Pubblichiamo, per gentile concessione di 66thand2nd, un estratto da Sad Girl. La ragazza come teoria (2024). Dalle fragilità di Britney Spears al dominio di Taylor Swift, i modelli di icone adolescenziali sembrano essersi trasformati completamente. O forse no?
Nata negli anni Novanta, sono cresciuta nel pieno del regno delle pop star adolescenziali, tra Britney Spears, Christina Aguilera, le Destiny’s Child e, per quanto i miei gusti si siano evoluti nel tempo, emancipati dall’orizzonte unico del mainstream, la musica pop femminile continua a piacermi, come una sostanza che risveglia circuiti nervosi dormienti o un automatismo a cui non posso non rispondere. Quando mi sono trovata ad ascoltare in loop Sour di Olivia Rodrigo non importava se avessi passato i trent’anni o se niente di quello che la popstar cantava avesse effettivamente a che fare con me, c’era qualcosa che mi permetteva di comprendere, rispondere, e vivere la stessa gamma di emozioni che lei aveva riversato nelle sue canzoni, qualcosa per cui, a dispetto del tempo che passa, posso sempre ricollegarmi a quella esperienza di femminilità nelle modalità e nei contenuti con cui questa è rappresentata. Volevo allora capire da dove arrivasse, come avesse affondato le radici in me, come ne ero stata influenzata; se la figura della pop star è talmente centrale nella cultura mainstream da esistere indipendentemente dalle sue propagazioni specifiche, per cui ogni persona che possiamo considerare pop star è ugualmente sorella e compagna, ugualmente comprensibile. Guardiamo allora quali sono le sue modalità di rappresentazione.
Quando mi sono trovata ad ascoltare in loop Sour di Olivia Rodrigo non importava se avessi passato i trent’anni o se niente di quello che la popstar cantava avesse effettivamente a che fare con me, c’era qualcosa che mi permetteva di comprendere, rispondere, e vivere la stessa gamma di emozioni che lei aveva riversato nelle sue canzoni.
La musica, così come tutte le arti, è modellata dal clima culturale e dalle strutture profonde della società che la produce: così l’industria musicale è attraversata non solo da una pervasiva misoginia, ma anche da istanze ageiste, grassofobiche, razziste e abiliste. In questo senso, la pop star incarna una rappresentazione femminile capace di accontentare le strutture patriarcali del mondo in cui vive: nella maggior parte dei casi – sebbene non esclusivamente – è infatti giovane, bella, magra. Quello che però definisce ancor di più la sua persona è un’ostinata flessibilità, un’infinita modificabilità dell’apparenza. La pop star, come cantava Britney in una celebre canzone, non è più una ragazza, ma non è ancora una donna – insomma, è perennemente «caught in the middle», come si definiva lei stessa, ossia bloccata tra una fase e l’altra dell’esistenza e, dunque, sempre potenziale nel suo sviluppo. Se il suo destino è prendere una forma definitiva, diventare cioè una donna, si scopre incerta, continuamente in dubbio su quale delle identità possibili assumere nella prossima fase.
Lo abbiamo visto dai tempi di Britney Spears, lo vediamo con Taylor Swift, Lady Gaga, Beyoncé: quasi tutte le pop star cambiano estetica da un album all’altro, passando per stili in apparente contraddizione tra loro; in un disco sono angeliche e innocenti, per poi tentare di emanciparsi nel successivo assumendo posture sexy, per poi riprendere a parlare di amori finiti, di voler ripartire da sé stesse e così via. La successione di estetiche ha più a che fare con questioni editoriali e di lifestyle che non con riconoscibili o rilevabili percorsi esistenziali, tanto che, a dispetto degli anni, le pop star restano sempre giovani, perché non possono evolvere in niente se non in loro stesse, ossia né ragazze né donne.
La pop star, come cantava Britney in una celebre canzone, non è più una ragazza, ma non è ancora una donna – insomma, è perennemente «caught in the middle», come si definiva lei stessa, ossia bloccata tra una fase e l’altra dell’esistenza e, dunque, sempre potenziale nel suo sviluppo.
Se infatti l’adolescenza è la fase della vita in cui la sperimentazione di estetiche e identità possibili serve a dar forma alla persona adulta che verrà dopo, le pop star sembrano incapaci di determinarsi, di assumere un’identità che rimpiazzi la precedente. Quello che succede tra un album e l’altro, di solito, viene definito reinvenzione di sé, un processo privo di qualsiasi nesso causale. Sono perennemente ragazze, perennemente adolescenti in attesa del prossimo passo, a prescindere da quanti anni abbiano. Questa identità precaria viene prorogata all’infinito: ciò che si ottiene è la possibilità di continue trasformazioni, in cui ogni secondo è solo un’anticipazione del prossimo, fino al punto in cui questa temporaneità diventa parte strutturale della loro identità. Le pop star non invecchiano né si evolvono, semplicemente iniziano, continuano e, a un certo punto, finiscono.
Per fare un esempio, Taylor Swift ha festeggiato i suoi diciassette anni di carriera con un grandioso show chiamato The Eras Tour, in cui ha rivisitato ognuno dei suoi dischi. Ogni album rappresenta quindi un’èra a sé, ci suggerisce, un atto autoconclusivo, riconoscibile a partire dalla differente estetica a cui sono connessi valori e qualità precisi. Esiste, però, un percorso che lega questi distinti momenti in un movimento unico, o si tratta solo di variazioni su un tema? L’autenticità dei sentimenti dichiarata da Taylor Swift, che è autrice di tutti i suoi testi, e il rapporto – a volte congetturale, a volte esplicitato – tra le canzoni e la sua vita privata ci assicurano che quello a cui stiamo assistendo nel tempo è il racconto di una storia, di una crescita. Eppure, diciassette anni dopo il suo esordio, Taylor Swift è ancora innegabilmente giovane; anche se è diventata la pop star più importante della sua epoca, più che un arrivo anche questa è una partenza e i giornali si domandano quali trasformazioni la aspetteranno adesso. Ha tutto il mondo avanti a sé, ne avrà mai uno alle spalle?
Per certi versi le popstar sembrano suggerirci che un percorso esistenziale non importa davvero: si può rimbalzare da un mondo all’altro e la vita può essere un gioco sempre rinnovabile, in cui è possibile cancellare la cronologia per ripartire con una nuova identità.
Per certi versi le popstar sembrano suggerirci che un percorso esistenziale non importa davvero: si può rimbalzare da un mondo all’altro e la vita può essere un gioco sempre rinnovabile, in cui è possibile cancellare la cronologia per ripartire con una nuova identità. Questa ambivalenza – volersi trasformare in qualcosa, ma non poter mai raggiungere una stasi – esprime un desiderio conflittuale presente in maniera analoga anche in chi le ascolta. Anche noi proviamo a un tempo attrazione e repulsione rispetto all’idea di poterci reinventare incessantemente, tuttavia la prospettiva di una vita che non finisce mai non è una prospettiva pacificata, dal momento che se da un lato ci dice che non è mai troppo tardi, dall’altro ci insegna anche che non siamo mai arrivati, mai maturati, che, per quanto lavoro facciamo, ogni punto di arrivo è anche un punto di partenza.
Il processo di precarizzazione dell’identità, che diventa progressivamente strutturale, ha la sua origine nelle richieste di flessibilità del mercato, nelle infinite e cicliche crisi economiche che obbligano non solo a reinventarsi, ma soprattutto a vivere in un continuo senso di allerta; questa iperflessibilità sembra trasformare un’esistenza se non lineare, almeno consequenziale, in una sostituzione continua di fasi provvisorie. In questa prospettiva le pop star rassicurano, capaci come sono di passare da un’identità all’altra senza battere ciglio, con la disinvoltura di chi sa appoggiarsi sulla superficie esteriore delle cose senza sforzo apparente o senza pagarne le conseguenze.
Le pop star rappresentano inoltre, tipizzandola, la gioventù, rendendola qualcosa non solo di desiderabile, ma anche di visibile e, dunque, consumabile. Quella gioventù è insieme una loro caratteristica intrinseca e qualcosa di accessorio: nel video del suo singolo di debutto «…Baby One More Time», con le trecce e la divisa da scolaretta, Britney Spears sembrava interpretare un’adolescente, più che esserne una. Se gli attori delle serie televisive per teenager spesso sono ultraventenni che interpretano liceali, le giovanissime pop star sono figurine sessualizzate e infantili di età indefinibile: la giovinezza che entrambi incarnano pare una categoria assoluta e quasi staccata da loro.
Ricordo bene, ad esempio, quando poco più che bambina mi sintonizzavo su Mtv e quelle ragazze che avevano appena cinque o sei anni più di me mi sembravano aliene, sproporzionatamente più grandi e adulte, però sempre attente a dichiararsi giovani, troppo giovani per le attenzioni che ricevevano. Un esempio è la cantante francese Alizée, che a quindici anni ha esordito con «Moi… Lolita», canzone in cui racconta appunto il fatto di essersi vista sessualizzata nonostante fosse ancora piccola. Pur trattandosi della ragione per cui Alizée è comparsa sulle scene, la sua musica risulta quasi superflua: tutta la conversazione su di lei si sposta dalla qualità delle canzoni alla domanda sulla sua esistenza reale; la ragazza-Alizée è davvero così sensuale e giovane o si trattava di una trovata commerciale, di un personaggio costruito a tavolino? E, ancora, Alizée coincide con la Lolita della canzone o sta interpretando la ragazza del video? L’ambiguità è enfatizzata dal fatto di paragonarsi a un personaggio finzionale, la protagonista del libro di Nabokov, ma è proprio quella ambiguità a rendere accettabile il fatto che uomini e ragazzine la desiderino. Nessuno sta effettivamente desiderando una quindicenne, ma solo la messa in scena di una quindicenne.
Le ragazze imparano a comportarsi, ad accumulare potere, ad alludere senza dire: è questa l’educazione che tutte le pop star a cavallo del millennio ci hanno tramandato un video alla volta.
«Non è colpa mia se tutti mi si buttano addosso» canta Alizée, mentre nel video balla in discoteca circondata da uomini molto più grandi che non possono far altro che guardarla. Senza soldi e troppo giovane per potersi emancipare, Alizée comprende le strutture economiche in cui vive e le sa manovrare: la ragazza sa di avere potere finché usa il suo capitale sessuale per ottenere vantaggi, e si premura bene dal concederlo a qualcuno dei suoi pretendenti. Insieme a lei c’è anche la sorellina minore che, mentre la aspetta, ne imita i movimenti; come lei, guardandola dal lato della pista o in televisione, le ragazze imparano a comportarsi, ad accumulare potere, ad alludere senza dire: è questa l’educazione che tutte le pop star a cavallo del millennio ci hanno tramandato un video alla volta. Come Alizée non ballava «per sé stessa», non lo facevano neppure le ragazze di Non è la Rai: per poter rendere evidente il loro potere, dovevano mostrarsi allo sguardo altrui. Il potere che hanno su di noi è il potere di farsi scegliere, consumare.
Le pop star, di cui tutti questi esempi sono variazioni sul tema, sono un perfetto soggetto neoliberale perché sanno come massimizzare il poco che hanno – cioè la propria femminilità e giovinezza, due elementi tradizionalmente deboli – ottenendone un profitto. Per usare una definizione da Elementi per una teoria della Jeune-Fille del collettivo Tiqqun, le pop star sono l’«antropomorfosi del capitale», ossia quello che succede quando la merce diventa un soggetto umano e l’umano diventa una merce, cioè acquista o perde valore in base a quanto si compra o si vende. «È solo nello scambio che la Jeune-Fille realizza il suo valore» scrive il collettivo francese, per dire che è solo nella gestione del rapporto tra domanda e offerta che Alizée o le altre pop star detengono un potere.
La Jeune-Fille di cui parla il collettivo Tiqqun, a dispetto del suo nome, non è per forza una giovane donna, ma chiunque usi gli strumenti della comunicazione e della persuasione e sfrutti il proprio aspetto inoffensivo per ottenere fama, potere o semplicemente un trattamento positivo, tutto questo pur mantenendo una posizione di apparente sottomissione, di messaggero di pace che non vuol fare niente di male e detesta i conflitti. La Jeune-Fille è qualsiasi soggetto in cui convergono Gioventù e Femminilità, qualità intese come minorità e passività, caratteristiche deboli di cui il capitale si veste e che usa come strumenti di controllo e potere. È chiunque si integri nella società attraverso il consumo e, a sua volta, promuova il consumo come strumento di scelta e, addirittura, emancipazione.
Possiamo analizzare in questa prospettiva le modalità in cui si presentano le pop star: l’insicurezza e la dolce malinconia che generalmente caratterizzano queste figurine, mescolate a un ottimismo incrollabile e a un desiderio di fare bene, infatti, le rende non solo ancora mansuete e inoffensive, ma anche un ottimo spazio negativo su cui proiettare le nostre insicurezze, in risposta alle quali promettono di dare, come amiche e sorelle, le cure e le soluzioni migliori. Il sentimentalismo delle pop star è una forma di materialismo e se vogliamo di marketing: le loro malinconie o gli ottimismi vengono usati come spazio pubblicitario e promozionale per lanciare cosmetici o linee di abbigliamento, che rappresentano il correlativo oggettivo delle pop star stesse.
Dietro alle trasformazioni culturali, allo spazio lasciato alle donne e alla loro capacità auto imprenditoriale, all’arrivo delle prime miliardarie self-made e dei modelli rinnovati di femminile, resta un sistema economico immutato nelle sue strutture essenziali, come immutato è anche il prodotto su cui fare profitto – è sempre la propria persona, la capacità seduttiva e attrattiva.
Da ragazza identificavo il mio senso di marginalità con quello cantato da queste performer tristi e sconsolate: né io né la pop star di turno sapevamo chi fossimo, ma lo avremmo tanto voluto. Se eravamo infelici, lo eravamo in modo simile, solo che lei in qualche modo era riuscita a conquistarsi l’amore e l’adorazione di tutti, persino i miei. Se avessi imparato a comportarmi come lei, a imitarne le mosse, anche io avrei ottenuto spazio in un mondo che, apparentemente, non era fatto per persone come noi. Quale fosse il mio ruolo nel mondo, tra l’altro, me lo stava insegnando lei: il senso di marginalità che provavo era reale, ma soprattutto indotto; era lei che mi assicurava che quello era il mio posto e io di lei mi fidavo. Ma c’era e c’è anche altro – ed è che piangere e lamentarsi, essere ragazzine nella versione più mediatica e arrendevole possibile, con lei smetteva di essere un peccato e si tramutava in una forma di soft power che le ragazze potevano e dovevano imparare a usare. Come ragazza cresciuta negli anni Novanta, so che non c’è niente di più attraente e ineludibile di una diciottenne che canta di fronte a una platea. Un cuore spezzato nel modo giusto può farti guadagnare milioni.
È utile notare però come le cose siano cambiate nell’ultimo decennio, come le cantanti, per esempio, non si presentino più svestite, sessualizzate e infantili: oggi Alizée fa impressione, ci cospargiamo il capo di cenere per il modo in cui abbiamo trattato Britney Spears e spedito quasi tutte le cantanti e le attrici in rehab. Al contrario di quanto accadeva in Non è la Rai, le quindicenni non hanno bisogno di un autore che bisbigli loro nell’orecchio cosa dire e Olivia Rodrigo e Taylor Swift hanno più potere sulla propria immagine di quanto chi le ha precedute abbia mai avuto, per non parlare di quello economico. Adesso le pop star sono imprenditrici di loro stesse, manager, girlboss e perfino politicizzate: non sono più le appendici dei loro discografici, anzi, i discografici li mandano al diavolo e si riprendono quanto gli spetta. Se fino ai tardi anni Dieci la pop star è stata la perfetta ancella del capitale, con l’avvento del #MeToo le ragazze hanno cominciato a portare maglie con scritto che il futuro era femmina e forse anche Dio. Come direbbe Beyoncé, «Who run the world? Girls!».
Le pop star di quest’èra sono forti e coraggiose, rompono le gabbie in cui erano state rinchiuse; non più ragazze della porta accanto, ma potenti e desideranti, ai loro ascoltatori insegnano la ribellione, a sfuggire alle storie d’amore insoddisfacenti, a collezionare amanti senza prestare attenzione agli stereotipi di genere – tutto quello che fanno è per loro stesse. Niente di più diverso dall’ossessione per la verginità delle pop star del ventennio precedente, non solo in termini di morale, ma anche per come viene affrontato il pubblico scrutinio. Sensuali, ma di una sensualità consapevole, queste ragazze non sono lì a pregare nessuno, né a chiedere scusa. Sono emancipate, si mantengono da sole, si dicono femministe. È cambiato il mondo. O forse no.
Nel caso delle pop star anni Duemila, questa attenzione sembrava ledere le stesse ragazze, manipolate a sacrificarsi affinché qualcun altro guadagnasse dalla loro immagine e il pubblico godesse della loro giovinezza. Apparivano eterodirette, burattini che eseguivano ordini impartiti da altri, vittime gettate nella fossa dei leoni e poi giudicate per la fine che facevano. Britney Spears, Christina Aguilera, Lindsay Lohan: tutte hanno seguito questa specifica traiettoria, e ancora prima le pin-up, Marilyn Monroe con le sue varie emuli, e tutte le lucky girls che piangevano in privato.
Nella loro nuova e scintillante versione, tuttavia, al ritmo di empowerment e autoaffermazione, se le cantanti continuano a convertire la loro persona in profitto, stavolta sono le azioniste di maggioranza, cioè godono dei dividendi di quello che producono. Di loro viene lodato il controllo che mantengono sulla propria immagine, le capacità imprenditoriali, il fatto di essere abili nell’accumulare attenzione, profitto e fama, non subendo questo processo, ma gestendolo in modo indipendente.
La grande trasformazione insomma sembra avere a che fare più con chi controlla e gode del potere che con un cambiamento reale di paradigma. Dietro alle trasformazioni culturali, allo spazio lasciato alle donne e alla loro capacità auto imprenditoriale, all’arrivo delle prime miliardarie self-made e dei modelli rinnovati di femminile, resta un sistema economico immutato nelle sue strutture essenziali, come immutato è anche il prodotto su cui fare profitto – è sempre la propria persona, la capacità seduttiva e attrattiva. Persino i corpi non conformi quando sono accettati vengono descritti sempre dentro la cornice dell’attrattività obbligatoria, quelli non giovani come ancora sensuali: è possibile sconfiggere l’ageismo attraverso la produttività perpetua? La sessualizzazione attraverso la sensualità?
La gestione della propria immagine è ancora una volta manageriale e continua a essere necessario mostrarsi seduttive, seppur più risolute, per catturare la nostra instabile attenzione. Il capitale sessuale sarà anche nelle mani delle pop star, invece che nelle mani degli altri, ma quello che si rivendica è un ruolo attivo, invece che passivo, nello sfruttamento economico della propria immagine. Ai posti di potere non ci sono più discografici e agenti, ma direttamente le ragazze: è il camuffamento di strutture di profitto che, invece di operare dall’alto verso il basso, adesso sono attive a livello individuale. Ognuno può essere capo di sé stesso, padrone del proprio sfruttamento: non vale solo per le pop star, le celebrità, gli influencer, ma per chiunque consideri la propria persona un brand da cui estrarre profitto.
Valutiamo positivamente le figure che «si fanno da sole», a partire dalla propria persona, dal proprio corpo, grazie alla costanza, alla tenacia e alla capacità di sacrificarsi, qualità tendenzialmente legate al femminile che, specialmente se decontestualizzate, sono false virtù. Quando Beyoncé chiede chi guida il mondo e ci risponde che a farlo sono le ragazze, che «siamo abbastanza intelligenti per fare i milioni, abbastanza forti per fare figli e poi tornare a fare business», quello che intende è che la ragazza è il modello economico produttivo perfetto, «la merce ideale», capace di garantire guadagno infinito, senza sprechi. Oggi la ragazza ha vinto, ha trasformato tutto il mondo a sua immagine: ogni cosa è femminilizzata, cioè ogni cosa è messa a frutto o valutata in termini di profitto, tutti partecipiamo alla distribuzione autoritaria dei ruoli capitanata dalla Jeune-Fille.
Si avvera quanto scriveva il collettivo Tiqqun: «Quando lo Spettacolo prova a fare “l’elogio della femminilità”, o constata più banalmente “la femminilizzazione del mondo”, non bisogna aspettarsi che la promozione subdola di tutte le servitù e della constatazione dei “valori” che gli schiavi fanno finta di avere».