«Dove sei, lavoro bello?»

Neri Pozza

La nuova me di Halle Butler o del perché “girls just wanna have un lavoro sensato”.

da Quants n. 15 (2024)

«Possiamo definire quello delle “donne disturbate contemporanee” come un nuovo genere letterario?»; «suggeritemi un libro sul vivere da soli tra i venti e i trent’anni anni sopravvivendo alla monotonia della vita lavorativa»; «suggeritemi un libro sul non avere amici/vita sociale tra i venti e i trent’anni»; «romanzi con un protagonista solitario/depresso sotto i trent’anni anni se mi piacciono Donna Tartt, Ottessa Moshfegh e Ling Ma?».

A queste domande gli utenti Reddit in cerca di consigli letterari − e con un kink per la depressione − si sono visti tutti rispondere La Nuova Me di Halle Butler. Uscito nel 2019 ma arrivato solo lo scorso anno in Italia grazie a Neri Pozza e alla traduzione di Annalisa Di Liddo, La Nuova Me diventò quell’anno un piccolo caso editoriale americano, elogiato come uno dei romanzi più divertenti e definitivi della letteratura millennial da uno degli autori più divertenti di tutti come David Sedaris e da una giornalista definita a più riprese «la voce della generazione millennial» come Jia Tolentino. Protagonista del romanzo è la trentenne Millie che, sempre sull’orlo di un crollo psicologico devastante, passa intere giornate a svolgere task inutili in ufficio sperando di ottenere un indeterminato, mentre i benestanti genitori in pensione l’aiutano con l’affitto. Millie è senza amici, senza fidanzato, senza apparenti obiettivi e vive in un pressoché perenne “goblin mode”.

In un bell’articolo comparso su The Cut, Isabel Cristo sottolineava come il 2023 sia stato l’anno in cui il mercato «ha cercato di venderci una cosa soltanto, in mille forme diverse, e quella cosa è: essere una ragazza».

«In camera mi metto una tuta che ho dal liceo, tolgo le lenzuola dal letto, raccolgo i vestiti dal pavimento, puliti o sporchi non importa, li metto tutti nella cesta, metto i lenzuoli puliti sul letto, mi fermo un attimo a piangere e vomitare, raccolgo tutti i cuscini e le coperte dal resto dell’appartamento, prendo il computer, mi rannicchio e guardo la TV. Ordino una pizza. Prendo e perdo coscienza […] mangio la pizza, mi addormento con la TV accesa, mi sveglio con la TV accesa e ancora e ancora, sola e isolata come piace a me».

Millie beve caffè bruciato mentre cerca su Google quali cibi riducono lo stress; apre la casella di posta, vede tre messaggi non letti e questo la catapulta nella sua consueta giostra paranoica di emozioni; guarda la TV dal computer per avere compagnia, ma si immagina ascoltare musica preparando la cena perché questo è quello che farebbe una persona sana e matura, ma per ora ha bisogno della TV. Molte millennial si riconosceranno in lei e leggendo penseranno solo: relatable.

A tredici anni, così come a diciotto o a venticinque, non aver capito la ferocia del sistema − o comunque non saperne maneggiare bene la complessità, la ripetitività, a volte perfino lo schifo − è normale. A trent’anni non si dovrebbe averla almeno in parte digerita, quella complessità?

In un bell’articolo comparso su The Cut, Isabel Cristo sottolineava come il 2023 sia stato l’anno in cui il mercato «ha cercato di venderci una cosa soltanto, in mille forme diverse, e quella cosa è stata: essere una ragazza». Hot girl walk, sad girl book, girl pocket: da Barbie che riflette sulla morte ai moodboard con tutto quello che serve per avere un look da feral girl summer, si ride, si mema e si lucra su quanto sia divertente e angosciante essere una ragazza oggi. Anche Millie sembra rientrare nella categoria: cena con un pezzo di baguette stantia (tipico esempio di girl dinner) e impulsivamente compra vestiti nuovi nonostante abbia uno stipendio da dodici dollari all’ora e non riesca a pagarsi da sola l’affitto (tipico esempio di girl math). Dove sta il problema? Il problema sta nel fatto che Millie, in teoria, una ragazza non lo è più. Quando in Virgin Suicides il dottore chiede alla più piccola delle sorelle Lisbon come mai sia finita in ospedale così giovane per aver tentato il suicidio, Cecilia risponde con una frase entrata nell’immaginario (e probabilmente nel Tumblr) di ogni ragazza millennial: «Chiaramente, dottore, lei non è mai stato una ragazza di tredici anni». A tredici anni, così come a diciotto o a venticinque, non aver capito la ferocia del sistema − o comunque non saperne maneggiare bene la complessità, la ripetitività, a volte perfino lo schifo − è normale. A trent’anni non si dovrebbe averla almeno in parte digerita, quella complessità? Non Millie, che alla soglia dei trenta non è ancora riuscita a crearsi quelle strategie adattive, più o meno sane, di cui la maggior parte degli adulti si serve per sopravvivere, e continua a «puzzare di pizza alla cipolla» mentre si compara ad una collega che definisce «un’adulta vera, quarantacinque anni circa, collana e capelli lucenti color castano ramato».

Eppure, se come dice Rebecca Jennings su Vox, la condizione fondamentale per essere una ragazza è non avere marito né figli, non c’è da sorprendersi che Millie e tante altre millennial si identifichino ancora nella categoria sempre più estesa delle ragazze. Quando alla fine del romanzo ritroviamo Millie lavorare come Junior Office Manager, una dipendente più giovane, Alyssa, la osserva con repulsione, perché ai suoi occhi di ragazza essere una donna adulta non è per niente allettante. Se una ragazza può ancora scegliere chi diventare − se sposarsi, avere figli, una carriera, una casa, l’orientamento sessuale, le scuole da frequentare − essere una donna è noioso e nauseante perché implica avere uno spazio di manovra ristretto e dover fare i conti con le conseguenze, più che con le scelte.

Se una ragazza può ancora scegliere chi diventare − se sposarsi, avere figli, una carriera, una casa, l’orientamento sessuale, le scuole da frequentare − essere una donna è noioso e nauseante perché implica avere uno spazio di manovra ristretto e dover fare i conti con le conseguenze, più che con le scelte.

Ma che cos’è che rende Millie un’eterna ragazza così repellente, prosciugata e miserabile? Non è (solo) l’assenza di un compagno o di un’amicizia vera − il rapporto con la pseudo-amica Sarah non è altro che una disfunzionale e superficiale conversazione tra sorde – quanto piuttosto il suo lavoro del cavolo. Grazie all’agenzia interinale a cui capiamo presto che ha fatto appello varie volte, Millie trova un impiego a tempo determinato come assistente alla reception in uno showroom cool della città. Ha una supervisora, Karen (nomen omen), che la detesta dal primo giorno per il suo aspetto shabby ma non chic, ma soprattutto Millie odia il suo lavoro perché passa il suo tempo a fare praticamente niente.

«Dovrei rispondere al telefono, ma di fatto non suona mai. E devo graffettare questi fogli con una tecnica particolare».

Il «paradosso del lavoro contemporaneo», come lo ha definito l’antropologo e attivista statunitense David Graeber, è che se da un lato la maggior parte della gente odia il proprio lavoro, è ancora e sempre il lavoro a determinare l’autostima e la dignità della persona. Siamo stati abituati dalle serie tv come The Office e Parks & Recreation a sorridere dei tic dei colleghi e delle logiche perverse di quei microcosmi che sono gli uffici dei colletti bianchi, raramente a vederli per quel che sono in tutta la loro miseria, fatta di stipendi bassi, mobbing e monotonia alienante.

Siamo stati abituati dalle serie tv come The Office e Parks & Recreation a sorridere dei tic dei colleghi e delle logiche perverse di quei microcosmi che sono gli uffici dei colletti bianchi, raramente a vederli per quel che sono in tutta la loro miseria, fatta di stipendi bassi, mobbing e monotonia alienante.

«[…] Ora come ora il 37-40% dei lavoratori nei paesi ricchi ritiene di avere lavori privi di scopo. Grosso modo la metà dell’economia è fatta di, o esiste in funzione di, occupazioni senza senso».
Il saggio Bullshit Jobs, pubblicato da Graeber nel 2018, parte da questo dato allucinante per affermare la tesi secondo cui negli ultimi anni il numero di «lavori senza senso» − che definisce « occupazioni retribuite così inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così» − è aumentato vertiginosamente. Le domande più interessanti che Graeber si fa, però, sono altre: perché nessuno ne parla? E qual è il danno morale e spirituale provocato da questa situazione? Nessuno ne parla ma la letteratura ne scrive, visto che oltre a La Nuova Me sono parecchi i romanzi che recentemente hanno mostrato il mondo marcio del lavoro ai tempi del tardo capitalismo: da Temporary di Hilary Leichtel (Faber & Faber, 2020) a Fake Accounts di Laurent Oyler (Bompiani, 2022) fino a Un lavoro perfetto di Kikuko Tsumura (Marsilio, 2021). E i danni psicofisici sono esorbitanti, Millie ne è la prova tangibile. Alla sola prospettiva di vedere trasformarsi il suo contratto a tempo determinato in un indeterminato, Millie prova più angoscia che sollievo:
«Riesco a vedermi fare questo lavoro sul lungo periodo? Sento un ronzio nelle orecchie che cresce a poco a poco e mi creo scenari nella testa in cui ottengo un aumento di paga, apro un conto deposito e mi viene una depressione totale che dura anni e anni e finalmente mi distrugge».

Le domande più interessanti che Graeber si fa, però, sono altre: perché nessuno ne parla? E qual è il danno morale e spirituale provocato da questa situazione? Nessuno ne parla ma la letteratura ne scrive.

L’analisi di Graeber conferma che è difficile immaginare qualcosa di più avvilente dell’essere costretti a compiti burocratici inutili, e che chi è intrappolato a fare lavori senza senso è più incline ad andare incontro a episodi di depressione clinica o altre forme di patologie mentali, «per non parlare del fatto che non riesce a riprodursi».

Costretta a triturare vecchi documenti di cui non importa niente a nessuno o a sentirsi dire di prendere appunti su come accendere un computer, Millie in questo malessere ci sguazza ogni giorno: «Sono grassa, puzzo, nessuno mi ama, i miei vestiti fanno schifo, non combinerò mai niente, tutti intorno a me sono degli idioti, egoisti, giudicanti, stupidi, troppo stupidi per capire il danno che stanno facendo, troppo stupidi per sapere che dentro non sono felici, non come me, io lo so. Ha-ha-ha».

Come si può non essere almeno un po’ infelici se la cosa più sfidante che accade al lavoro è capire che non ci sarà nessuna sfida? In questo scenario, sostiene Graeber, «un dipendente deve essere molto solido per non iniziare a dubitare di sé». E Millie è tutt’altro che solida, e allora dubita, e dubita molto.

«Mi chiedo se non sia un misunderstanding della vita quello di cercare un senso».
«Voglio andare a casa. Ma non nel mio appartamento, nella mia casa di tredici anni fa, da mia madre, dire che la renderò orgogliosa, scusarmi, […] settare prima le mie aspettative. Abbassarle di parecchio».

Millie non pretende né il futuro né la piena automazione e non ha nessun idealismo o naïveté. Per lei non c’è alternativa all’annichilimento, all’ansia performativa divorante e alla ripetitività.

Milioni di volte abbiamo sentito dire che la generazione millennial a cui Millie appartiene ha standard di vita peggiori di quelli dei propri genitori e crede alla favola del lavoro sicuro come crede che le macchine voleranno o che tra pochi anni arriveremo alla settimana lavorativa di quindici ore. Abbiamo sentito milioni di prediche da destra e da sinistra contro millennial e Gen Z perché colpevoli anche solo di aver pensato di meritare altro. Forse Michele Serra definirebbe Millie una sdraiata, forse La nuova me è problematico perché la protagonista è un’occidentale bianca che non ha sul groppone un debito studentesco ma ha una laurea e due genitori dell’upper middle-class che la supportano economicamente e quindi non può fare la vittima innocente del capitalismo brutto e cattivo se c’è dentro fino al collo. Come fa notare Katie Bloom su The Nation, Millie è «sorprendentemente apolitica» per essere una dipendente sottopagata con un lavoro del cavolo, e così tutti quelli che la circondano: la società non esiste, i problemi sono individuali anche se, guarda caso, uguali per tutti («tutti i colleghi si lamentano del fatto che non hanno mai tempo e sono sempre oberati») e il risentimento monta dentro come bile («la gente si conforta, a sua insaputa, nella rabbia che la riempie»). Millie non pretende né il futuro né la piena automazione e non ha nessun idealismo o naïveté. Per lei non c’è alternativa all’annichilimento, all’ansia performativa divorante e alla ripetitività: «Tornata alla mia scrivania, mi siedo a racimolare lentamente i soldi che mi servono per pagare l’affitto dell’appartamento e il cibo, così da poter continuare a vivere e tornare in questa stanza e sedere a questa scrivania a racimolare lentamente altri soldi».

The New Me non sarà un romanzo dichiaratamente politico – così come non lo sono Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh (Feltrinelli, 2019) o Febbre di Ling Ma (Codice Edizioni, 2019), eppure anche Jia Tolentino quando l’ha recensito sul New Yorker ha citato il solito Realismo Capitalista di Mark Fisher (Nero Editions, 2018): «Quando abbiamo iniziato a considerare accettabile che così tante persone, soprattutto così tanti giovani, stiano male?».

Laureata in Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Torino, dopo diversi "bullshit job" scrive di musica e letteratura nel tempo libero (poco). Gestisce la pagina @late.20s in cui si parla di tutti i libri tranne "Una vita come tante".