I fumetti di Aleš Kot sono tra le opere di narrativa più interessanti degli ultimi anni, in assoluto, a prescindere da quale sia il mezzo espressivo. Sono pochi gli artisti in grado di creare mondi e raccontare il presente utilizzando la fantasia in modo rivoluzionario e iper-contemporaneo. Kot lo fa, anche se in Italia ancora se ne sono accorti in pochi. Una monografia.
da Quants numero 2, maggio 2023
Quando si inizia a leggere fumetti, una cosa che si fa spesso è “guardare le figure”. Ci sta, se lo fai quando sei molto piccolo e non sai ancora leggere, ma un particolare che non ti dicono (e non ti diranno mai), è che quando sfogli un fumetto è anche lui a “leggerti”. I personaggi, i dialoghi, la storia: vieni irrimediabilmente contaminato. Se guardi le immagini, i tuoi occhi sono affacciati su un mondo che reclama te, sotto la patina suadente dell’intrattenimento. Del fumetto come portale, incantesimo e magia Alan Moore ha parlato a lungo, l’ha messo in pratica (esplicitamente) da From Hell in poi, è manifesto in Promethea e in tantissimi momenti della sua produzione.Si trova magia in Grant Morrison, Neil Gaiman, Rick Veitch, nelle parole che hanno plasmato il mondo, nei disegnatori che l’hanno figurato, colorato e stampato, e reso uno dei media più pregnanti, diffusi e trasversali della storia dell’uomo. Non una robetta per ragazzini, che non è mai stata, ma un universo di simboli e discorso, avventura, escapismo meraviglioso in grado di catturarti per non lasciarti più. Se poi sei propenso alla contaminazione, alla ricerca del sogno e a diventare l’emissario di Immaginazione e Desiderio, allora sei spacciato: diventerai uno scrittore, o un disegnatore, insomma un autore di fumetti.
Quando sfogli un fumetto è anche lui a “leggerti”.
E ora parliamo di Chernobyl. Un incidente avvenuto alle ore 01:23 del 26 aprile 1986, ritenuto il più grave incidente della storia dell’energia nucleare. Classificato al settimo livello, ovvero il massimo della scala di catastroficità INES. Un orrore che è stato replicato solo da quello di Fukushima del 2011. Dal 1986 Pripjat, l’effettivo luogo della catastrofe, è una città fantasma, e Chernobyl si è spopolata. A settembre dello stesso anno, il 27, nasce Aleš Kot, a Ostrava, città della Repubblica Ceca a dieci ore scarse dal cuore radioattivo del disastro. «Sono un immigrato non-binary, e i miei genitori pensano che io sia un mutante. Non hanno tutti i torti». Questo recita la sua biografia di Twitter; e anche se ora si sta occupando di sceneggiature per film e serie tv, esordisce con Wild Children, pubblicato da Image Comics nel 2012, dove già si potevano rintracciare gli embrioni dell’infezione del linguaggio-fumetto: una meta-narrazione densa e appassionante, che univa teorie scientifiche sul multiverso, usando come propellente l’ideologia e aggiornando al ventunesimo secolo la spinta britannica/antiautoritaria del film capolavoro di Lindsey Anderson If… (tra i preferiti di Stanley Kubrick, che non a caso chiamerà Malcolm McDowell come protagonista di Arancia Meccanica).
Nel suo esordio Aleš racconta di un gruppo di omonimi “bambini selvaggi” che prende il controllo della propria scuola. Dialoghi, storia e addirittura i bordi della tavola di questo fumetto sono pregni di citazioni (o, per meglio dire, evocazioni) di artisti del calibro di Bjork, Ian Bogost (autore del fenomenale Alien Phenomenology che teorizza un Realismo Speculativo “applicato”) e Hakim Bey. L’ebrezza che coglie il lettore dei fumetti di Kot e delle sue idiosincratiche influenze è solo una parte del loro fascino: nella sua opera si possono trovare capitoli intitolati come i tuoi album preferiti, dialoghi estratti dalle labbra dei tuoi parolieri e filosofi del cuore. Questo approccio generativo proprio della cultura pop di “creazione attraverso il furto” trova una eco straordinaria nel suo approccio tecnico: trame frenetiche e avvincenti, personaggi indimenticabili e un’attiva decostruzione della pagina ricordano il miglior Warren Ellis (insomma, quello di Transmetropolitan). Kot ha un occhio straordinario per una tecnica narrativa propria del mezzo-fumetto: la “decompressione”, storicamente propria dei manga e formalizzata da Osamu Tezuka – ovvero una scelta stilistico/narrativa caratterizzata da una fortissima enfasi sulle interazioni tra i personaggi, che, di conseguenza, “decomprime” la frenesia intrinseca di molte narrazioni fumettistiche, tramutando la tavola in un susseguirsi di fotogrammi (due autori che utilizzano questa tecnica? Brian Bendis e Matt Fraction). Attingendo dalle influenze che condivide con i colossi del fumetto britannico sopracitati — da Lovecraft a Burroughs, dalla chaos magick alla teoria dei giochi — Kot ha sviluppato uno stile allucinatorio e iconico tutto suo. Nei suoi fumetti parole e immagini sfondano ogni tipo di barriera dell’incredulità, in una commistione allucinatoria che espande la coscienza del lettore portandolo a mettere in discussione la natura stessa della realtà “bidimensionale” che stringe nelle sue mani, e la natura della realtà stessa (non meno artificiale di quella presente in un loro fumetto, diciamolo).
Nei suoi fumetti parole e immagini sfondano ogni tipo di barriera dell’incredulità, in una commistione allucinatoria che espande la coscienza del lettore.
Alll’esordio Kot arriva già con un talento e una creatività fuori dal mondo, confermando l’impressione di avere capacità che superano a destra l’umano sceneggiatore di fumetti; si avverte già la scintilla di un nuovo tipo di fumetto, densamente alfabetizzato, allusivo, e capace di muovere temi e nozioni complesse, di elevatissima caratura unite a un dramma situazionista minimale. Kot, ovviamente, cresce leggendo il lavoro della prima ondata di scrittori comici di “British Invasion” e in ogni fumetto che ha scritto da Wild Children in poi ha dimostrato di essere in grado di assorbire, elaborare e far evolvere queste idee per una nuova generazione di lettori. L’assioma di Moore secondo cui linguaggio e magia sono la stessa cosa trova un’espressione particolarmente potente nei fumetti: «Sono tutti sigilli», spiega Kot in un’intervista. «Il modo in cui li mettiamo sulla carta influenza la realtà. Quando creiamo un nuovo lavoro, che sia un nuovo fumetto o un dipinto o un film o una performance o altro, presentiamo nuove informazioni e nuovi modi per elaborare le informazioni. Essere un creatore è una funzione sociale ed è una tremenda responsabilità».
Zero è una sua serie a fumetti che è possibile trovare anche in Italia, grazie a SaldaPress, ed è già un mezzo miracolo – perché essendo una prolifica moltitudine, nello stesso periodo per la Image ha anche sceneggiato il fantastico delirio Change, ambientato in una Los Angeles apocalittica immersa in un orrore cosmico/esistenzialista. Pubblicato tra il 2013 e il 2015, Zero è uno spy-thriller schizzato e paranoide, realizzato con uno stile diverso in ogni capitolo. La trama? Buona fortuna, è puro virus del linguaggio. Ogni parte rappresenta un momento chiave nella vita di Edward Zero, un agente segreto che gradualmente si rivolta contro l’Agenzia che lo ha reso un assassino. Questa è la trama dei primi 14 numeri, ma dopo le cose si fanno strane, parecchio strane, stranissime. Tipo William S. Burroughs che mangia funghi psichedelici e attraversa il multiverso. Ma, nella sua fantastica e schizofrenica narrazione, funziona tutto quanto alla perfezione; Zero esplora le ripercussioni psicologiche e sociologiche della violenza e della guerra in una storia d’azione avvincente (con l’occasionale deviazione nel surreale), e poi gli negli ultimi quattro numeri Kot svela le idee centrali dell’opera in una narrazione astratta e sperimentale che infetta i lettori, lanciando un incantesimo di pura magick che deforma l’universo narrativo, tracimando nel nostro. Poco prima della conclusione della saga di Zero, il narratore ci dice: «So cosa stai pensando. ‘Questo non ha alcun senso.’ Beh… vero, non ha senso. Questo è il bello. Questo è l’orrore. Questo è l’ultimo dono della vita. Sei libero. La vita non ha senso. Sta a te ora decidere cosa significa».
Essere un creatore è una funzione sociale ed è una tremenda responsabilità.
Kot crede profondamente alle evocazioni, difatti questo finale è esattamente questo: non una scappatoia dalla struttura in tre atti della narrazione classica o dal “senso”, ma un invito a credere totalmente nel potenziale psicomagico del fumetto. Basti sapere cosa ha dichiarato in un’intervista su un altro suo grande fumetto, The Surface, riferendosi a Change e a come ha letteralmente cambiato il corso della loro carriera: «Originariamente ho costruito questo progetto, come tendo a fare con qualsiasi cosa su cui lavoro, per lavorare su me stesso, per cambiare qualcosa, per trasmutare qualcosa. Change, che puoi ancora acquistare nel tuo negozio di fumetti preferiti o su Amazon, è probabilmente l’esempio più chiaro di come funziona la psicomagia se applicata correttamente. Voglio dire, merda! Ha cambiato le cose radicalmente!»
Un potenziale che serve anche a superare il trauma generazionale, che in Zero viene smantellato usando il machismo archetipico del genere spy, ma attingendo dalla rabbia oscura e terribilmente violenta del patriarcato. La cupa rabbia maschile è la proprio la “cosa nera” di cui parlano i veterani di guerra affetti da PTSD, che Kot associa – con un parallelismo sincretico e brillante – a quella forza catastrofica che Burroughs definiva “ugly spirit”. Per citare ancora il caro Alan Moore e il suo saggio 25.000 Years of Erotic Freedom, culture sessualmente aperte e progressiste come l’antica Grecia hanno dato all’Occidente quasi tutti i suoi aspetti civilizzatori, mentre le culture sessualmente repressive come la tarda Roma, ci hanno consegnato all’oscurantismo medievale. «Viviamo in un mondo in cui ci viene insegnato ad avere paura della sessualità, ma accettiamo l’odio e la violenza come parti normali della nostra vita quotidiana. Possiamo mostrare una testa strappata in un fumetto senza problemi, ma il capezzolo di una donna fa arrabbiare le persone: è ora di cambiare questa narrativa». E come possiamo darti torto, Aleš Kot?
Questo è l’ultimo dono della vita. Sei libero. La vita non ha senso. Sta a te ora decidere cosa significa.
Kot ha lavorato anche per la Marvel – su Iron Patriot, Secret Avengers e Bucky Barnes: Winter Soldier – sempre esplorando molti dei temi che emergono nei suoi progetti, ma presentati attraverso un filtro supereroistico più “accessibile”. Il suo cuore è sempre nelle storie che scrivono per sé, per il mondo fuori e quello interiore. The Surface, appunto, è un’altra poderosa immersione nella molteplicità intrinseca di Kot, anche questo disponibile in Italia e pubblicato da Eris Edizioni. In The Surface si affrontano nuovamente nozioni complesse sulla natura della realtà e della coscienza, come fatto in Wild Children, ma spingendosi “oltre”, cercando di creare un effettivo canale di comunicazione/teletrasporto verso altri mondi. «Mi piace creare storie perché mi piace dare alle persone la possibilità di sentire e pensare in modi nuovi. Con The Surface, quell’amore che ho per l’immaginazione si traduce nell’ambiente del fumetto in modo molto diretto, perché entriamo in un luogo considerato per decenni un vero mito urbano, un luogo che ci permette di trasformarlo con le nostre menti». La trama è ingannevolmente semplice: tre ragazzini hacker in fuga. Un posto lontano da tutto, o almeno così sembra. Cosa può andare storto? In quella che è (forse) la sua opera più intima, Kot si pone al testo con un approccio derridiano di demolizione del concetto di segno (e della sua intrinseca dualità significato/significante) ma arriva anche in profondità mai esplorate mettendosi al centro per eviscerarsi su carta: psicomagia e schizoanalisi per risorgere attraverso il potere delle storie, e fare pace con i propri demoni. Insomma, non erano solo tre hacker in fuga, alla fine. Il tutto immerso in atmosfere che sembrano una fusione impossibile di Kathy Acker, William Gibson, e una fede incrollabile nello scardinamento delle convinzioni per affrontare enormità umane quali la perdita, il ricordo. E l’amore.
Atmosfere che sembrano una fusione impossibile di Kathy Acker, William Gibson, e una fede incrollabile nello scardinamento delle convinzioni per affrontare enormità umane quali la perdita, il ricordo. E l’amore.
E con amore concludiamo parlando di Days Of Hate, quello che credo sia il suo fumetto più bello, sempre edito in Italia da Eris Edizioni: un’opera di spionaggio d’attualità bellissima, brutalista, sconvolgente e straziante. Una delle più grandi storie sull’America, e una delle più grandi riflessioni sull’amore e l’empatia, le uniche armi della nostra condizione umana di individui in uno «stato perenne di guerra». Sia esteriore che interiore. «Onestamente non posso dire dove sia iniziato [Days of Hate, ma so che è stato molto tempo fa» ha dichiarato Aleš Kot in un’intervista. «Sono cresciuto nella Repubblica Ceca durante e dopo una rivoluzione e quindi ho sperimentato i massicci cambiamenti (e in altri modi, la mancanza di cambiamento) di sistemi e persone. Il mio primo lavoro è stato piuttosto pesante, in un’organizzazione senza scopo di lucro contro la violenza sponsorizzata dallo stato, e la mia famiglia ha vissuto la seconda guerra mondiale così profondamente che alcune delle persone che sono tornate non sono mai tornate davvero, ferendo così in profondità tutte le generazioni successive».
Perché nonostante tutto, non riesco a smettere di credere che un mondo migliore sia possibile. Questa frase viene dalla conversazione finale della serie. È una buona sintesi di tutto il fumetto, un monumento sofferto e struggente all’empatia, che contiene anche una delle condanne più dirette ai suprematisti bianchi mai fatta in un fumetto. Days of Hate trascorre molto tempo nella più profonda disperazione, ma lascia al lettore il regalo più grande: la speranza. Ed è uno dei fumetti più contemporanei mai scritti, che ha catturato perfettamente lo zeitgeist, la sensazione di terrore, incredulità, e di orrore totale e onnicomprensivo delle persone che sono a capo del paese. Ma ancora di più, ha catturato quanto sia diventato estenuante il nostro mondo. Il flusso costante di follia, il pozzo apparentemente infinito di politiche terribilmente crudeli che può lasciare una persona distrutta, spezzata, totalmente insensibile. Aleš Kot in Days of Hate trova speranza nell’oscurità, che è un dono di chi riesce a viaggiare nel multiverso, oltre l’evidenza di quanto sia terribile ogni cosa. La prodigiosa magia di chi ci porta oltre le figure, inquinandoci sì come lettori di fumetti ma donandoci l’opposto di ogni cosa tremenda che ci porta a fondo. Aleš Kot discende da una grande tradizione di maghi che utilizzano il fumetto per salvarci dal binarismo mortifero della nostra esistenza, e per questo noi rendiamo loro grazie.