Presso Hangar Bicocca, a Milano, una grande mostra monografica in collaborazione con il Museo Tinguely di Basilea ha iniziato l’avvicinamento al centenario del grande scultore svizzero, capofila dell’arte cinetica e anarchico incoronato di rottami.
Jean Tinguely è un artista celebre che non ha mai fatto il salto nel pop – le “grandi mostre” con esperienza immersiva, l’antonomasia, le aste milionarie eccetera. Resta, postumo come è stato in vita, uno splendido outsider di successo, pur avendo alcune carte in regola come l’identificabilità immediata e la dimensione ludica. Però c’è una dimensione politica non sanificabile nella sua opera. Tinguely è l’artista delle macchine, dei congegni astrusi e poetici con ingranaggio a vista. «Voglio che le mie macchine siano gioiose, che facciano ridere le persone […] la macchina è innanzitutto lo strumento che mi consente di essere poetico. Se la rispetti, se ti metti in gioco con la macchina, allora forse puoi davvero dare vita a una macchina gioiosa – e con gioiosa intendo libera». Sono opere disseminate di oggetti ridicoli (ad esempio nani da giardino, un omino Michelin, un’oca di plastica): l’umorismo è dissacrazione innanzitutto degli spazi dell’arte sulla scorta del dadaismo e di Duchamp, è una di molte declinazioni anarcoidi per cui le macchine gioiose sono anche macchine da guerra contro l’ordine costituito. E, dal lato semiologico, c’è una deterritorializzazione costante, uno scarto dai nessi prevedibili tra segno e significato e una tensione a quel Dada che, come recita il manifesto, «non significa nulla». Tinguely nasce a Friburgo nel 1925 e cresce a Basilea dove ora c’è un grande museo monografico a lui dedicato. È in Svizzera, a contatto con i sindacati degli orologiai in una valle del Giura, che Kropotkin perfeziona le sue tesi anarchiche anticapitaliste sul “mutuo appoggio”. Il Nostro è in tutto e per tutto un artista svizzero, figlio della nazione bifronte famosa per gli ingranaggi e gli orologi a cucù come per Monte Verità e il Cabaret Voltaire, patria delle banche e della finanza e rifugio di sovversivi e culla di rivoluzioni: è a Zurigo che si forma Rosa Luxemburg e Lenin imposta l’Ottobre, Bakunin è sepolto a Berna. Tante sculture cinetiche tingueliane mimano la forma di un cannone, tante esplodono o sparano. Tinguely è stato un anarchico metafisico, un Guglielmo Tell che ha mirato ai bersagli grossi, ai capisaldi del pensiero e della vita occidentale e in particolare del sistema capitalista borghese.
Tinguely è l’artista delle macchine, dei congegni astrusi e poetici con ingranaggio a vista.
Il primo bersaglio è il principio di individualizzazione e non contraddizione. Descrivendo la macchina poetica plurima posizionata davanti al teatro di Basilea, la “Fontana del Carnevale” – è assolutamente logico che il carnevale, lo spaziotempo del mondo alla rovescia, sia un riferimento ritornante – parla di «una scultura che sia nel contempo una macchina e una fontana». È una cosa ma anche un’altra. Passeggiare negli spazi dell’Hangar Bicocca (dove da ottobre a febbraio ha avuto luogo una grande mostra a lui dedicata, a cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane e Vicente Todolì con Fiammetta Griccioli) vuol dire avvistare oggetti, intuire una forma, avvicinarsi e scoprire dettagli estranei, ipotizzare se non una funzione un meccanismo e poi capire di aver sbagliato tutto. Per esempio Méta-Matic No. 10 sembra una normale scultura cinetica, un pastiche in stile Calder, invece è un generatore automatico di opere d’arte che realizza disegni casuali con pennarelli fissati a un braccio meccanico. Il secondo bersaglio è la tirannia dell’utile, la razionalizzazione, il principio di funzionalità. Come già detto i meccanismi sono nominalmente funzionali, in grado di portare a termine l’azione cui sono deputati. Peccato che l’azione non abbia senso. Sono tutte azioni senza sbocco di meccanismi funzionanti ma folli. Questo principio sparigliatore e creatore ha affascinato, per esempio, Hayao Miyazaki che ha modellato il suo castello errante di Howl sulle macchine celibi dell’artista svizzero. Più precisamente, l’azione è priva di utilità, non di senso. Non produce alcun plusvalore secondo la logica capitalista, semmai sperpera materiali, energia cinetica, tempo per produrre gratuiti atti poetici – siamo in pieno territorio di dépense batalliana. Ed è proprio il principio della produzione capitalista che ha simbolo nella catena di montaggio il terzo e più definito bersaglio. Rotozaza No. 2 è letteralmente una catena di smontaggio: un nastro trasportatore di bottiglie che, a fine giro, le spacca ammonticchiando cocci. Viene in mente la performance geniale realizzata da Jimmie Durham per Fondazione Ratti, Smashing (2004), in cui l’artista seduto a una scrivania con abiti e prossemica burocratica e espressione impassibile distruggeva tutti gli oggetti disparati che gli venivano avvicinati. Per dire che l’intuizione di Tinguely per cui la più radicale protesta anticapitalista doveva passare dalla messa in ridicolo del suo apparato parareligioso, dall’umorismo assurdo, è sempre attiva e valida. Tinguely è stato un disarticolatore di funzioni, un uomo in rivolta contro i principi filosofici e le forme di vita della società protestante dentro la quale ha vissuto.
Avvistare oggetti, intuire una forma, avvicinarsi e scoprire dettagli estranei, ipotizzare se non una funzione un meccanismo e poi capire di aver sbagliato tutto.
Tuttavia la macchina di Tinguely non è semplicemente una Molotov; è un concetto complesso, stratificato, polimorfo. È una metafora multipla non riferita soltanto al corpo sociale (il discorso anticapitalista) bensì anche alla natura e al corpo umano (il discorso esistenziale inestricabilmente intrecciato). Nel meccanismo è intrinseca la sua decadenza. Gli oggetti meccanici – proprio come tutti i corpi e tutto ciò che esiste – hanno una data di scadenza. Esattamente come la morte individuale degli uomini, la morte degli oggetti è un grande rimosso della società dei consumi. Invece Tinguely lo sottolinea – e noi ci accorgiamo a prima vista di quali opere sono più vecchie perché sono arrugginite, deformi. Parafrasando Resnais e Marker, anche le sculture sono deperibili, vivono, si rompono e muoiono. Come altri suoi compagni di strada – vedi Meret Oppenheim che, in un’altra città svizzera (Berna), realizza un’altra fontana con humus e terriccio destinata a mutare forma e rovinarsi – introduce l’organico nei suoi assemblaggi, generando anche una differenza di potenziale interna perché ogni parte dell’opera deperisce ma ognuna a velocità differente. Viene innestato il principio di autodistruzione. È anche un ulteriore sberleffo al mito idealista/romantico dell’arte che vince il tempo, eterna, rende immortali. Spostando il punto di vista verso il generale, si tratta di un quarto bersaglio: il mito della permanenza e la tensione all’immortalità che ossessiona l’Occidente. Contro l’Occidente e guardando a oriente, Tinguely affermare di voler «celebrare la bellezza dell’imperfezione», innalzare l’imprevisto e l’effimero a valori per fare in modo che le sue macchine abbiano un’anima. C’è l’ulteriore rivelazione di un elefante nella stanza: le opere d’arte non sono oggetti iperuranici imperituri ma hanno bisogno di manutenzione costante. In calce ad alcune delle opere in mostra la guida di Hangar Bicocca riporta la formula «per motivi conservativi non possono più essere messe in funzione e dunque non fanno parte del programma di attivazione delle opere in mostra». Ipotizzo che Tinguely avrebbe apprezzato, e forse aveva previsto e incentivato questo ulteriore strato di senso e ironia da bug nel sistema. Infine non si può parlare solo di arte cinetica bensì altrettanto di arte sonora: gli ingranaggi producono rumori che rimandano all’industria e quindi all’industrial. La cacofonia, la disarmonia acustica – moltiplicata quando ci sono molteplici opere in mostra e multipli tappeti sonori sovrapposti – generano una poesia sonora che fa pensare a Ghédalia Tazartès o agli Einstürzende Neubauten, suonatori di oggetti trovati e assidui frequentatori del dadaismo. Le radici di Tinguely affondano altrettanto nei poemi simultanei, le performance dada selvagge e regressive di recitazione di poesie dove il suono soverchiava integralmente il senso perché si voleva disertare l’Occidente malato di nazionalismo e guerre, e ritrovare un’innocenza antecedente alla civiltà. È una bellezza diversa che allude a un altro mondo possibile.
I meccanismi sono nominalmente funzionali, in grado di portare a termine l’azione cui sono deputati. Peccato che l’azione non abbia senso. Sono tutte azioni senza sbocco di meccanismi funzionanti ma folli.
Allestire una mostra monografica dedicata a Jean Tinguely non è da tutti. Prima di tutto, banalmente, ci vuole lo spazio. Il capannone industriale dai grandi interni indivisi e i soffitti alti di Hangar Bicocca si presta perfettamente e permette l’organizzazione di un percorso coreografico simultaneo che vede l’attivazione seriale di un’opera dopo l’altra e quindi una affascinante fruizione della mostra in modalità falena attratta qui e là da luci, rumori, motori. Sono quasi quaranta opere provenienti da ogni fase della carriera dell’artista, dagli anni Cinquanta fino a ridosso della morte, nel 1991. C’è l’arte interattiva, per esempio la serie Maschinenbar azionabile da pulsanti con i quali colpire degli animaletti con un martello oppure muovere teschi animali su bracci meccanici. Un anticipo della gamification che imperversa nell’arte contemporanea nell’era di TikTok? Forse, o forse no: ognuno di questi meccanismi ridicoli e assurdi ha un tempo abnorme di ricarica e la maggior parte delle volte il pulsante non funziona, aggiungendo un’ulteriore straniamento, una ulteriore deterritorializzazione. Ci sono le opere cinetiche seminali e c’è l’arte monumentale degli anni Ottanta, un salto di scala reso possibile banalmente dal successo e quindi dalle commissioni più ricche ricevute dall’artista, che può divertirsi a fare a pezzi e rimontare in esploso un’automobile di Formula 1 (Pit-Stop, esplicitamente voluta da Renault, è un tributo a un’ossessione privata come Schreckenskarrette – Viva Ferrari e Shuttlecock). Ci sono poi i gruppi di sculture che permettono di esplicitare, approfondire e chiarire le visioni filosofiche e politiche. Baluba è una serie di assemblaggi di oggetti di scarto eterogenei (parti metalliche ma anche piume) che alludono all’indipendenza del Congo e all’assassinio del suo primo presidente libero, Patrice Lumumba. È chiarito il nesso tra produzione di massa e oppressione colonialista. Le “sculture-lampada” sono invece assemblaggi di ghirlande di lampadine, pezzi meccanici e crani di ungulati sospesi in forme aeree che rimandano formalmente alla colonna vertebrale, spostano l’attenzione dell’aspetto cinetico/sonoro a quello luministico e generano un immaginario cyberpunk alla Mad Max. Curiosamente – ci dice di tempi di committenze illuminate e/o folli, più o meno coeve con la realizzazione del Giger Bar a Gruyères – queste opere decoravano caffè e bar tra Zurigo, Losanna e il Giappone. Sono inoltre esposte due serie dedicate ai filosofi, immaginati in pose umoristiche. Il semplice elenco fitto di “Lebensreformer” definisce un programma esistenziale e politico coerente con i presupposti incendiari che abbiamo illustrato: Heidegger; Burckhardt; Wittgenstein; Engels; Bergson; Kropotkin; Rousseau; Wedekind. E poi: Platone; Adorno; Morgenstern; Democrito; Nietzsche; Eraclito; Locke.
Hayao Miyazaki ha modellato il suo castello errante di Howl sulle macchine celibi dell’artista svizzero.
L’idea di arte secondo Tinguely è strettamente relazionale, dialettica, contaminata. Correttamente la mostra, oltre a sottolineare rapporti con pensatori contemporanei e passati e con le idee politiche radicali, chiarisce come sia stato l’opposto dell’artista isolato in una torre eburnea, impegnato a estrarre forme incorrotte dalla propria interiorità. Tinguely ha avuto antecedenti, ossia i già citati dadaisti e ovviamente Kurt Schwitters, oltre a Duchamp che, portando il ready made nelle gallerie, ha definitivamente aperto le porte all’irruzione degli oggetti di recupero nell’arte, sgombrando la strada a Tinguely che frugava nelle discariche. Ballet des pauvres con i suoi oggetti appesi logori, dalla poesia quotidiana e dall’umorismo surreale, è un omaggio lampante. Ha avuto anche svariati compagni di strada, artisti con i quali è coevoluto, per esempio Calder (in certi casi l’omologia è impressionante, ci sono opere tra le più datate che, da lontano, potrebbero essere indifferentemente dell’uno o dell’altro) oppure Bruno Munari. E ovviamente, soprattutto, Niki de Saint Phalle, seconda moglie e grande sodalizio amoroso e creativo. A chiudere idealmente il percorso della mostra, Le Champignon magique, collaborazione del 1989, un fungo allucinogeno che giustappone parti metalliche arrugginite (cifra di lui) e mosaici di specchi (cifra di lei) in una raffigurazione ermafrodita che fonde forme femminili arcaiche e un uomo dal pene eretto. Come disse Niki, «Jean era il movimento, io il colore». E non è un caso che le opere di Tinguely successive all’incontro passino dalla dominante scura a una policromia sempre più spinta. L’altra relazione decisiva è stata con le città: Parigi, dove è fiorito e si è affermato, come tutti; New York che non poteva non entusiasmare un artista cinetico; Milano, dove ha realizzato un’opera importantissima anche perché completamente effimera: nella Lab room sono esposti materiali d’archivio e stampe dei disegni relativi alla performance del 1970, La Vittoria. In occasione del decennale del Nouveau Réalisme – e in anni oggi inimmaginabili in cui a Milano potevano accadere fatti artistici radicali e rilevanti – Tinguely svela in piena Piazza Duomo un gigantesco monumento fallico dorato alto dieci metri che lancia petardi con “O Sole Mio” in sottofondo fino all’autodistruzione. Voleva anche essere una cerimonia funebre per il movimento.
Una metafora multipla non riferita soltanto al corpo sociale bensì anche alla natura e al corpo umano: nel meccanismo è intrinseca la sua decadenza.
La Vittoria presenta molte delle chiavi utili a interpretare le gioiose macchine da guerra dell’anarchico incoronato di rottami. Chiaramente l’umorismo, la dissacrazione – e l’autodissacrazione nella liquidazione del movimento artistico di cui è esponente apicale nel pieno del successo. Poi il principio di autodistruzione, il grande carnevale che non lascia tracce, la distruzione assurda, la catena di smontaggio, l’antiproduzione. E quindi, sempre carnascialesco, l’erotismo che sconfina nel pecoreccio. C’è nell’opera di Tinguely una tensione sessuale ora sotterranea ora esplicita ma pressoché costante che evoca il sex appeal dell’inorganico e anticipa il cyberpunk. È assolutamente sessualizzato – e sbeffeggia l’aspetto bellico da obici, mitragliatori – il movimento ritmico e sghembo, affaticato ma al contempo penetrativo e ininterrotto di Eos VIII e Bascule V esposti in modo da fronteggiarsi e amplificare la percezione di amplesso. Il sesso e la morte, le uniche cose che contano e che convivono nello stesso archetipo. E che smontano l’architettura sociale del lavoro, della produzione. È così banale e così vero. Gli happening che lo avvicinano a un altro filo decisivo dell’arte anni Sessanta, quello performativo legato al movimento hippy, dal Living Theatre a Yayoi Kusama, sono sempre trionfi vitali, carnevali ma al contempo alludono in modo ciclico, olistico alla fine, alla morte. Jean Tinguely fu un sovversivo le cui idee pescavano sempre nell’esperienza, nell’esistenza, nelle mani sporche e per cui – anche in ciò svizzero, figlio degli esperimenti radicali di inizio secolo – la rivoluzione doveva cominciare nei modi di vita. Il funerale dell’artista, nel 1991, fu una festa sgangherata, un corteo aperto dalla macchina cinetica Klamauk che sbuffava, fumava, rumoreggiava, sparava puzza e fuochi d’artificio.