Presentato lo scorso giugno in anteprima mondiale al Biografilm Festival, Il Padiglione sull’Acqua di Stefano Croci e Silvia Siberini è molto di più di un documentario attorno all’opera e la vita dell’architetto veneziano; è una sguardo profondo sulle apparenti contraddizioni nella concezione di spazio e tempo tra Oriente e Occidente.
da Quants numero 11, marzo 2024
C’è un termine che risuona come nessun altro in tutta la dottrina zen e shintoista, senza il quale sarebbe impossibile anche solo affacciarsi alla cultura giapponese pensando di coglierne significati completamente privi del loro senso. Quel termine è Mujō (無常): impermanenza. È un concetto che attraversa qualsiasi manifestazione pura di quell’arte, di quel fare, di quegli spazi, di quella spiritualità che, per quanto l’occhio dell’occidentale possa ammirare, difficilmente riesce a ospitare e fare davvero propria. In fondo, nemmeno Carlo Scarpa ci riuscì del tutto. Eppure, di tutti gli architetti della sua generazione, egli è stato quello che più ha tentato di confrontarsi con quell’interlocutore distante che è il Giappone, ossessivamente presente nella sua ricerca artistica. È quindi assai prezioso il film di Stefano Croci (1984) e Silvia Siberini (1980) intitolato Il Padiglione sull’Acqua (2023), che dopo il suo debutto la scorsa primavera al Biografilm Festival di Bologna sta giustamente guadagnando attenzione di proiezione in proiezione. Piuttosto che un documentario di architettura, genere questo che sempre di più da una decina d’anni a questa parte sta disegnando una rete di festival specifici in giro per il mondo, Il Padiglione sull’Acqua è il viaggio tra due mondi: il Veneto, la cultura veneziana di Scarpa e appunto il Sol Levante.
Il viaggio non è tanto consegnato alla retorica dell’apprendimento, a una sorta di grand tour formativo e vagamente esotico da parte dell’architetto; Scarpa giunge al Giappone attraverso una lenta e progressiva scoperta, scaturita dalla seduzione di modelli fondamentali, ma anche grazie alla letteratura, alla poesia di Basho, all’influenza che l’oriente ha infuso in autori quali Pound.
Il viaggio non è tanto consegnato alla retorica dell’apprendimento, a una sorta di grand tour formativo e vagamente esotico da parte dell’architetto; Scarpa giunge al Giappone attraverso una lenta e progressiva scoperta, scaturita dalla seduzione di modelli fondamentali (e quelli sì, intimamente formativi) come Wright, ma anche grazie alla letteratura, alla poesia di Basho, all’influenza che l’oriente ha infuso in autori quali Pound, che giunge nella Venezia di Scarpa dopo aver già meditato a sua volta a lungo su testimoni diretti della cultura giapponese come Ernest Fenollosa. Scarpa intraprenderà il primo viaggio “fisico” in Giappone soltanto nel 1969, già sessantatreenne, e ne Il Padiglione sull’Acqua si apprende dalla voce del figlio Tobia che fu proprio quest’ultimo a donare al padre questa possibilità, sapendo dell’interesse/passione che a lungo l’architetto aveva nutrito per quella terra. Analogamente, potremmo dire che anche i registi Stefano Croci e Silvia Siberini sono giunti alla complessità di questi temi attraverso un meditato percorso di avvicinamento iniziato prima del 2014 con l’evocativo cortometraggio La pietà del vento, che mette in relazione lo sguardo di Carlo Scarpa al lirismo del poeta Matsuo Bashō. Il Padiglione sull’Acqua culmina simbolicamente con il progetto della Tomba del Brion a San Vito di Altivole; vera e propria summa di tutto ciò che Scarpa aveva imparato durante la sua esistenza dove, attraverso una densissima organizzazione di simboli, di spazi, di elementi naturali così insieme alieni e familiari al Giappone, Scarpa tentò di reificare i principi di quella cultura, ed ancora oggi il complesso monumentale continua a evocare brani di una terra che fatalmente sarà anche quella nella quale il grande architetto morì nel 1978, all’apice della sua carriera, cadendo da una scala.
Il film di Croci e Siberini, oltre ad affascinare visivamente lo spettatore, possiede una grande qualità, sempre più rara nel cinema in generale e nel sottogenere del documentario di architettura in particolare: quella di essere un film densamente sonoro. La ricchezza della dimensione uditiva si dispone su due livelli; quello delle voci che animano il Padiglione, non semplici spigolature di aneddotica, ma veri e propri carotaggi nel continente-Scarpa, come quelli forniti da J. K. Mauro Pierconti, autore tra l’altro di uno dei più preziosi studi recenti sull’oggetto specifico di questo film (Carlo Scarpa e il Giappone, Electa, 2007), e quello del filosofo giapponese Ryōsuke Ōhashi che risuona lungo tutto il film come una costante riflessione sul quel senso di impermanenza accennato prima. Ci sono poi altri suoni, che come nella migliore tradizione sono le espressioni più amiche dell’architettura e che evocano il senso di spazio: grazie alla colonna sonora di Paolo Aralla e Anna d’Errico, al sound design di Pedro Lombardi Suzzi, María Luz e González Ríos si ha l’esperienza pura dell’ascolto e la capacità di fissare quegli spazi nella memoria.
L’acqua del Padiglione non è solo quella remota in cui si specchia il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro di Kyoto, o quelle attraversate dai commoventi ponti di legno che portano al santuario shintoista di Ise, nella prefettura di Mie: l’acqua, per Carlo Scarpa, è stata prima di tutto l’elemento quotidiano con cui ogni veneziano si confronta da millenni.
Non è affatto una caratteristica laterale, rappresenta anzi una ulteriore conferma della sensibilità con la quale i registi hanno saputo guardare gli spazi di Scarpa e farli vivere con i suoni, consapevoli che è un principio fondamentale della cultura zen e shintoista porre la stessa attenzione alle dimensioni visive e sonore, tattili come ad un evento unico: tutto nel giardino zen è pensato come un tempo di attesa, di sorpresa, per essere stimolati ed eventualmente illuminati dai fenomeni più banali che si registrano con gli occhi (una foglia che cade, una lucertola che attraversa repentinamente la geometria astratta di un giardino di pietra, disturbandola) così come l’insieme di suoni naturali e artificiali; come quelli che l’architetto ha amministrato guidando i percorsi che l’acqua compie in quella scena completamente costruita.
Nel film di Croci e Siberini, abbiamo la sensazione di conoscere più di una semplice successione di immagini e di informazioni estrapolate dalla ponderosa bibliografia Scarpiana, e di imparare ancora di più dai vuoti, attorno ai tanti contenuti, così come in alcune delle migliori restituzioni dell’architettura nel genere del documentario: vengono in mente veri e propri film come Antonio Gaudí (1984) del regista Hiroshi Teshigahara, o il più recente cortometraggio Villa Empain (2019) di Katharina Kastner, piccola gemma del cinema di architettura.
L’acqua del Padiglione non è solo quella remota in cui si specchia il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro di Kyoto, o quelle attraversate dai commoventi ponti di legno che portano al santuario shintoista di Ise, nella prefettura di Mie: l’acqua, per Carlo Scarpa, è stata prima di tutto l’elemento quotidiano con cui ogni veneziano si confronta da millenni. Venezia è naturalmente la porta verso l’Oriente per la cultura architettonica italiana, e Scarpa fu completamente immerso in quella tradizione, per quanto si voglia ravvedere nelle sue creazioni echi di Hoffman, Wright, il Giappone, ma anche Mies Van Der Rohe. Scarpa è stato, soprattutto, profondamente bizantino. È Scarpa che lo afferma a più riprese commentando quanto già John Ruskin aveva colto studiando le pietre della sua città: «Venezia come sorgiva naturale è assolutamente bizantina: nelle strutture, nelle disposizioni delle parti». Ed è ancora l’architetto che ebbe ad autodefinirsi un «bizantino nel cuore, un europeo che salpa per l’Oriente».
Il Giappone, quindi, come terra di elezione, mentre le radici restano profondamente inscritte nella grande tradizione spaziale europea, nella sua capacità di inventare nei millenni paradigmi spaziali e modi di rappresentare tali spazi. A supporto di ciò, c’è un episodio che meglio di molti altri testimonia la devozione di Scarpa per tali modelli. Accadde che tra il 5 e il 6 febbraio 1975 furono rubate tre delle opere d’arte più importanti custodite al Palazzo Ducale di Urbino, tra queste la Flagellazione di Cristo (1453) di Piero della Francesca. Carlo Scarpa così commentò il fatto durante una lezione allo IUAV del 20 febbraio dello stesso anno: «Dai primitivi, fino al Cinquecento, le architetture erano altrettanto nobili per i pittori nello sfondo dei quadri che facevano… basta pensare al quadro rubato l’altro giorno. Io quegli uomini, vi giuro, li brucerei al fuoco! Fibrilla per fibrilla li taglierei, viventi, perché hanno rubato un quadro grande della pittura italiana. Quadro di grande poesia, quadro grande di invenzioni, quadro grande, quadro immenso in tutti i sensi, non c’è paragone. Se lo tirassero fuori, io, se fossi il governo, gli direi: “Sentite, rendetemelo, vi do tutto Raffaello”».
Impossibile pensare dunque a Scarpa senza quella sua continua e perenne attrazione per l’Oriente che risale all’immediato dopoguerra, ma è altresì importante ricordare la matrice profondamente europea in tutto ciò che ancora oggi ammiriamo delle sue più celebri realizzazioni: nella sistemazione del Museo di Castelvecchio a Verona (1964), nella casa Veritti a Udine (1955-60), nell’ampliamento della Gipsoteca Canoviana a Possagno (1956-57), nella sistemazione e il restauro di Ca’ Foscari, di Palazzo Querini Stampalia e del Museo Correr a Venezia (1959), oppure nel negozio Olivetti in Piazza S. Marco a Venezia (1959), che con le sue pavimentazioni “bizantine” sfida da più di sessant’anni l’acqua alta della laguna. Il negozio Olivetti e tutte le sue altre opere sono dispositivi spaziali che sfidano quel concetto di “impermanenza” che ispira tutta la filosofia giapponese, tendendo naturalmente a quella tradizione di artefatti che si consegnano all’immortalità. L’architetto ha dedicato la sua intera attività a forme che idealmente sfidano l’eternità delle cose, al restauro di complessi monumentali e all’impiego di tecniche e materiali inscritti in tradizioni millenarie; è lì che in purezza si rivela in Scarpa la natura aristocraticamente artigianale delle sue scelte linguistiche, non immemori di suggestioni che spaziano dal neoplasticismo alla Vienna di Hoffmann e Klimt. Da tutti questi rivoli di saperi “europei” proviene il suo genio per i dettagli tecnologici e la raffinata sensibilità materica che ancora oggi rimane la prima “pelle” che coincide, forse, con quel senso di bellezza dal quale muovono tutti gli interrogativi su cui si fonda Il Padiglione sull’Acqua. Con queste parole nel 1974, Louis Khan, grande architetto e amico di Carlo Scarpa, omaggiava l’opera del suo collega:
In the work of Carlo Scarpa
‘Beauty’,
the first sense
Art
the first word
then Wonder
Then the inner realization of ‘Form’
The sense of the wholeness of inseparable elements.
Prendendo in prestito quest’ultima riga che Khan intuì come il “segreto” di Scarpa, ossia un senso del tutto composto da elementi inseparabili, appare forse più chiara la sua capacità di costruire, come nel caso della Querini Stampalia, della Tomba del Brion o nell’allestimento della corte interna per la XXVI Biennale di Venezia del 1952, una serie di spazi unici governati da un processo euristico, del progettare, piuttosto raro nell’architettura modernista. È in “oggetti” del tutto peculiari come l’appena citata tettoia che domina la corte interna del Padiglione Italia che fuoriesce lo spirito più emblematicamente legato a questo apparente contrasto tra monumento e spazio della transitorietà: pensato come un display effimero per offrire al pubblico le sculture di Alberto Viani, quel passaggio è ancora oggi uno degli spazi più forti e autentici che il sempre crescente numero di visitatori della Biennale di Venezia può incontrare da settant’anni a questa parte. Uno spazio e una serie di elementi così unici da aver continuamente ispirato artisti (si pensi all’opera di Gabriel Orozco del 2003, Shades between Rings of Air) e che continua ad accogliere il lavoro di autori contemporanei stabilendo con tali opere un dialogo unico, smentendo l’ormai desueto paradigma che ha voluto l’arte contemporanea per decenni osservabile soltanto in contenitori “white cube”.
L’architetto ha dedicato la sua intera attività a forme che idealmente sfidano l’eternità delle cose, al restauro di complessi monumentali e all’impiego di tecniche e materiali inscritti in tradizioni millenarie; è lì, che in purezza si rivela in Scarpa la natura aristocraticamente artigianale delle sue scelte linguistiche, non immemori di suggestioni che spaziano dal neoplasticismo alla Vienna di Hoffmann e Klimt.
L’allestimento di esposizioni e mostre è stata l’altra grande disciplina che ha più impegnato Carlo Scarpa, consegnando alla storia di quella pratica alcune delle più raffinate creazioni, come la mostra di Klee alla Biennale di Venezia del 1948 o quella per la mostra di Frank Lloyd Wright alla Triennale a Milano del 1960. In quella produzione fondamentale di spazi effimeri, destinati a durare per la breve vita di una mostra. È lì, forse, che meglio possiamo valutare in Scarpa la cultura del mujō, ed è lì, in ultima analisi che quel sentire risuona più compiutamente.
Cosa rimane oggi di questo protagonista del tutto atipico della storia dell’architettura e dell’arte italiana? Cosa rimane del suo segno? Oltre ovviamente a quegli spazi, oggi feticizzati al culto di Instagram, quello di Scarpa è un percorso che non si può (e forse non si deve) tentare di riprodurre, come afferma una delle voci che animano Il Padiglione sull’Acqua, quella del pittore Giovanni Soccol «Scarpa ha lasciato due o tre cose, quattro… Ma noi lo guardiamo perché non si può più fare adesso Scarpa. Mancano gli operai, manca il tipo di materiale, manca la sensibilità, non lo guardiamo come si può sentire una sonata di Beethoven, non appartiene al nostro… È una follia, è una cosa filosofica, è una cosa religiosa… Bisogna essere consapevoli che si è assolutamente fuori».
Eppure, nelle riviste di interni, nelle miriadi di gallerie digitali, da Milano a Los Angeles, serpeggiano “scarpismi” di ogni genere, nessuno dei quali tuttavia frutto di quel processo, di quella sintesi tra culture entrambe profondamente accolte e introiettate, ma anche di quella consapevolezza di essere nella storia. Ciò che oggi vediamo nelle pagine patinate delle riviste d’interni appare piuttosto come capriccioso manierismo, dettagli che si vorrebbero capaci di restituire quel sapere o un’idea sciocca di lusso e che invece gridano il fallimento di una cultura del design condannata a una vita di decorazioni e ri-decorazioni.
Il regista canadese Denis Villeneuve ha girato alcune scene del secondo capitolo del suo Dune utilizzando la Tomba del Brion di San Vito di Altivole come location. C’è da chiedersi con quale sensibilità e rispetto ci si debba avvicinare ad un luogo come quello, e nel film vediamo quel complesso funerario trasfigurato dal fantastico. Filmando quei medesimi spazi ne Il Padiglione sull’Acqua, Stefano Croci e Silvia Siberini ci hanno fatto dono della realtà di Scarpa. E non è poco.