Dai Beach Boys ad Ariel Pink passando per Daniel Johnston, il cosiddetto lo-fi – da low fidelity, bassa fedeltà – appartiene ormai alla storia delle musiche indie. Ma cos’è che ci appassiona di questi suoni sgranati e registrati in casa, che affogano squisite melodie pop in un impiastro di fruscii e riverberi involontari?
Pubblichiamo, per gentile concessione di Nero Editions, un ampio estratto dal capitolo 1 di Bassa Fedeltà: musica lo-fi e fuga dal capitalismo, nella traduzione di Tommaso Garavaglia.
Individuare un’origine è una faccenda rischiosa. Raramente è un’impresa innocente, o un’innocua identificazione dell’inizio di qualcosa. Più spesso diventa un modo per cercare archetipi, significati nascosti e basi solide. Scoprire l’origine di qualcosa è, in altre parole, un modo per controllare la cosa stessa, racchiudendo le sue mutazioni, le sue metamorfosi e i suoi cambiamenti in una linea retta che dal suo incipit conduce alla sua fine, lungo tutta la sua storia, in modo razionale e naturale. È abbastanza comune ascoltare storie e biografie raccontate come se fossero interamente strutturate a partire da un antico Big Bang, da un evento catastrofico o meraviglioso accaduto nelle acque torbide dell’infanzia del narratore. Un trauma o una fortunata coincidenza. La maggior parte di noi, se non tutti, vive con l’idea che Alan Moore mise in bocca al più famoso antagonista di Batman, il Joker: una giornata storta può fare o disfare completamente il carattere di qualcuno o di qualcosa, come se i microscopici spostamenti che avvengono nella nostra vita quotidiana non fossero nulla di fronte a questo criptico antefatto spuntato dal flusso caotico del tempo. E chi non è un appassionato di una buona origin story, dopotutto? C’è qualcuno che può dire in tutta onestà di poter resistere al fascino di un arco narrativo avvincente che, partendo da premesse appassionanti e definite, si conclude tra lacrime o risate?
Jean-Luc Nancy, filosofo dolorosamente consapevole della natura sconfortante delle origini, scrisse quello che potrebbe facilmente essere considerato un motto per chiunque cerchi di venire a patti con gli inizi e voglia dissipare il potenziale nefasto delle origin story: «L’origine è uno scarto». Come sempre accade nei momenti più belli della filosofia, il significato di questo motto è allo stesso tempo molto semplice ed enigmaticamente complesso. Se dovessi dare una versione sintetica di questa frase, probabilmente direi che ciò che Nancy cercava di trasmettere è che qualsiasi origine non è mai un destino nascosto, o l’apparenza di un percorso lineare e incrollabile, ma un processo dinamico che si increspa lungo una pluralità di percorsi e vicoli esistenziali che divergono reciprocamente l’uno dall’altro. Un inizio è sempre una vicenda discreta e plurale, tra tante altre «invasioni, lotte, saccheggi, travestimenti, stratagemmi» che esplodono tutt’intorno. Non c’è una verità criptica, c’è solo qualcosa che si distanzia dalle altre cose, dando il via alla propria esistenza. Ho sempre trovato quest’idea esaltante: nascere ed ereditare una storia non erano più maledizioni soffocanti, ma il liberarsi improvviso dell’esistenza di qualcosa dai limiti del resto del mondo. Si parte, liberi di mutare a proprio piacimento!
Secondo me e l’autore di quel post, il lo-fi derivava, in un certo senso profondo, dai Beach Boys e, più specificamente, dal rapporto difficile tra Brian Wilson, il capitalismo, la bellezza e il dolore.
Un ottimo esempio pratico di questo concetto è un post su Reddit sull’origine della musica lo-fi. È stato pubblicato il 29 settembre 2012 da un utente ora cancellato e dunque anonimo. L’ho letto per la prima volta mentre cercavo un incipit valido per il movimento lo-fi in generale e per questo libro in particolare. Mi ha colpito perché si trattava di un post che, tra l’altro, racchiudeva la mia stessa idea riguardo all’origine del lo-fi, nonché la mia ipotesi più naturale sulla sua nascita. Mostrava anche la pura impossibilità di sostenere che il lo-fi – o qualsiasi altra cosa, se è per questo – abbia un inizio preciso, facile da individuare nella storia tentacolare della cultura pop. Mi ci sono imbattuto in un folle attacco di bias di conferma, perché io e l’anonimo autore del post condividevamo la stessa intuizione, una sorta di teoria germinale sull’origine del lo-fi che covavo da un po’ di tempo: secondo entrambi, il lo-fi derivava, in un certo senso profondo, dai Beach Boys e, più specificamente, dal rapporto difficile tra Brian Wilson, il capitalismo, la bellezza e il dolore.
Il titolo del post recitava: «I Beach Boys hanno inavvertitamente istituito il lo-fi come estetica musicale alla fine degli anni Sessanta, dando forma ai dischi indie degli anni Novanta. Parliamone». L’utente ha contribuito alla discussione con ulteriori approfondimenti:
«Ecco i dettagli. È il 1967, Brian Wilson ha sprecato un sacco di soldi della Capitol per le sessioni abortite di Smile, ha subìto un esaurimento nervoso, è al verde, senza studio e ora senza il suo principale autore, ma i Beach Boys hanno ancora l’obbligo contrattuale di pubblicare [un] album durante l’anno. Si rintanano nel salotto di Brian e realizzano un album in un pomeriggio (o almeno così sembra dal disco); il risultato, Smiley Smile, ha praticamente portato la band fuori dalla corsa agli armamenti del progresso musicale che avevano contribuito ad avviare con Pet Sounds ed è ancora oggi oggetto di controversie (leggi: ODIATO). Quando si ascolta il disco si può quasi sentire il fumo della cannabis, come se fosse penetrato nel nastro magnetico durante la registrazione dell’album. Questo è il lo-fi, da parte di un gruppo mainstream, nel ’67. Non è un segreto che i Beach Boys abbiano avuto un’influenza massiccia sulla musica indie, ma hanno forse inventato anche il lo-fi come genere?».
Il lo-fi è sempre stato, fin dalla sua nascita, una parata carnevalesca attraversata da numerosi generi e da una schiera eterogenea di artisti, visionari e freak. Mi aspettavo davvero un esordio unico e netto?
Nonostante si tratti solo di uno schizzo grezzo e scheletrico, chiunque può notare che qui c’è una grande origin story, che sembra ricca di idee e illuminazioni non solo sul lo-fi come genere musicale, ma anche sul lo-fi come oggetto concettuale ed estetico interno alla scena musicale contemporanea e all’industria culturale capitalista nel suo complesso. Una storia con cui, per dirla in modo semplice, ho avuto sintonia a livello quasi istintivo – una good vibration, se vogliamo. Prefigurava la grandezza del lo-fi di Brian Wilson, la sua presenza incombente su tutte le successive evoluzioni del genere come una sorta di incarnazione archetipica del potenziale rivoluzionario del lo-fi, riempito fin dall’inizio dall’infuocato, e quasi estatico, malcontento di Wilson per il sistema in cui era così invischiato. Una pista promettente per la genealogia di questa strana creatura. Un buon punto di partenza per sondare le sue implicazioni politiche – e sicuramente un ottimo modo per narrare dove e quando questa strana entità è nata.
Ma un inizio è sempre una questione plurale e un altro utente ha risposto: «Non sono sicuro… I Velvet Underground, i primi due album da solista di Paul McCartney, The Basement Tapes, la Ditch Trilogy di Neil Young, Oar di Skip Spence, il Garage Rock nel suo complesso… credo sia troppo riduttivo ricondurre il lo-fi all’influenza di un solo album». Segue «anche Nebraska di Springsteen». Evidentemente, tutti questi suggerimenti erano più o meno corretti. Da Paul McCartney che scriveva piccole melodie pittoresche, perennemente strafatto di hashish e appartato fuori dalla civiltà da qualche parte in Scozia, come Unabomber nel Montana o Ludwig Wittgenstein in Norvegia, all’Americana scarna e degradata di Bruce Springsteen registrata su un economico Teac Portastudio: ognuno di questi suggerimenti era un inizio valido quanto qualunque altro. La stessa musica rock moderna affonda le sue radici nel lo-fi: le registrazioni di Alan Lomax, un etnomusicologo i cui archivi si impegnavano a preservare i patrimoni sonori popolari e folklorici – dal «patchwork americano» di culture sonore nere e dissidenti fino ai canti e agli incantesimi magici italiani – sono state, in modo più o meno diretto ed esplicito, un’ispirazione fondamentale per tutta la musica rock che è seguita. Quelle registrazioni, effettuate a partire dagli anni Quaranta, erano di per sé piuttosto grezze e povere e, in un certo senso, lo-fi, anche se per lo più a causa di contingenze tecniche piuttosto che per una deliberata scelta estetica. I candidati a ricoprire il posto di vero e proprio primo disco lo-fi erano molti, diverse rivelazioni, mutualmente divergenti e in grado di creare la loro personale origin story del lo-fi. Gli esordi promettenti spuntavano da ogni angolo della scena musicale underground e Dio solo sa quanti altri contendenti ci sarebbero potuti essere se avessimo preso in considerazione tutti i gloriosi home-recorder del mondo, parzialmente o completamente dimenticati, privatamente incantati dalle meraviglie della bella e della cattiva musica che facevano da soli nelle loro stanze segrete sparse per il mondo…
Continuavo a credere che i Beach Boys avessero un legame speciale con l’inizio del lo-fi, come se fossero il vero e proprio primo passo di una sorta di processo alchemico culturale che ha portato alla nascita del lo-fi come lo conosciamo.
Per quanto frustrante, questa osservazione mi ha costretto a piegarmi all’evidenza e ad ammettere l’ovvio: poteva davvero essere altrimenti? Il lo-fi è sempre stato, fin dalla sua nascita, una parata carnevalesca attraversata da numerosi generi e da una schiera eterogenea di artisti, visionari e freak. Mi aspettavo davvero un esordio unico e netto? Un retroscena unificante che legasse tutte le questioni in sospeso in un nodo unico e originario? Sciocchezze! Per quanto ne so, nemmeno l’anonimo autore del post originario ha dato una risposta.
Questo mio piccolo naufragio ha avuto, tuttavia, dei risvolti istruttivi. Continuavo a credere che i Beach Boys avessero un legame speciale con l’inizio del lo-fi, come se fossero il vero e proprio primo passo di una sorta di processo alchemico culturale che ha portato alla nascita del lo-fi come lo conosciamo, ma dovevo confrontarmi con le domande e le intuizioni sollevate da tutti gli altri possibili candidati e dalle loro rispettive versioni della storia. Innanzitutto, ho dovuto prendere atto del fatto che le affermazioni oggettive sull’origine del lo-fi sarebbero state dubbie o perlomeno un po’ azzardate. Non c’era un significato nascosto o un destino manifesto che dovevo scoprire: la storia era molto più complessa e intricata di così. Dimostrando chiaramente la sua natura profanatoria fin dall’inizio e dimostrando che la visione di Nancy era fondamentalmente corretta, il lo-fi sfidava sia la possibilità di una Storia con la «S» maiuscola che le pretese unificanti di qualsiasi Critica con la «C» maiuscola. Ogni storia delle origini del lo-fi è sempre stata, fin dal principio, l’espressione di una posizione di parte, tra le tante, guidata da tutto meno che dalla possibilità di costruire uno svolgimento lineare nell’evoluzione del genere e di competere con lignaggi contrastanti e altrettanto vitali. La schiera delle superstar che, per virtù o per pura necessità, decisero di sperimentare con suoni poveri era fin troppo numerosa e, dietro di loro, incombevano legioni di dilettanti fai-da-te che aprivano silenziosamente la strada alle cose a venire. Qualsiasi resoconto su come è iniziato doveva essere irragionevolmente lungo o decidere di prendere le parti, essere in qualche modo personale e legato a una certa idea di ciò che il lo-fi è e fa. Doveva espor- re una visione specifica non solo della musica in sé, ma anche dei suoi obiettivi, dei suoi contesti sociali più ampi e della linea artistica che ha prodotto. Certo, Brian Wilson aveva sperimentato le potenzialità delle pessime registrazioni alla fine degli anni Sessanta, battendo la maggior parte degli altri da un punto di vista cronologico e oggettivo – con alcune evidenti e clamorose eccezioni. Tuttavia, l’importanza dei Beach Boys per noi, e il loro primato tra gli altri, doveva derivare da un motivo più perspicuo, da qualcosa che informasse a un livello più profondo sul reale potenziale rivoluzionario del lo-fi. Qualcosa di più dell’averlo fatto per primi. Ovviamente, non bastava essere in sintonia con qualcosa; dovevo andare sempre più a fondo e scoprire che cosa faceva scattare quella specifica storia d’origine.
È stato per necessità? Una scelta deliberata? È stato un vaffanculo all’industria culturale o un placido esempio di sperimentalismo da cameretta? Ogni possibile candidato aveva una ragione specifica, applicabile quasi solo ed esclusivamente a lui, e questa ragione aveva conseguenze di ampia portata sulla particolare sfumatura di lo-fi che portava in questo mondo.
In secondo luogo, e a causa di queste prime considerazioni, la mia Reddit Waterloo privata ha reso evidente un’altra caratteristica saliente che ogni storia di origine richiede: una ragione per attraversare la soglia, per lasciarsi alle spalle l’hi-fi. Poiché ci sono così tanti possibili inizi, ogni artista ha naturalmente incarnato uno stile diverso di registrazione a basso costo. È stato per necessità? Una scelta deliberata? È stato un vaffanculo all’industria culturale o un placido esempio di sperimentalismo da cameretta? Ogni possibile candidato aveva una ragione specifica, applicabile quasi solo ed esclusivamente a lui, e questa ragione aveva conseguenze di ampia portata sulla particolare sfumatura di lo-fi che portava in questo mondo. Non si trattava di una mera dicotomia tra hi-fi e lo-fi, ma di uno spettro di possibili ragioni per avvicinarsi a questo lavoro artigianale; ragioni che avevano a che fare con la totalità dell’ecosistema culturale in cui l’artista in questione era inserito e che, di conseguenza, risuonavano in tutta la sua successiva opera tramite il suo tono, i suoi modi e la sua posterità. Le singole biografie e le milioni di particolarità che hanno forzato questa o quella mano, che hanno spinto Paul McCartney o Lou Reed o Neil Young o Bruce Springsteen a uscire dal complesso industriale degli studi e a tornare nel loro salotto – o nel lavello della cucina, o in una fattoria isolata, o in uno spazio comune, o in qualsiasi altro luogo – non erano una contingenza insignificante o un qualche evento trascurabile. Hanno creato un modo speciale di fare ciò che facevano, hanno forgiato il bagaglio concettuale che abbiamo potuto trarre da loro. E, naturalmente, proprio a causa di questo spettro di ragioni incomparabili per lasciare tutto e fare «male» le cose, intessuto nelle vite degli artisti nel senso più ampio possibile, il bagaglio concettuale che si potrebbe estrarre da uno non si adatterebbe a un altro, o, perlomeno, equivarrebbe a una semplificazione eccessiva. Un termine-ombrello che con la sua comparsa avrebbe annientato il percorso peculiare che un artista aveva tracciato per sé e per quelli che lo avevano seguito, tra la moltitudine di possibili inizi e probabili esiti del movimento. In breve, ho dovuto chiedermi perché ho scelto Brian Wilson con almeno il doppio della convinzione e in modo molto specifico!
Brian Wilson è stato il musicista che più di ogni altro ha incarnato l’idea del lo-fi come evasione. Un modo di creare melodie meravigliose in fuga dalla morsa di questo mondo, forgiate nella tragedia e nella bellezza, nel destino e nella casualità.
Allora, perché Brian Wilson? Cosa c’è di così speciale nei Beach Boys? In poche parole, Brian Wilson, e la band che per lungo tempo è stata una specie di estensione diretta del suo particolare genio – i Beach Boys –, è stato il musicista che più di ogni altro ha incarnato l’idea del lo-fi come evasione. Una pratica estetica dalle profonde conseguenze esistenziali e politiche – ambigua, gloriosa, contraddittoria, inquietante, a volte disastrosa, a volte sorprendentemente bizzarra – intesa come evasione dalle costrizioni e dalle fatiche del capitalismo contemporaneo. Un modo di creare melodie meravigliose in fuga dalla morsa di questo mondo, forgiate nella tragedia e nella bellezza, nel destino e negli incidenti. Un lo-fi acido (lo-fidelia?) da accendere, sintonizzarcisi e a cui abbandonarsi, con tutte le contraddizioni che questo comporta. Nemmeno Paul McCartney – che Wilson stesso considerava il suo unico spirito affine – poteva avvicinarsi alla stranezza in cui Wilson si imbatteva con le sue esplorazioni nei territori del lo-fi. Infatti, se McCartney era, come Wilson e contrariamente a quanto si crede, uno sperimentatore nell’animo, innamorato di Stockhausen e delle stranezze da studio, che fuggiva letteralmente dalla società per comporre i suoi rivoluzionari dischi lo-fi – McCartney nel 1970, Ram nel 1971 e McCartney II nel 1980 – era allo stesso tempo e, stavolta al contrario di Wilson, impantanato in una certa domesticità di fondo. I suoi esperimenti lo-fi sembravano piccoli embrioni che galleggiavano placidamente nel loro sacco amniotico, sorvegliati dalla grazia amorevole di Paul e Linda McCartney, nel loro abbraccio idilliaco. Una tale quiete mitologica potrebbe essere commovente, ma non potrebbe reggere il confronto con i viaggi psichedelici di Brian Wilson ai limiti dell’estasi e dell’esaurimento, che, proprio per la loro stranezza, mi appaiono come l’unico punto di partenza naturale per una lettura radicale del fenomeno lo-fi.