Qual è il rapporto fra il genere letterario della theory-fiction, il mito e il pensiero scientifico? Cosa sono i miti scientifici e perché è importante conoscerli in un contesto di overload informativo? Spaziando dalla narrativa alle fantasie di complotto, in questo articolo si cerca di mostrare la relazione fra mito, scienza ed etica nella prassi letteraria, filosofica e scientifica.
da Quants numero 9, gennaio 2024
Ho sentito parlare di theory-fiction per la prima volta nella seconda metà degli anni Dieci, in riferimento ad autori come Jeff Vandermeer, Tom McCarthy, Thomas Ligotti, e alle pubblicazioni della CCRU di Warwick, dalle quali emergeva l’opera inclassificabile di Reza Negarestani, Cyclonopedia – un misto fra speculazioni filosofiche prelevate dalla filosofia francese contemporanea, Lovecraft e incursioni nella mitologia iranica. Per capire cos’è la theory-fiction, però, bisogna prima definire la ‘theory’, compito di non facile esecuzione.
Questo perché “theory” è un nome gergale che si riferisce alla “french theory” ovvero, nuovamente, alla filosofia francese contemporanea, la quale non ha, nella sua terra d’origine, una caratterizzazione univoca. È con la traduzione di testi eterogenei come quelli di Deleuze e Guattari, Foucault, Baudrillard, Derrida e Lyotard in inglese, e più specificamente per l’opera di mediazione condotta da Sylvère Lotringer per l’editore Semiotext(e), che si è venuta a creare quella categorizzazione imprecisa che caratterizza la ‘theory’.
In questo senso, la theory-fiction è un genere della letteratura di finzione che prevede corpose iniezioni di theory – ovvero speculazioni filosofiche, o filosofico-politiche o, ancora, forme di scrittura che rimandano al saggio e alla divulgazione scientifica. Non è necessario che la theory sia di matrice francese, però – ma questo peculiare tipo di scrittura filosofica ha fra le sue caratteristiche più notevoli il fatto di mescolare i generi letterari – e in particolare d’ibridare scienza e politica. Tale “mescolanza” è ciò contro cui si sono scagliati gli autori del noto saggio Imposture Intellettuali, Jean Bricmont e Alan Sokal, i quali tacciavano i filosofi francesi di vaghezza e imprecisione nella manipolazione di nozioni di fisica e matematica.
La theory-fiction è un genere della letteratura di finzione che prevede corpose iniezioni di theory – ovvero speculazioni filosofiche, o filosofico-politiche o, ancora, forme di scrittura che rimandano al saggio e alla divulgazione scientifica.
Recentemente mi è capitato di pormi una domanda, in parte ironica, ma con degli elementi di serietà: Roberto Calasso ha sempre scritto theory-fiction? La domanda non è anodina. Calasso, oltre a essere stato il direttore editoriale di Adelphi è anche stato autore di un’ “opera unica” composta da una serie di libri che comincia con La rovina di Kasch (1983) e si conclude con La tavoletta dei destini (2020), il cui tema centrale è la mitologia. I libri principali di quest’opera sono dedicati al mito indiano, greco, sumero, all’origine dei miti, al rapporto fra mito e pittura e fra mito e letteratura. Il modo in cui Calasso tratta il mito è, per sua stessa ammissione, quello di un mitografo, termine che indica in modo un po’ arcaico il fatto di rinarrare storie antiche accludendo dei commenti. Ma perché allora theory-fiction? Perché nel narrare, Calasso inserisce delle glosse di carattere teorico sulla natura della società, sul sacrificio, sull’antropologia, sulle neuroscienze, la filosofia, la psicanalisi e sulla distinzione fra analogico e digitale in matematica e fisica. Queste glosse hanno uno statuto testuale inclassificabile, nel senso che è difficile collocarle nell’alveo del mythos o del logos.
Volendo essere un po’ più specifici: le speculazioni di Calasso funzionano per analogia e accumulazione: un certo passaggio dell’opera di Nabokov rimanda al mito greco, una riflessione dei Veda a Gödel, una pagina di Baudelaire all’ermetismo rinascimentale. Il lettore, stupito e attratto da queste analogie, si perde nella vigna del testo e dell’analogia, uscendo con un senso di mistero e straniamento.
Come abbiamo visto, la theory-fiction mescola i generi, così come la theory francese mescolava le discipline, e il metodo dell’analogia e della accumulazione è reperibile in entrambe i generi. Nel famoso Millepiani Deleuze e Guattari inanellano concetti matematici e teorie psicanalitiche, resoconti etnografici e filosofia politica, geologia, biologia e linguistica, sistemi caotici e studio delle organizzazioni sociali, testi di pazienti psichiatrici e concetti filosofici. È quindi con orrore che Bricmont e Sokal intervengono negli anni Novanta con Imposture Intellettuali, registrando lo scarso livello di “scientificità” dei volumi dei philosophes francesi à la mode.
Con “mito scientifico” intendiamo quel tipo di testi che hanno la struttura di una narrazione, ma i cui contenuti sono prelevati dalle scienze naturali e sociali.
Stranamente, quest’operazione di pulizia disciplinare non coinvolge le opere di science fiction, come, ad esempio, i romanzi di Asimov, Wells e Clarke, e questo perché questi autori hanno costruito finzioni contenenti nozioni prelevate da una fisica più o meno realistica, ma il contenitore di queste era una storia narrata, con personaggi e ambientazioni estranei al nostro mondo – vuoi per spostamenti spaziali o temporali, vuoi per costruzione di ucronie e utopie. Nella theory-fiction, invece, è difficile dire se siamo davanti a un’idea narrativa o a un concetto teorico. Nel caso di Calasso, tale indeterminazione è data proprio dalla forma-saggio, nel quale, normalmente, ci aspetteremo dall’autore che affermi degli enunciati verificabili.
Avviene poi un fenomeno ulteriore, e cioè che opere di science-fiction si trasformino, nell’universo del discorso, in materiali scientifici che forniscono strumenti per la creazione di miti scientifici. Con “mito scientifico” intendo, seguendo la definizione dell’antropologo francese Jean-Loïc Le Quellec, quel tipo di testi che hanno la struttura di una narrazione, ma i cui contenuti sono prelevati dalle scienze naturali e sociali. Le Quellec si avvicina molto nella sua definizione a quella di macchina mitologica formulata dallo studioso italiano Furio Jesi, noto per le sue ricerche sulla letteratura tedesca del XIX secolo, sul folklore, sul mito e sulla cultura di destra. Ciò che è necessario capire, affermano Le Quellec e Jesi, è che non sono i contenuti di una narrazione a produrre la sua scientificità, ma la sua struttura. Il metodo di scrittura per accumulazione prevede che si stabiliscano delle connessioni fra campi del sapere eterogenei, o tra fatti generalmente non correlati, col fine di esplicitare una tesi. Tuttavia, nel discorso scientifico, è sufficiente che uno solo di questi fatti o concetti sia falso, o non si connetta con gli altri, per annichilire la veridicità della teoria. In un certo senso, le teorie scientifiche sono come dei castelli di carta, basta che una sola delle ipotesi poste alla base sia sottratta per far sì che l’intera architettura crolli, mostrando la sua fragilità.
Il metodo per individuare un mito scientifico, afferma Le Quellec, è quello di studiare la sua forma: esistono miti cosmogonici, che narrano l’origine dell’universo, miti etnogonici, che spiegano le ragioni delle diversità nelle etnie umane, miti antropogonici, che narrano l’origine dell’uomo, e miti eziologici, che spiegano le cause singole di fenomeni anomali. A partire dal XVII secolo, più o meno, in Europa, si è stabilita una forma di sapere legata alla verifica delle fonti, alle prove sperimentali e alla divisione del lavoro cognitivo. Le domande a cui questo sapere rispondeva erano le stesse dei miti e delle religioni, ma il modo di trattarle era, per certi aspetti, radicalmente diverso. Se prendiamo un manuale universitario di biologia molecolare, di analisi matematica o di meccanica statistica troveremo, certamente, nell’introduzione quelle domande che hanno da sempre caratterizzato la specie umana, ma, nello sviluppo del testo, ci saranno solamente delle procedure, delle mappe e delle spiegazioni concatenate l’una all’altra. Questi manuali non hanno lo scopo di colmare i nostri dubbi esistenziali, ma di trasferirci delle conoscenze, insegnandoci delle metodologie e dei fatti, che, al momento della pubblicazione, sono condivisi dalla maggior parte della comunità scientifica.
Il mito è una risposta di carattere narrativo a una questione esistenziale, ma non si riduce a questa funzione. Esso fornisce anche una direzione morale, uno schema d’interpretazione e azione nel mondo. Il mito articola la giuntura fra essere e dover essere, fra metafisica ed etica.
Un caso diverso sono i testi di divulgazione scientifica a struttura mitologica – i miti scientifici – nei quali rientrano, ad esempio, libri come Sapiens di Yuval Noah Harari, La realtà non è come ci appare di Carlo Rovelli, A new kind of science di Stephen Wolfram, Il declino della violenza di Steven Pinker, Menti tribali di Jonathan Haidt e Il programma dell’universo di Seth Lloyd. Cosa accomuna questi testi che spaziano dalla ricerca storica al saggio brillante sulla storia della fisica, alla psicologia evoluzionista? È la loro struttura: tutti questi testi rispondono a domande fondamentali. Come si è prodotto l’universo? Da cosa è composto? Perché gli esseri umani sono diversi? Perché gli esseri umani litigano fra di loro? Cosa ha caratterizzato l’eccezionalità della modernità europea rispetto ai collettivi non-moderni?
È importante osservare che attraverso questa interpretazione anche l’operazione teorica del marxismo, espressa nel Capitale e nel Manifesto del partito comunista, ma anche in saggi precedenti come il Discorso sull’origine della disuguaglianza di Rousseau, corrisponde ad una domanda di carattere mitico, ovvero: perché alcuni sono più ricchi di altri? La risposta, per Rousseau, è l’istituzione della proprietà privata, per Marx la dialettica storica fra servo e padrone, e l’estrazione del plusvalore da parte della classe capitalista ai danni del proletariato.
Si potrebbe obiettare che in assenza di domande sull’origine dei fenomeni non esisterebbe alcun tipo di scienza, e questo è certamente vero. Il mito è una risposta di carattere narrativo a una questione esistenziale, ma non si riduce a questa funzione. Esso fornisce anche una direzione morale, uno schema d’interpretazione e azione nel mondo. Il mito articola la giuntura fra essere e dover essere, fra metafisica ed etica. In alcuni casi questa direzione è eccezionalmente evidente, come nella psicoanalisi (un altro mito scientifico secondo Le Quellec) e nel marxismo, ma anche la psicologia evoluzionista – e in modo più allargato il darwinismo – ricoprono delle funzioni di condotta morale. Ma cosa dire delle opere di divulgazione scientifica di campi extra-umani, extra-morali ed extra-biologici come la fisica? Anche se non specificano delle direzioni etiche, i miti scientifici della fisica forniscono una risposta alla domanda circa la posizione dell’uomo nell’universo, mostrandoci come le nostre piccole dispute e i nostri grandi conflitti siano sostanzialmente provinciali se si considera la sterminata distesa del cosmo.
D’altronde, non è vero che le teorie fisiche non producano, inintenzionalmente, delle norme morali. Penso ad esempio a serie come Rick and Morty, la quale mette costantemente lo spettatore di fronte alla necessità di ratificare le sue convenzioni a partire dalla possibilità di entrare a contatto con temporalità alternative, universi regolati da norme etiche diverse e forme di vita aliene. Un caso particolare di rappresentazione mitica di concezioni scientifiche si ha nella serie Devs di Alex Garland, nella quale un gruppo di programmatori, sviluppando una simulazione quantistica della realtà, si scontra col problema del libero arbitrio, mostrando le implicazioni morali di una teoria deterministica, la meccanica bohmiana, e di una teoria non deterministica, la teoria dei molti mondi.
Ma la colpa originaria di Adelphi, che connette l’attacco alla theory francese con l’attacco all’editore italiano, è stata quella di promulgare l’opera di Nietzsche. E questo perché, nella vulgata, Nietzsche avrebbe sostenuto che non vi sono fatti ma solo interpretazioni.
Secondo alcuni anche la theory-fiction ha delle responsabilità morali, e forse è proprio per questo che Bricmont e Sokal si accanirono contro la filosofia francese. Questa reazione è molto simile a quella che il matematico e divulgatore italiano Piergiorgio Odifreddi ha espresso nei confronti della produzione editoriale di Adelphi. La colpa di Adelphi, secondo Odifreddi, sarebbe quella di accostare speculazioni metafisiche e religiose a procedure scientifiche, elemento quantomai evidente in casi come Il tao della fisica di Fridtjof Capra. Ma la colpa originaria di Adelphi, che connette l’attacco alla theory francese con l’attacco all’editore italiano, è stata quella di promulgare l’opera di Nietzsche. E questo perché, nella vulgata, Nietzsche avrebbe sostenuto che non vi sono fatti ma solo interpretazioni. La theory francese ha chiaramente una matrice Nietzschiana, come testimoniano le opere di Deleuze e Foucault. Nietzsche si comportò come un mitopoieta, nel senso che creò nuovi miti a partire da una speculazione metafisica che aveva non pochi contatti con le riflessioni della teoria ergodica (la possibilità in un sistema finito con un tempo infinito di ripetizione infinita delle stesse configurazioni).
Come ebbe ad osservare Borges, la metafisica dovrebbe essere considerata come un ramo della letteratura fantastica. In questo testo abbiamo distinto fra theory-fiction e miti scientifici. Ora, queste due moralità discorsive sono forme ibride che mescolano i confini fra narrazione e teoria scientifica: la prima, includendo in un testo letterario degli inserti scientifici; i secondi, presentando dei materiali scientifici in forma poetica. Di theory-fiction si può parlare solo a partire dal fenomeno che Nietzsche ha caratterizzato come ‘morte di dio’, osservazione che può essere applicata anche alle fantasie di complotto (conspiracy theories), utilizzando una caratterizzazione del filosofo Karl Popper, che, per certi versi, è agli antipodi di Nietzsche. La theory-fiction è un’evoluzione della narrativa post-moderna – una letteratura nel quale il contenuto della narrazione viene parodiato, messo in evidenza, decostruito. Nella letteratura post-moderna – pensiamo a Il pendolo di Foucault di Umberto Eco o alle opere di Thomas Pynchon – l’opera da analizzare non è un saggio, ma un romanzo. L’opera di Calasso, a partire da La rovina di Kasch non è, a tutti gli effetti, un romanzo, è piuttosto una rapsodia di testi, glosse, riflessioni e citazioni che ha più la struttura di un saggio che quella di una narrazione. Nella theory-fiction non si gioca solamente con le forme della narrazione, ma con tipologie di testi radicalmente diversi come quella del paper scientifico e del racconto mitologico.
Si potrebbe provare a specificare che forse la differenza fondamentale fra una theory-fiction e un mito scientifico sta nella presenza o assenza di un personaggio che veicola le teorie. Ne La macchina del tempo di H. G. Wells è il viaggiatore a esporre delle teorie fisiche sulla natura del tempo e della quarta dimensione, e perfino Cyclonopedia è presentato col classico trope del manoscritto ritrovato. Ma nei testi di Calasso, così come in quelli di Benjamín Labatut, l’autore del testo coincide con il narratore. Si prenda l’ultimo libro di Labatut, Maniac, appena uscito per Adelphi: di cosa tratta il testo e come è strutturato? Il capitolo centrale del libro descrive in modo romanzato la vita e le opere del famoso matematico ungherese John von Neumann, mescolando elementi storici e biografici a considerazioni sul destino dell’umanità, sulla singolarità tecnologica e sui pericoli del diabolico patto fra scienza e tecnologie. Nel libro, von Neumann figura come una specie di apprendista stregone, colpito negli ultimi anni della sua vita da una malattia che sembra la punizione divina per hybris sconfinata. Un conto è affermare che von Neumann sia stato moralmente ambiguo, che abbia intrapreso una carriera di militarizzazione della scienza nei suoi contributi al progetto Manhattan e alla teoria dei giochi, un’altra cosa è dire che egli era una specie di alieno, il quale operava con forze oscure che hanno scatenato la rivoluzione cibernetica che condurrà inevitabilmente alla dissoluzione dell’umanità per come la conosciamo.
Un conto è affermare che von Neumann sia stato moralmente ambiguo, che abbia intrapreso una carriera di militarizzazione della scienza nei suoi contributi al progetto Manhattan e alla teoria dei giochi, un’altra cosa è dire che egli era una specie di alieno, il quale operava con forze oscure che hanno scatenato la rivoluzione cibernetica che condurrà inevitabilmente alla dissoluzione dell’umanità per come la conosciamo.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere: cosa può uno scrittore in un’epoca post-metafisica? Come classifichiamo opere come La parte maledetta di Georges Bataille, Massa e potere di Elias Canetti e la trilogia Sfere di Peter Sloterdijk? Si tratta, nuovamente, di mitologie che rispondono a precise domande eziologiche: qual è l’origine dell’economia? Qual è l’origine del potere? Che cos’è lo spazio per l’essere umano? Non sfuggirà al lettore con una base filosofica che questi testi si ricollegano alla tradizione metafisica, sono cioè spiegazioni sistematiche che rispondono a domande esistenziali proponendo una tesi e uno sviluppo per accumulazione di somiglianze che possono essere prelevate dai campi più disparati, dalla cosmologia all’etologia, dalla teologia medievale alle neuroscienze, dall’etnografia all’economia politica. Ora, ammettiamo che il topic centrale di queste opere sia la sociologia, e confrontiamole con opere accademiche di questo argomento. Ci troviamo di fronte a due tipologie di testi completamente diverse. La sociologia è una disciplina scientifica, la quale è sottomessa ai principi di verifica delle fonti, di divisione del lavoro cognitivo e di separazione disciplinare. Il compito del sociologo non è quello di rispondere a una domanda esistenziale totalizzante, ma quello di spiegare un settore limitato, come una specifica situazione di conflitto in un’epoca e in un settore geografico definiti. Viceversa, un mito sociologico ambisce a rispondere alla domanda circa la natura di ogni conflitto, di ogni meccanismo di centralizzazione del potere e di ogni fatto economico.
È interessante notare che per Calasso la sociologia stessa sia una mitologia, che ha preso come mito la società stessa. Si tratta di un’osservazione teorica che Calasso attribuisce a Durkheim e Lévi-Strauss, affermando che questi autori abbiano voluto spiegare fatti extra-sociali come il mito con motivazioni culturali, ideologiche e psicologiche. Instillandoci il dubbio sulla veridicità delle procedure scientifiche di studio del mito, Calasso si muove nello stesso campo di Nietzsche e di quello della french theory post-moderna tanto odiata da Bricmont e Sokal, perché ci fa dubitare della consistenza della scienza. In fondo, il punto è che in un’epoca post-metafisica, la distinzione fra mito e discorso scientifico cade, e qualsiasi testo ha lo stesso valore epistemico.
Ma allora non ci sarebbe più distinzione fra theory-fiction, mito scientifico, teorie scientifiche, finzioni e fantasie di complotto? Non proprio. La mia ipotesi è che in un contesto di divisione del lavoro cognitivo altamente specializzata e in presenza di una sovrabbondanza di informazioni circolanti, non sia possibile avere accesso a una conoscenza certa in ogni campo del sapere. Ciò che avviene è che, nei campi che non conosciamo, ci accontentiamo di mitologie scientifiche piuttosto che di un approccio diretto con le discipline di riferimento. Non credo esista una distinzione fra modalità di ragionamento scientifiche e ascientifiche, mi sembra piuttosto che per un lettore comune sia più facile approcciarsi a un testo di theory-fiction trattandolo come una finzione quando il testo è presentato come tale – a quel punto si sospende l’incredulità e si gode delle speculazioni. Più difficile è individuare i miti scientifici, poiché questi presuppongono, per essere demistificati, una conoscenza approfondita del campo disciplinare. Anche una conoscenza delle dinamiche di produzione e circolazione di miti e finzioni aiuta, e questo perché, come abbiamo visto, alcune narrazioni fantascientifiche possono trasformarsi in fantasie di complotto e miti scientifici.
Recentemente si è manifestato negli studi di teoria della letteratura un interesse per le fantasie di complotto, effetto della recente infodemia prodotta dalla pandemia. Nell’ipotesi di complotto cade la distinzione fra narratore e autore – i testi riportano osservazioni e “ricerche” presentati come fatti. Ma un’ipotesi di complotto, rispetto a un mito scientifico, fa cadere le distinzioni disciplinari in maniera più radicale. Per questo il lettore medio può considerare plausibile la storia dell’umanità raccontata da Harari e implausibili le narrazioni della pseudoarcheologia. E questa, nuovamente, è una questione di divisione del lavoro cognitivo – chiunque si occupi a livello accademico di storia sa che non è possibile scrivere una ‘storia dell’umanità’, e tale situazione è ancora più evidente nel caso della pseudo-archeologia, la quale si nutre di elementi che spaziano dalla paleontologia alla storia dell’arte, dalla mitologia alla esobiologia.
Non c’è però solo una diversità cognitiva fra il procedimento scientifico e quello del mito scientifico, ma anche una diversa implicazione morale. Abbiamo visto che, a partire da una teoria fisica, è possibile sviluppare una indicazione morale – e ciò avviene per il tramite di una narrazione fantascientifica. Non diversamente, nelle fantasie di complotto, come la fantarcheologia che lega le antiche civiltà con visitazioni extraterrestri, o nell’idea della terra piatta, o ancora nelle speculazioni fantapolitiche, ci sono sempre delle indicazioni morali o esistenziali, risposte a domande fondamentali circa la natura del potere, o il rapporto fra l’essere umano e l’ecosistema. Difficilmente troveremo risposte morali in un’opera letteraria, se non in quanto allegoria di un fenomeno politico. Per questa ragione la theory-fiction resta a tutti gli effetti un fenomeno letterario, che non produce un culto di lettori che traggono informazioni su come condurre la loro vita a partire da un testo. Il mito scientifico e la fantasia di complotto, invece, pur diversificandosi nel loro rapporto con gli sconfinamenti disciplinari e in ultima analisi con la verità, conducono il lettore a estrapolare delle norme di comportamento. Norme che in un discorso scientifico, proprio perché al di là del bene e del male, non hanno alcun significato.