eterno presente – improvvisamente ti rendi conto essere incolmabile. Le riprese di pessima qualità da videocamere anni 90, le schermate con i download da Napster, le canzoni, il suono, il look delle band e del pubblico dei concerti, l’innocenza mascherata da arroganza dei protagonisti, non ancora mediata dagli obblighi che il divismo social (parole come “influencer” erano ancora sconosciute) avrebbe imposto. E, forse, anche la stessa New York.

Un pugno di giovani musicisti che si conoscevano tutti tra loro, abituati com’erano a incrociarsi nei club underground di Manhattan e Brooklyn o in qualche party in appartamenti di Downtown che allora si potevano ancora affittare a prezzi umani.

Non era certo la prima volta che nella Big Apple esplodeva una scena rock che da sotterranea sarebbe diventata planetaria. Il precedente più ovvio, quello al quale quasi tutti i gruppi coinvolti guardavano con rispetto, nostalgia e più di un tentativo di imitazione, era quello della metà degli anni Settanta. Quando in una città in bancarotta, e nella fattispecie in un buco di locale sulla Bowery disseminata di homeless e ubriachi, covarono i germi della rivoluzione punk. Erano i giorni del CBGB’s e di coloro che da quelle quattro mura puzzolenti avrebbero (con gradazioni di successo diverse) conquistato il mondo: Patti Smith, Ramones, Talking Heads, Television, Blondie, Suicide, Dead Boys. Un nucleo di band accomunate dall’unità di tempo e luogo, e anche da un certo spirito “in opposition” rispetto al mainstream loro contemporaneo, ma diverse per influenze, stile, ambizioni. 

Stesso discorso per i loro emuli di venticinque anni dopo. Il garage-rock’n’roll degli Strokes era differente dal post-punk griffato e serioso degli Interpol che a sua volta nulla aveva in comune con il folk post-moderno, metropolitano e stralunato dei Moldy Peaches (il duo formato dai freak Adam Green e Kimya Dawson, antesignani di un genere inesistente poi catalogato alla voce “anti-folk”), la dance elettronica degli LCD Soundsystem non esattamente equiparabile al mash up tra Siouxsie & the Banshees e Led Zeppelin degli Yeah Yeah Yeahs così come allo sperimentalismo di Liars e TV on the Radio. Eppure tutti costoro erano legati allora e lo sembrano ancora di più oggi nel ricordo. Benché la maggior parte di questi artisti abbia continuato a fare musica e sia ancora attiva, è praticamente impossibile separarli nell’immaginario da quel contesto storico. È il destino di chi, spesso involontariamente, segna un’epoca. E di chi da quell’epoca, volente o nolente, è stato segnato.

In Meet me in the Bathroom l’inevitabile arriva dopo venticinque minuti di film: Manhattan sotto attacco, le Twin Towers che crollano, il mondo che cambia per sempre. L’11 settembre, con il suo corollario di guerre di vendetta (Afghanistan, Iraq) e paranoie securitarie, è stato il Vietnam di quella generazione. A un certo punto si vede Kimya Dawson che canta una ballata dolente durante una veglia a Ground Zero, e da quella ragazza squinternata con dei capelli impossibili, sorta di cartone animato vivente, emana a sorpresa tutta l’intensità ieratica di una Joan Baez a Woodstock. In un’altra sequenza c’è invece Paul Banks, frontman degli Interpol, che si fa riprendere mentre si aggira tra polvere e macerie raccogliendo fogli sparsi per terra, in una involontaria anticipazione di quella smania di documentare sé stessi in ogni situazione, anche la più tragica, che sarebbe diventata prassi in epoca di smartphone e social media. 

La catastrofe che segna un prima e un dopo appare tanto più brutale, in Meet Me in the Bathroom, perché segue le immagini gioiose e così iconograficamente rock’n’roll degli Strokes in tour nel Regno Unito ancora prima dell’uscita dell’esordio discografico. Per loro, così come per gli Yeah Yeah Yeahs, l’esposizione mediatica ottenuta in Inghilterra fu fondamentale nella scalata allo stardom, in un singolare ribaltamento di ruoli rispetto a ciò che era accaduto quasi quarant’anni prima con i Beatles e la British Invasion. C’è un motivo: la macchina dell’hype britannica era già ben rodata dalla ancora recente isteria di massa del brit-pop, e più che ben disposta a pompare una “cosa nuova” questa volta esportata dai cugini yankee. Ma se negli anni Sessanta la Beatlemania arrivò come una iniezione di gioia di vivere dopo l’omicidio di John Kennedy, nel 2001 la nuova scossa musicale provocata da quei ragazzi dall’aria scazzata e spietatamente cool – agli antipodi del machismo volgare delle band nu-metal che in quel momento dominavano i gusti della gioventù americana insieme all’hip hop- rischiò di essere divorata dal trauma di una città e per estensione di tutto l’Occidente. Tanto che gli stessi Strokes si videro costretti a togliere dalla scaletta dell’album di debutto Is This It? una canzone intitolata “New York City Cops”, per rispetto dei tanti morti durante l’attacco alle Torri Gemelle.

Ogni cosa, in Meet me in the Bathroom, sottolinea una distanza che – anche in quest’epoca in cui tutto appare come un eterno presente – improvvisamente ti rendi conto essere incolmabile.

Ma nonostante lo stato della nazione, il successo degli Strokes e (in seconda battuta e sicuramente meno esplosivo) quello di Yeah Yeah Yeahs e Interpol fu epocale. Rimaniamo sui primi: la manciata di canzoni indolenti, melodicamente irresistibili, eccitanti, già-sentite-ma-con-qualcosa-di-contemporaneo del primo album fondarono insieme al look della band un’estetica che avrebbe definito per quasi un decennio il cosiddetto universo “indie”, dal quale germineranno realtà che oggi sembrano irriconoscibili rispetto agli inizi. Per dirne due, festival come il Primavera Sound o riviste on line come Pitchfork. Per un paio di anni un genere ormai considerato residuale come il rock’n’roll tornò protagonista, dalle classifiche di vendita (i dischi ancora si vendevano, anche se sarebbe durata poco) ai video di MTV per finire alle serate nei club. Con tutto il cinismo e la prospettiva più ampia che un ventennio di distanza comporta, va detto: fu un momento eccitante. Probabilmente l’ultimo, per quanto riguarda la musica con le chitarre (categoria stupidissima – esiste forse la musica “con le tastiere”, o quella “con i fiati”?- ma viviamo tempi stupidi da ormai troppo tempo per rendercene conto). Chi scrive nel 2001 aveva da poco passato la trentina e nutriva già un bel po’ di dubbi sulle possibilità di persistenza del rock (che si chiamasse garage, rock’n’roll, indie o quel che era) nel tessuto connettivo delle generazioni a venire. Di colpo, insieme a altri thirty-something sulla strada della disillusione, si ritrovò circondato a concerti e serate da persone con dieci o quindici anni di meno. Non sarebbe più capitato. Oggi ai concerti rock si sta tra quaranta-cinquantenni a coltivare le memorie, magari andando a vedere una band di ventenni che non ha alcuna presa sui loro coetanei. All’epoca sembrava invece che una storia lunga mezzo secolo potesse rinnovarsi e rilanciarsi, così come era accaduto nei decenni precedenti con il punk, la new wave e il grunge. Storie del millennio scorso. O dell’inizio di questo.

In Meet me in the Bathroom è evidenziato anche come ai tempi resistesse un rapporto diverso e conflittuale con la fama, probabilmente figlio di un persistente atteggiamento underground o “alternativo” che accomunava tutte le band in questione. C’era una certa riluttanza, un certo malessere sotterraneo, nell’accorgersi di essere diventati delle star. Lo si vede nell’espressione smarrita di Julian Casablancas quando viene reclamato dal jet set delle Courtney Love e delle Winona Ryder (nel caso del cantante degli Strokes c’entrava forse anche qualche problematica freudiana, essendo figlio del John Casablancas che nei ’70 aveva fondato l’agenzia di modelle Elite; nel bel mondo ci era cresciuto, insomma, e aveva conosciuto il chitarrista del gruppo Albert Hammond jr in un collegio svizzero, mica a un concerto punk). Ancora più evidente nella perdita di controllo e nelle progressive insicurezze di Karen Orzolek, la cantante degli Yeah Yeah Yeahs, a disagio nel tenere legata l’immagine di donna forte sul palco, a metà tra il sex symbol e il manifesto femminista, e la realtà di un periodo ancora molto lontano dai #metoo e dai “new normal” di vent’anni dopo. Un’epoca ancora impregnata di maschilismo tossico, tanto più nello show business, come dimostra una disgustosa sequenza in cui si vede un fotografo tutto contento di riprendere l’artista sotto la gonna durante un concerto. Ma c’è un altro (non) musicista nel quale, più che in chiunque altro, la dicotomia tra underground e mainstream, tra ciò che era stato fin lì e ciò che sarebbe arrivato nel futuro della musica (cioè un mondo in cui gli artisti sono al 90% sconosciuti destinati a rimanere tali oppure smagati manager di se stessi, ben lieti di vendersi come multi-brand sui social) appare in tutta la sua tensione irrisolta. Si tratta di James Murphy, l’uomo che sarebbe diventato un monumento dell’elettronica (incrociata col punk, il post-punk e il pop) degli anni Zero con la sigla LCD Soundsystem. Nonché quello che ha co-fondato l’etichetta simbolo del periodo, la DFA, lanciando tra l’altro la carriera dei Rapture, band cardine del punk-funk. Nel 2001 Murphy è il più improbabile candidato al successo immaginabile: over-30, un po’ sovrappeso, eterno nerd musicale bullizzato al liceo e recordman di occasioni sprecate. Un giorno registra su un tappeto electro di grana grossa un monologo vagamente auto-commiseratorio che si intitola, per l’appunto, “Losing my Edge”. Incredibilmente si rivela l’ultimo treno buono per la fama, e Murphy diventa una star. Cose che potevano capitare solo nel 2002. Pochi anni più tardi, lo stesso Murphy inciderà un pezzo intriso già di nostalgia e dell’implicita domanda “cosa siamo diventati?”. Si chiama “All my Friends” e il testo recita: “You spent the first five years trying to get with the plan/ and the next five years trying to be with your friends again”. La rivoluzione indie newyorchese è durata meno di cinque anni, ma i successivi quindici tutti i suoi protagonisti – e molti di noi – forse li hanno passati a cercare i vecchi amici. E a chiedersi, come nel titolo di una vecchia canzone dei Kinks, “where have all the good times gone?

Giornalista musicale e professionista della comunicazione. Ha collaborato con Il Mucchio e Il Fatto Quotidiano, attualmente scrive per Rumore, Rolling Stone, Changes e SentireAscoltare. Ha lavorato per alcune tra le principali agenzie di pubblicità italiane e insegna Copywriting e Teoria della Comunicazione presso l’Istituto di Arte Applicata e Design (IAAD) di Torino.