Secondo l’urbanista Carlos Moreno, ogni cittadino deve poter raggiungere i servizi essenziali in quindici minuti. Secondo i complottisti, dietro a questo concetto c’è un piano segreto per trasformare le città in campi di concentramento.
È il tardo pomeriggio del 6 dicembre 2023 quando un boato squarcia la tranquillità di Sidcup, un sobborgo nella zona sud-est di Londra. Non si tratta di fuochi d’artificio o di un grosso petardo: è un ordigno artigianale, piazzato per distruggere una telecamera che serviva a far rispettare la cosiddetta Ulez (Ultra low emission zone), la zona a traffico limitato che dallo scorso 29 agosto è stata estesa a tutta l’area della Grande Londra. Un residente, in un video circolato sui social, ha parlato di «un’esplosione da Seconda guerra mondiale». Oltre ad aver disintegrato la telecamera, la bomba ha danneggiato un furgone parcheggiato in strada e il telaio della finestra di un’abitazione. Le conseguenze potevano essere decisamente peggiori. «Qualcuno poteva rimanere gravemente ferito o peggio», ha detto la polizia in un comunicato. Le stesse forze dell’ordine hanno parlato di «atto intenzionale». Dodici giorni dopo, il 18 dicembre del 2023, l’unità anti-terrorismo ha individuato e arrestato i responsabili: sono due uomini di sessant’anni, uno di Sidcup e l’altro di Horsham, una città nella contea del West Sussex. Due persone, insomma, che non rientrano nel profilo del bombarolo provetto. Tuttavia, il loro gesto estremo ha senso se viene calato nel più ampio contesto della mobilitazione anti-Ulez. La misura – che vieta la circolazione ai veicoli più inquinanti, costringendo i conducenti di questi mezzi a versare un ticket giornaliero di 12,5 sterline – è da sempre divisiva. Da un lato è ritenuta efficace per ridurre l’inquinamento (e i dati ufficiali lo confermano); dall’altro è considerata l’ennesima imposta regressiva e discriminatoria che scarica verso il basso i costi della crisi climatica. Questa dicotomia è fotografata da un sondaggio di YouGov, in cui emerge che il 42 per cento dei londinesi si dice contrario all’espansione della Ulez. La percentuale sale però al 51 per cento tra chi vive in periferia, ed è dunque direttamente coinvolto.
L’allargamento della Ulez non è infatti visto come una misura antinquinamento, ma come il primo passo verso l’instaurazione di una vera e propria dittatura urbana chiamata “città dei 15 minuti”.
Fin da subito, le proteste contro la zona a traffico limitato hanno assunto varie forme. In quelle più pacifiche, i manifestanti sono scesi in strada criticando il sindaco Sadiq Khan e indossando dei buffi costumi da dinosauro – una mossa che serve sia ad attirare l’attenzione mediatica, sia a bloccare la visuale delle telecamere installate sul tetto dei furgoncini comunali. Poi c’è un lato, per l’appunto, molto più radicale. Secondo i dati della polizia londinese riferiti alla fine del 2023, quasi mille telecamere Ulez sono state danneggiate o rubate nell’arco di appena sette mesi. Questi atti di vandalismo sono esplicitamente rivendicati sui social. In un video – circolato ampiamente su varie piattaforme – un uomo si vanta di aver rubato decine di telecamere e spiega gli strumenti utilizzati, invitando le persone a unirsi alla lotta per «riprendersi il Paese». In un’intervista a Talk TV, un altro afferma di averne distrutte oltre 150 e di essere pronto ad andare in prigione. «Siamo come un branco di lupi solitari», ha spiegato. «A volte lavoriamo insieme, a volte da soli. Non ci fermeremo finché loro [Kahn e il comune, NdA] non si fermeranno». Tra di loro, i sabotatori delle telecamere Ulez si chiamano “blade runners”. Proprio come i detective del celebre film di Ridley Scott del 1982, tratto dal racconto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick. E come in un romanzo di Dick, anche in questa vicenda c’entrano le cospirazioni – soprattutto immaginarie.
Moreno parte da un assunto piuttosto intuitivo: in questo momento storico le città «ospitano la maggior parte della popolazione mondiale», e in futuro saranno destinate a ospitarne ancora di più. La loro centralità sociale, culturale e politica è però costantemente minacciata dalla cattiva pianificazione, dalle diseguaglianze, dall’inquinamento, dalla tirannia dell’automobile e soprattutto dalla crisi climatica.
L’allargamento della Ulez non è infatti visto come una misura antinquinamento, ma come il primo passo verso l’instaurazione di una vera e propria dittatura urbana chiamata “città dei 15 minuti”. Ovviamente, il concetto urbanistico in sé non ha nulla di terrificante, inquietante o anti-democratico. È stato coniato nel 2016 dal professore franco-colombiano Carlos Moreno, che ha espanso il tema nel saggio La città dei 15 minuti. Per una cultura urbana democratica, uscito nel 2020 in Francia con il titolo Droit de cité: De la “ville-monde” à la “ville du quart d’heure” e recentemente pubblicato in Italia da add editore. Moreno parte da un assunto piuttosto intuitivo: in questo momento storico le città «ospitano la maggior parte della popolazione mondiale», e in futuro saranno destinate a ospitarne ancora di più. La loro centralità sociale, culturale e politica è però costantemente minacciata dalla cattiva pianificazione, dalle diseguaglianze, dall’inquinamento, dalla tirannia dell’automobile e soprattutto dalla crisi climatica. Per l’urbanista, dunque, «è fondamentale capire che dobbiamo abbandonare lo stile di vita del XX secolo, considerando l’impronta ecologica che produciamo». E perché la nostra vita cambi, aggiunge, «le nostre città devono cambiare». Il modello proposto è quello di una città «policentrica e multifunzionale» che riesca ad «avvicinare i servizi alle persone, dare più importanza al locale, ricomporre i rapporti di vicinato, uscire dallo status sociale imposto dal mondo del lavoro che umilia i disoccupati, abbandonare un modello di città divisa per generi in cui l’automobile è associata al maschile per ritrovare l’amore dei luoghi». Per fare ciò, prosegue, ciascun cittadino deve poter accedere in quindici minuti – «a piedi o in bicicletta o con una mobilità a zero emissioni» – ai «sei bisogni essenziali della vita»: abitare; lavorare; rifornirsi; mantenersi in forma; imparare; divertirsi. In altre parole, chiosa Moreno, la “città dei 15 minuti” rappresenta una «città ecologica, umana e giusta».
Come hanno rilevato diversi urbanisti, la teoria non è nuovissima e in certe parti del mondo esiste già da tempo in varie forme. Dopo i lockdown e le restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, che hanno costretto le amministrazioni e la cittadinanza a ripensare il rapporto con le proprie città, ha riscontrato un crescente successo. Nel 2020 la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo – di cui Moreno è consulente – ha inserito la teoria nel suo programma elettorale, seguita a ruota da altri amministratori di altre città europee (tra cui Roberto Gualtieri e Beppe Sala). Nel 2022 il concetto è stato definitivamente consacrato al summit annuale del C40, una rete globale composta da 97 grossi centri urbani. Al di là di certi apprezzamenti politici, non è un modello esente da critiche. Il rischio principale è che una sua applicazione meccanica – slegata cioè dalle specificità dei contesti locali – possa escludere ancora di più i quartieri marginali e i loro abitanti, amplificando così diseguaglianze, segregazione e fenomeni speculativi. L’altro grosso rischio è legato alla sua ricezione. Se la popolazione non si sente pienamente coinvolta nella pianificazione dei luoghi in cui abita, o peggio ancora la percepisce come un’imposizione tecnocratica calata dall’alto, è fisiologico aspettarsi delle resistenze. Lo stesso Moreno è consapevole che l’implementazione potrebbe non essere così indolore. «Serve pazienza e una rotta chiara e determinata», scrive nel saggio, «e serve soprattutto che i cittadini accettino di convivere con gli inconvenienti della trasformazione».
Ciascun cittadino deve poter accedere in quindici minuti – «a piedi o in bicicletta o con una mobilità a zero emissioni» – ai «sei bisogni essenziali della vita»: abitare; lavorare; rifornirsi; mantenersi in forma; imparare; divertirsi. In altre parole, chiosa Moreno, la “città dei 15 minuti” rappresenta una «città ecologica, umana e giusta».
Ecco: a queste critiche si sono rapidamente affiancate le teorie del complotto, che hanno creato una sorta di «doppio agghiacciante» – per usare una definizione del filosofo Paolo Virno – della «città dei 15 minuti». Che non sarebbe più un modello urbanistico pensato per rendere più vivibili e sostenibili i centri abitati, ma una gigantesca operazione di confinamento delle persone in quartieri-ghetto (o direttamente «campi di concentramento») da cui è impossibile scappare. Per i ricercatori dell’Institute for Strategic Dialogue, un think tank che si occupa di contrastare la disinformazione, siamo di fronte a una sorta di teoria-Frankestein che racchiude e combina elementi di altri narrazioni cospirazioniste – su tutte quelle antivacciniste, quelle contro le restrizioni sanitarie e quelle che negano la crisi climatica in corso. Stando a vari post sui social, la «città dei 15 minuti» sarebbe infatti un tassello del «Grande Reset», un’iniziativa promossa nella primavera del 2020 dal World Economic Forum che nel gergo complottista descrive un piano segreto di dominazione globale ordito da oscure élite. Se negli anni scorsi il pretesto per comprimere le libertà individuali è stato la pandemia di Covid-19, ora la scusa addotta dal potere è il cambiamento climatico – ossia un’altra falsa emergenza. E se i vaccini sono stati lo strumento con cui soggiogare la popolazione durante la pandemia, a implementare la “tirannia verde” adesso ci sono le telecamere Ulez, i filtri anti-traffico e altre tecnologie di sorveglianza.
Vista sotto quest’ottica, la città dei 15 minuti trasfigura in una smart city totalitaria – un concetto che, piuttosto paradossalmente, Moreno contesta duramente nel saggio. La più grossa insidia di questa teoria del complotto non sta tanto nel pervertimento del modello dell’urbanista franco-colombiano, quanto piuttosto nelle ricadute concrete sulle politiche ambientali. Ogni minima e timida misura – come lo sono le zone a traffico limitato – è infatti suscettibile di trasformarsi in una minaccia esistenziale. Se ne sono accorti in prima persona gli amministratori di Oxford, che all’inizio del 2023 sono finiti al centro di una forsennata campagna d’odio dopo aver approvato un progetto pilota che prevedeva l’installazione di sei filtri anti-traffico. A febbraio dello stesso anno, in città si è svolta una grossa manifestazione che – a detta del giornalista britannico Dave Vetter, presente sul posto – era un «miscuglio tossico» di complottismo di estrema destra, antisemitismo e negazionismo climatico.
Il rischio principale è che una sua applicazione meccanica – slegata cioè dalle specificità dei contesti locali – possa escludere ancora di più i quartieri marginali e i loro abitanti, amplificando così diseguaglianze, segregazione e fenomeni speculativi.
Ma le fantasie sulla “città dei 15 minuti” non si sono di certo fermate lì. Al contrario: fiutando l’opportunità politica, i conservatori hanno cavalcato le proteste e hanno aderito convintamente alle teorie del complotto sul tema. Secondo il Guardian, il governo di Rishi Sunak ha addirittura cancellato alcune misure anti-traffico e anti-inquinamento sulla base di quelle teorie. E il deputato dei Tories Iain Duncan Smith è arrivato a difendere i sabotatori delle telecamere Ulez, dicendosi «contento» delle loro azioni «perché affrontano un’imposizione che non vuole nessuno e su cui sono state raccontate delle menzogne. La gente ne ha abbastanza». Inevitabilmente, l’ostilità nei confronti della “città dei 15 minuti” si è riversata sullo stesso Moreno. In un’intervista al New York Times, l’urbanista ha confidato di aver ricevuto minacce di morte e offese di ogni tipo. «Non ero più un ricercatore: ero Pol Pot, Stalin e Hitler, il nemico pubblico numero uno», ha raccontato. «Eppure io non sono un politico, non sono candidato a nulla. Ed è del tutto incredibile che degli accademici possano ricevere delle minacce di morte per il loro lavoro». In un grottesco ribaltamento della realtà, insomma, la “città dei 15 minuti” immaginata dai complottisti si sta sovrapponendo a quella immaginata dall’urbanista, arrivando persino a soppiantarla in certe parti del mondo fisico e digitale. Ma dopotutto, come ha scritto lo stesso Moreno nel suo saggio, «quello che l’uomo costruisce genera anche il suo contrario» – ossia «la distopia» e «il sogno che diventa incubo».