Cormac McCarthy al Santa Fe Institute. Tragedia e complessità

Einaudi

Gli ultimi romanzi dello scrittore americano Cormac McCarthy parlano di matematica, fisica e della dissoluzione della razza umana. C’è forse un’ambigua speranza che l’autore ha voluto consegnarci come un messaggio criptato da interpretare con nuovi occhi? McCarthy ha scritto questi romanzi in costante dialogo con il Santa Fe Institute, centro nevralgico delle scienze della complessità: quale rapporto c’è stato fra un narratore di tragedie e l’impresa di trovare ordine nei sistemi caotici? 

Da Quants numero 14, 2024

Gli ultimi due romanzi di Cormac McCarthy, Il passeggero e Stella Maris (2022) compongono un dittico che costituisce il testamento letterario dello scrittore americano. Testi di difficile interpretazione, i due libri narrano le vicende simmetriche e complementari di Bobby Western e Alicia Western, due personaggi intelligentissimi figli di un fisico che aveva preso parte al progetto Manhattan assieme a Edward Teller, Oppenheimer e John von Neumann. Bobby è un fisico mancato, divenuto poi pilota e infine sommozzatore. All’inizio de Il Passeggero lo troviamo invischiato in un misterioso caso di sparizione mentre insieme ai suoi colleghi cerca di recuperare i resti di un aereo sommerso. Alicia è una matematica che si occupa di topologia e teoria dei topoi e che decide di farsi internare presso l’istituto di Stella Maris – l’omonimo libro è un lungo dialogo fra lei e il suo psicologo, il dottor Cohen. 

Il passeggero e Stella Maris sono pubblicati più meno nello stesso periodo in cui escono Oppenheimer di Cristopher Nolan e Maniac diBenjamin Labatut. Queste opere hanno in comune una riflessione su un momento epocale della storia umana: la scoperta dell’energia atomica e il suo utilizzo a fini bellici da parte degli Stati Uniti. McCarthy arriva a dire che bisogna essere stupidi per non capire come un tale evento – il progetto Manhattan – sia da collocarsi sullo stesso piano della scoperta del fuoco e dell’instaurazione dell’agricoltura. 

Se si dovesse trovare il cuore dei due romanzi di McCarthy, più che nelle speculazioni matematiche e fisiche, sembra che il nucleo narrativo sia il problema della colpa.

Dal progetto Manhattan, il lato oscuro, emergerebbe un lato chiaro – il Santa Fe Institute, una sorta di dipartimento universitario transdisciplinare dedicato allo studio dei sistemi complessi. Se tale istituto inizialmente raccoglie i fisici precedentemente impegnati a costruire la bomba atomica, nel corso degli anni inizia ad accogliere economisti, biologi, fisici e chimici e chiunque abbia qualcosa d’interessante da dire sui “sistemi complessi”. Da notare che il Santa Fe è situato in quella desertica regione del Nuovo Messico perché, come si vede nel film di Nolan, era un posto amato da Oppenheimer. 

Cosa fanno al Santa Fe e perché Cormac McCarthy ha deciso di trascorre l’ultima parte della sua vita in costante dialogo con studenti e professori di questa strana università? È difficile dire cosa sia la complessità, probabilmente il modo migliore per definirla è dire che si tratta di un termine volutamente ambiguo e polisemico, e allo stesso tempo attraente. Complessità è lo studio di fenomeni che manifestano invarianze e variazioni a scale diverse. È un metodo che si vuole interdisciplinare, ma spesso impiega modelli mutuati dalla fisica (cioè riduzionistici) per spiegare fenomeni come la decadenza delle civiltà, il traffico nelle metropoli o l’origine della vita. In un certo senso il Santa Fe è il figlio dell’ultimo lascito del matematico ungherese John Von Neumann – gli automi cellulari – ovvero il tentativo di simulare con l’aiuto del computer e con il modello matematico della macchina di Turing, organismi digitali. Situato nel deserto del Nuovo Messico, il Santa Fe è una specie di monastero, una macchina per pensare e discutere di cose fondamentali con persone interessanti, ricordano McCarthy e David Kracauer (attuale presidente dell’istituto) in una recente intervista. 

Cormac McCarthy è sempre stato interessato agli apporti delle scienze dure, e al Santa Fe ha trovato il modo di approfondire i suoi interessi attraverso dialoghi, conversazioni e interventi nella redazione di libri, articoli e saggi di vari scienziati. Per questa ragione, Il passeggero e Stella Maris sono repleti di inside joke fisici, matematici e filosofici (principalmente riferiti a Wittgenstein). 

McCarthy ha una conoscenza precisa del fatto che nella filosofia della matematica contemporanea lo statuto degli enti che i matematici manipolano, scoprono o inventano sia problematico.

Se si dovesse trovare il cuore dei due romanzi di McCarthy, più che nelle speculazioni matematiche e fisiche, a me sembra che il nucleo narrativo sia il problema della colpa. Bobby e Alicia hanno una relazione incestuosa – lei lo ama, e lui cerca di rifiutarla, ma, quando la sorella muore, decide di restare in una condizione di lutto perpetuo. Alicia sembra non avere colpe, a parte quella di essere nata perfetta, o singolare. La sua conoscenza e il suo amore per la matematica superano ogni cosa, anche se la ritiene una operazione futile, perché cerca di stabilire con segni e formule qualcosa d’inafferrabile e fluido. Nell’intervista con Kracauer, McCarthy fa emergere il suo senso di fascinazione per tutto ciò che è intelligente, siano questi singolari individui, come matematici e fisici, o animali come elefanti, balene, delfini e lupi. Tuttavia, il problema filosofico della colpa si manifesta nei due romanzi attraverso una tematica di fondo che è gnostica, come nei romanzi di Philip Dick. Il mondo è una prigione dell’anima e l’unica via di salvezza sembra essere la conoscenza – ma tale conoscenza ha le sue colpe, e il fatto che i figli di un fisico che ha lavorato a un progetto distruttivo come quello della costruzione della bomba atomica siano macchiati da tale peccato è evidente. 

Alicia ha delle allucinazioni con le quali parla di fisica, filosofia e teologia, ma il lettore viene messo in dubbio sul fatto che queste siano realmente delle proiezioni della sua mente o delle visitazioni aliene. Ad un certo punto de Il passeggero, Bobby si trova a conversare con il Talidomide kid, l’allucinazione più loquace della sorella, che ha lo strano aspetto di un bambino malformato (il talidomide è un sedativo che se somministrato a donne gravide produce deformità dei feti). Il kid parla con Alicia in un linguaggio schizofrenico, e come il jester in una commedia shakespeariana, esprime la verità con la semantica dello scherzo. Ma il Kide le sue coorti (altri personaggi immaginari che lo accompagnano) rappresentano la proiezione del funzionamento dell’inconscio di Alicia. E tale inconscio, afferma McCarthy nel suo unico saggio teorico, Il problema di Kekulé, non è linguistico. Il Kid sembra anche legato al misterioso passeggero sparito dall’aereo recuperato da Bobby all’inizio di, appunto, Il passeggero. Il Kid è una figura tecno-teologica, situata a metà strada tra gli arconti e i manovratori della simulazione che è il nostro universo. Infine, il Kid ha anche le caratteristiche tipiche di una voce allucinata che tratta le persone folli in modo sgarbato, rimbrottando e commendando cinicamente le loro scelte errate. 

Che le allucinazioni di Alicia siano denominate ‘coorti’, abbreviato in “orti”, è significativo, come tutto nel dittico di McCarthy, perché, come ci viene spiegato, “ort” in tedesco vuol dire luogo, e Alicia studia la topologia matematica e i topoi di Grothendieck. Le allucinazioni assumono quindi una strana consistenza, a metà strada tra demoni e figure aliene, ma che appartengono anche all’inconscio e alla strutturazione del pensiero matematico. L’inconscio, nelle parole di Alicia e di McCarthy, è una macchina per risolvere i problemi individuali di sopravvivenza della nostra specie. Ma l’inconscio si esprime in modo cinematografico e metaforico. Il matematico va a dormire, sogna, e la mattina il problema si è risolto da sé: dove ha preso queste conoscenze la mente? 

Vi è una strana dissonanza tra il pessimismo gnostico di McCarthy e l’ottimismo volontarista del Santa Fe Institute.

Penso che McCarthy abbia una conoscenza precisa del fatto che nella filosofia della matematica contemporanea lo statuto degli enti che i matematici manipolano, scoprono o inventano sia problematico. E non è un caso che Alicia menzioni gli ultimi scritti di Kurt Gödel e di Grothendieck, dove la questione degli enti matematici è trattata in modo platonico, al punto che Gödel attribuisce qualcosa come una “vita” ai concetti matematici. 

McCarthy ha voluto discutere, per mezzo di espedienti narrativi, un problema di ordine filosofico che è al centro delle ricerche del Santa Fe, ovvero: l’origine del linguaggio umano. Il problema, nuovamente, può essere osservato da due punti di vista – un punto puramente scientifico (qual è la sua origine?) e un punto morale (è stato un bene o un male?). 

«Ma mi pare lei abbia suggerito che l’avvento del linguaggio, al di là della sua enorme rilevanza, sia stato devastante. Molto devastante. Proporzionalmente alla sua rilevanza. Distruzione creativa. Sono certamente andati persi talenti e abilità di ogni tipo. Perlopiù comunicativi. Ma anche cose come l’arte della navigazione e probabilmente perfino la ricchezza dei sogni. Alla fin fine questo strano nuovo codice deve aver almeno in parte sostituito il mondo con quello che se ne può dire. La realtà con l’opinione. Il racconto con l’approfondimento.

E la sanità di mente con la follia, non dimentichiamolo.

No. Non lo dimentico.

E l’avvento della guerra universale»(Stella Maris). 

«Alla fine, aveva detto, non ci sarà niente che non possa essere simulato. E sarà il superamento definitivo del privilegio. Questo è il mondo che verrà. Non un altro»(Il passeggero).

Vi è una strana dissonanza tra il pessimismo gnostico di McCarthy e l’ottimismo volontarista del Santa Fe Institute. In una recente intervista tra lo scrittore e Werner Herzog, McCarthy scherza sul fatto che, sebbene egli dipinga con toni tetri (grim) il futuro della nostra specie (ed Herzog condivide questa visione), la grande arte del passato ha sempre avuto questa funzione. In particolare McCarthy rimanda alla tragedia, che, nella parole della Poetica di Aristotele è: 

«Mimesi di un’azione elevata e compiuta in sé stessa, dotata di grandezza, con un linguaggio che dà piacere con ciascuna specie di abbellimenti separatamente nelle parti, di persone che agiscono e non con una narrazione, la quale, tramite pietà e terrore, porta a compimento la purificazione delle passioni proprie di questo genere di azioni» (Aristotele, Poetica). 

«Se si guarda alla letteratura classica, il nucleo della letteratura è l’idea di tragedia, e questo è – sapete, non si impara molto dalle cose belle che ci accadono. Ma la tragedia è al centro dell’esperienza umana ed è ciò con cui dobbiamo fare i conti. È ciò che rende la vita difficile ed è ciò che conosciamo. È ciò che vogliamo sapere come affrontare. È inevitabile. Non si può fare nulla per evitarlo. Allora come si fa ad affrontarlo? Tutta la letteratura classica ha a che fare con cose che accadono a persone che preferirebbero non gli fossero accadute». (Cormac McCarthy) 

Vi è una oscillazione, nella parole di McCarthy, tra gli aspetti distruttivi e quelli salvifici della parola: da un lato il linguaggio è questo parassita che s’insinua nella mente di una peculiare scimmia e la rende capace di controllare l’ambiente e di sostituire la natura con nomi e artefatti, dall’altro, la narrazione è l’occhio poetico su questa distruzione. Che «tutto potrà essere simulato» stabilisce una affermazione dal sapore agrodolce sulle intrecciate paure e speranze rispetto all’intelligenza artificiale – tema che, non serve dirlo, è stato per decenni al centro delle ricerche del Santa Fe. Qual è, quindi, il valore della poesia e dell’arte (anch’esse forme d’imitazione ricorda Aristotele) in un’epoca di simulazione/devastazione dell’esistente? McCarthy fa una poesia della matematica e della fisica, ma fa anche una poesia della desolazione e della distruzione: esattamente come se stesse ricopiando il passo della Poetica sulla tragedia, egli osserva la natura estetica degli effetti di una bomba atomica. 

«Chi sopravvisse spesso ricordava quegli orrori come dotati di un certo valore estetico. In quello spettro fungoide che sbocciava nell’alba come un maligno fiore di loto e nella fusione di solidi fino ad allora ignota risiedeva una verità che avrebbe silenziato la poesia per mille anni. Come un’enorme vescica, dicevano. Come una cosa marina. Tremolava appena sul vicino orizzonte. Poi quel rumore terribile. Videro uccelli nel cielo albeggiante prendere fuoco ed esplodere silenziosamente e cadere in lunghi archi verso terra come cotillon in fiamme» (Il passeggero). 

Si noterà che anche questa è un’arte di sostituzione: la bomba diventa un “fiore di loto”, seppur “maligno”. Cosa non troppo distante dal ricordo della Bhagavadgītā di Oppenheimer. Eppure questa “verità” silenzia “la poesia”, e quest’affermazione risuona con le interviste di McCarthy in cui lo scrittore dice che la sua fascinazione per le scienze dure nasce dal fatto che queste possono indicare la verità sull’universo, anche se questa verità è orribile. 

È possibile ritrovare una strana coincidenza tra l’esergo di una raccolta di articoli chiave del Santa Fe Institute (Worlds hidden in plain sight) e la conclusione de Il passeggero. Il volume, curato da Kracauer, comincia con una citazione da un saggio di Calvino, Collezione di sabbia, dove viene descritta l’opera di un’artista che raccoglie e tassonomizza tipologie di sabbie provenienti dai deserti e dalle spiagge del mondo. Questa opera di archiviazione del reale ha, per Calvino, una singolare caratteristica profetica e scientifica. 

«Si ha l’impressione che questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa d’importante: una descrizione del mondo? un diario segreto del collezionista? o un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Tutto questo insieme, forse […] Così decifrando il diario della melanconica (o felice?) collezionista di sabbia, sono arrivato a interrogarmi su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita, quella sabbia che adesso mi appare tanto lontana dalle spiagge e dai deserti del vivere. Forse fissando la sabbia come sabbia, le parole come parole, potremo avvicinarci a capire come e in che misura il mondo triturato ed eroso possa ancora trovarvi fondamento e modello» (Italo Calvino, Collezione di sabbia).

Allo stesso modo, dalle macerie della desolazione creata proprio dalla bomba atomica, il Santa Fe cerca di correggere il mondo e i danni a esso arrecati, producendo modelli, simulazioni, speculazioni. Tutto questo nel bel mezzo di un deserto, su territori precedentemente occupati dagli antichi Pueblo. I quali, come noi, hanno cercato di trovare ordine e bellezza nel mondo, e ci hanno lasciato architetture astronomicamente orientate, petroglifi e simboli da interpretare. 

«Le età dell’uomo che corrono da tomba a tomba. Dei conti su una lastra di ardesia. Sangue, oscurità. Un residuo di bambini morti su una tavola. Le stratificazioni rocciose del mondo con le loro impronte fossili di forma e quantità illimitate. I petroglifi moderni di mio padre e la gente sulla strada nuda e urlante […] Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta» (Il passeggero). 

Dalle rovine può sorgere qualcosa come un nuovo modello, un nuovo ordine ai bordi del caos, per usare un’espressione cara agli scienziati della complessità.

L’amara riflessione di McCarthy sulla finale destituzione della razza umana si colora di tinte elegiache e di un sentimento di pietà che, ancora seguendo Aristotele, è evocato tra le passioni di chi legge per mezzo della descrizione, poetica e tragica, della singolare fine di Alicia. Bobby conserva il ricordo della sorella e amante, oramai morta suicida da tempo, e desidera esprimerlo in una lingua sconosciuta. Una lingua che è quella dell’inconscio, non nel senso del codice e della simulazione, ma come una forma istintuale di narrazione originaria. Forse le osservazioni di Calvino sul messaggio della collezionatrice di sabbie ci possono aiutare a stemperare l’amarezza dello scrittore americano, dato che dalle rovine può sorgere qualcosa come un nuovo modello, un nuovo ordine ai bordi del caos, per usare un’espressione cara agli scienziati della complessità. E forse il segreto dei due testi di McCarthy è celato tra gli enigmi del Kid, che è rappresentazione del teatro dell’inconscio, ma anche ultimo tentativo di poesia modernista nello stile di Joyce e di Eliot, uno strano stile comico-scientifico. 

Non so quanto le operazioni del Santa Fe siano tentativi di correggere il mondo attraverso modelli e previsione del rischio, o un tentativo di accelerare la dipartita della nostra specie, e non so nemmeno perché McCarthy si presenti allo stesso tempo come entusiasta rispetto ai progressi scientifici (nelle interviste) ed estremamente pessimista sia sul loro esito che sulla loro reale efficacia come strumento di analisi (nei romanzi). Le due motivazioni fornite sembrano elusive: 1. La tragedia ci insegna a rapportarci con gli errori, con le nostre scelte sbagliate e 2. Anche se le sue previsioni sono tragiche e melanconiche, è tipico degli esseri umani fare predizioni errate. 

Una cosa a cui McCarthy sembra aver obliquamente fatto allusione è che l’oggetto dello studio di Alicia, la teoria dei topoi del matematico francese Grothendieck, avrebbe potuto far germogliare un nuovo mondo di concepire la matematica e la scienza in generale. 

«La teoria dei topoi che ha messo a punto è un intruglio magico di topologia, algebra e logica matematica. Non ha nemmeno un’identità chiara. La forza di questa teoria è ancora in potenza. Ma c’è. L’impressione è che stia aspettando buona buona con delle risposte a domande che nessuno ha ancora formulato»  (Stella Maris).

«Quello che scrivi si fissa. Acquisisce i limiti di qualsiasi entità tangibile. Precipita in una realtà alienata dall’ambito della sua creazione. È un indicatore. Un cartello stradale. Ti sei fermato per orientarti, ma questo ha un prezzo. Non saprai mai dove sarebbe andato se l’avessi lasciato libero di andarci» (Il Passeggero).

Alicia aveva deciso di lasciare la matematica così come aveva deciso di abbandonare la sua tragica vita: senza lasciare tracce. Perché le tracce sono memoria e scrittura. E le tracce, anche se ricoperte dal tempo e quasi indecifrabili (come i messaggi dell’inconscio), sono una richiesta di interpretazione. Contravvenendo alle sue disposizioni, prima di uccidersi Alicia si mette un fiocco rosso per essere ritrovata – «una chiazza di colore nel rigore di quella desolazione» – un messaggio inscritto in una lingua ignota rivolto a coloro che verranno dopo, come l’ultimo canto di Bobby, come lo strano linguaggio allusivo del Kid, come i due libri di McCarthy. 

«Temere l’errore e temere la verità sono la stessa cosa. Chi teme l’errore è impotente di fronte alla scoperta. È quando temiamo di sbagliare che l’errore in noi diventa inamovibile come una roccia. Perché nella nostra paura ci aggrappiamo a ciò che una volta pensavamo fosse “vero”, o a ciò che ci è sempre stato presentato come vero. Quando siamo mossi non dalla paura di veder svanire una sicurezza illusoria, ma dalla sete di conoscenza, allora l’errore, come la sofferenza o la tristezza, passa attraverso di noi senza mai fissarsi, e la traccia del suo passaggio è una conoscenza rinnovata» (Alexander Grothendieck).

Dottore di ricerca in Studi Culturali presso l’Università di Palermo, scrive per diverse riviste on-line (L’indiscreto, Not, Singola, Che Fare). È membro della cooperativa La Scuola Open Source. Il suo primo libro Miti, Meme, Iperstizioni (2022) è pubblicato da Krill Books.