“Ragazze al potere”: dagli spari rabbiosi di Niki de Saint-Phalle alla forza universale e femminista delle sue gigantesse

Carlotta Coppo

Il Mudec di Milano ha ospitato la prima retrospettiva antologica in Italia dedicata a Niki de Saint-Phalle, artista franco-americana considerata tra le protagoniste indiscusse della scena artistica d’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta in Europa e negli Stati Uniti. Che la si ricordi per il suo vissuto a dir poco ribelle o per le prime e provocatorie azioni durante le quali sparava con una carabina contro delle sculture bersaglio o, ancora, per l’universo femminile delle sue accoglienti e variopinte Nanas, una cosa è certa: l’arte le ha salvato la vita.

da Quants n. 20 (2025)

Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle, detta Niki, nasce a Neuilly-sur-Seine, in Francia, nel 1930. Dopo alcuni anni dirà: «Ho avuto fortuna a incontrare l’arte, avevo tutto per diventare una terrorista». Figlia di un aristocratico banchiere francese e di un’ereditiera attrice americana, trascorre i primi anni di vita con i nonni paterni in Francia, per poi trasferirsi all’età di tre anni a New York, dove i genitori vivevano con il fratello maggiore. Cresciuta seguendo rigide convenzioni borghesi e costretta dalla famiglia a frequentare scuole private e per giunta religiose, Niki manifesta ben presto un carattere alquanto vivace, accentuato in periodo adolescenziale da un comportamento ritenuto indisciplinato. Come ricorda Cristina De Stefano nel suo Scandalose: vite di donne libere (Rizzoli, 2017), a scuola la ragazzina turbava le suore distribuendo alle sue compagne poemi erotici che scriveva in solitudine. Chiusa in sé stessa e intrappolata in un trauma che si è trascinata per quasi tutta la vita, era infatti il 1942 (e Niki non aveva nemmeno compiuto dodici anni) quando il padre mise il suo sesso nella bocca della bambina. Solo parecchi anni dopo l’artista aveva trovato le forze per raccontare parzialmente l’accaduto in Daddy (1974), film che rivela in modo spietato il rapporto di dominio tra i due sessi, e nel libro Mon secret (1994), consegnato alla figlia Laura sotto forma di lettera manoscritta.

Durante le sue regolari visite, il marito le porta sempre nuovi materiali e colori, dando linfa a un vortice creativo divenuto ormai incontenibile. Niki trova così la sua strada, tanto che di lì a poco rivela: «Ero una giovane donna arrabbiata, ma ci sono molti giovani uomini e donne arrabbiati che non diventano artisti. Sono diventata un’artista perché non avevo scelta, non avevo bisogno di prendere una decisione. Era il mio destino».

Tra le estati felicemente passate in Francia nel castello dei nonni e con le zie – compagni ideali per coltivare il gusto del meraviglioso, apprezzato poi ancor più da vicino durante una serie di viaggi in Europa nel 1952 – e i periodi trascorsi a New York dove sin da giovanissima comincia a fare la modella per Vogue e Harper’s Bazaar, Niki conosce il poeta e musicista Harry Mathews (che in seguito diventerà uno scrittore). Lui è un giovane dalla testa calda, come lei tormentato da genitori oppressivi e borghesi e, come lei, in cerca di evasione da un destino voluto da altri. I due si ritrovano dentro un’onda di sintonie reciproche, specchiandosi l’uno nei desideri dell’altra, tanto che nel giro di poco tempo si sposano (Niki ha 19 anni, lui uno in più), dando alla luce nel 1951 la primogenita Laura (il secondo figlio Philip nasce nel 1955). A seguito di una serie di preoccupazioni legate al maccartismo, nel 1952 la coppia decide di lasciare gli Stati Uniti e di trasferirsi a Parigi, dove Niki entra in una profonda depressione che la costringe a rinchiudersi per un paio di mesi in un ospedale psichiatrico. È qui che, per non impazzire, comincia a disegnare, incollare e assemblare tutto ciò che trova dentro le mura della stanza bianca nella quale si ritrova a vivere. Durante le sue regolari visite, il marito le porta sempre nuovi materiali e colori, dando linfa a un vortice creativo divenuto ormai incontenibile. Niki trova così la sua strada, tanto che di lì a poco rivela: «Ero una giovane donna arrabbiata, ma ci sono molti giovani uomini e donne arrabbiati che non diventano artisti. Sono diventata un’artista perché non avevo scelta, non avevo bisogno di prendere una decisione. Era il mio destino». Da qui è un susseguirsi e un crescendo di forme di ribellione seguite da momenti di irrequietezza e creatività che hanno portato alla definizione di una forte identità come donna, madre e artista, scoprendo nell’arte «una terapia, un’arma da rivolgere contro le convenzioni sociali, un mezzo per esprimere l’inquietudine universale in maniera del tutto personale», come sostiene Stefano Cecchetto nel saggio a catalogo pubblicato da Skira in occasione della mostra nel 2009 su de Saint Phalle presso il Museo Fondazione Roma. Sempre in bilico tra l’atto di distruggere per elaborare e poi ricostruire, tra ansie personali e richieste di libertà, Niki è mossa da uno spiccato lato eco-femminista che negli anni si è rivelato attento alle diversità e alla parità di genere, con un costante impegno nella difesa dei più deboli, dei malati e degli emarginati, anticipando temi, problematiche di stampo sociale e istanze politiche che oggi hanno assunto un carattere più urgente che mai.

Dopo alcuni viaggi in Europa verso la fine degli anni Cinquanta (durante i quali visita cattedrali e musei), un soggiorno a Barcellona (dove resta colpita dalla maestosità del Parc Güell di Antoni Gaudí), e un periodo estivo trascorso in Italia in Val d’Orcia, sulle colline senesi (dove ha modo di ammirare i pittori primitivi italiani che la influenzeranno nelle opere di età più matura), Niki torna a Parigi ed entra subito in contatto con gli esponenti del gruppo del Nouveau Réalisme, fondato nel 1960 dal critico d’arte Pierre Restany. Gli artisti di questo movimento, tra cui Yves Klein, Jean Tinguely, César Baldaccini, Daniel Spoerri, Christo e Mimmo Rotella, adottano un nuovo approccio alla realtà, utilizzando nelle loro opere oggetti quotidiani e scarti della società dei consumi. Niki è l’unica donna a farne parte. Lei ha una formazione da autodidatta influenzata inizialmente dalla spontaneità dell’Art Brut e dall’agitazione dell’action painting di Jackson Pollock. Il gruppo dei Nouveaux Réalistes era solito riunirsi in un vicolo nel quartiere di Montparnasse, all’epoca frequentato da molti artisti d’avanguardia, tra cui lo stesso Tinguely. È qui che Niki lo conosce, rimanendone folgorata dal genio creativo e dall’ingegnosità poetica. Siamo intorno agli anni Sessanta.

Curata da Lucia Pesapane, la mostra ha raccolto più di cento opere articolate in otto sezioni, seguendo un percorso cronologico che ha ripercorso non solo le varie fasi della carriera artistica di Niki de Saint Phalle, ma anche le vicende personali e i contesti artistici, sociali e ambientali nei quali il suo lavoro ha trovato voce e spazio, cercando di dare risposte a urgenze e dolori tanto personali quanto generazionali in un’epoca segnata da grandi cambiamenti sociali e artistici.

La retrospettiva al MUDEC di Milano partiva proprio da questo periodo, abbracciando precisamente un arco temporale che va dal 1959 al 2000, due anni prima della scomparsa dell’artista avvenuta a San Diego, a seguito di una serie di complicazioni alle vie respiratorie causate da allergie al polistirene e ad altri materiali che utilizzava per lavorare. Curata da Lucia Pesapane, la mostra ha raccolto più di cento opere articolate in otto sezioni, seguendo un percorso cronologico che ha ripercorso non solo le varie fasi della carriera artistica di Niki de Saint Phalle, ma anche le vicende personali e i contesti artistici, sociali e ambientali nei quali il suo lavoro ha trovato voce e spazio, cercando di dare risposte a urgenze e dolori tanto personali quanto generazionali in un’epoca segnata da grandi cambiamenti sociali e artistici: la seconda ondata femminista degli anni Sessanta e Settanta, il movimento del Nouveau Réalisme in Francia e il Neo-Dada negli Stati Uniti (tendenza fondamentalmente iconoclasta che si riallacciava agli stili del Dadaismo zurighese del 1916), e il diffondersi dell’AIDS negli anni Ottanta, un tema che Niki è tra i primi artisti a toccare pubblicamente nel libro-manuale AIDS: You Can’t Catch it Holding Hands, 1986. L’esposizione offriva così la possibilità di esplorare a tutto tondo il suo instancabile immaginario creativo, a partire da opere inedite e “curative” come i primi assemblaggi degli esordi nei quali object trouvè o composizioni realizzate con tecniche miste danno vita a un mondo popolato da draghi, mostri e altre entità malvagie attraverso i quali l’artista cerca di esorcizzare le proprie paure. Spesso inseriti all’interno di sculture-modellini in gesso che raffigurano cattedrali e altari, questi personaggi vengono letteralmente presi di mira nella serie degli “Spari”, realizzati tra il 1961 e il 1962, e intesi dall’artista come «un grido di rabbia contro tutti gli orrori commessi in nome di qualsiasi religione», sulla scia di forme di ribellione violenta e collettiva che all’epoca sorgevano in risposta ad aggressioni mondiali come il conflitto in Algeria e la guerra fredda. Su richiesta di Niki (che nel frattempo si era separata di comune accordo dal marito), Tinguely le procura una carabina. Lei non perde tempo e compie delle “azioni” iconoclaste, in solitaria o con altri colleghi (si ricorda quella del 1961 insieme all’artista pop americano Jasper Johns), durante le quali spara contro queste cattedrali immacolate di bianco sulle quali sono appesi vasetti di pittura o sacchetti con altre sostanze, come succo di pomodoro. Esplodendo sotto i proiettili, questi rilievi-bersaglio, e insieme i loro personaggi, si caricano di cromatismi nel momento stesso in cui Niki preme il grilletto: così l’arte diventa «un’arma che ferisce solamente chi la usa, una moltiplicatrice di rischi, una scavatrice di vuoti», continua Cecchetto. Va ricordato che una decina di anni dopo, precisamente il 28 novembre 1970, Niki torna a sparare contro un tabernacolo di madonne e crocifissi riempito di bombolette di colore, questa volta a Milano, in Galleria Vittorio Emanuele, stretta in una tuta di velluto nero e circondata da una schiera di poliziotti. L’azione si inserisce all’interno di un evento memorabile che segna il decennale del gruppo dei Nouveaux Réalistes nonché il suo stesso funerale. Per l’occasione Tinguely scandalizza con La Vittoria in Piazza Duomo, un monumento fallico dorato alto circa dieci metri che lancia in cielo dei petardi per quasi mezz’ora, fino ad autodistruggersi. In sottofondo la celebre canzone O Sole Mio. Un anno dopo, nel 1971, Niki e Jean si sposano (seppur inseparabili, si concederanno grande libertà nella loro relazione personale), ma è già a partire dal 1966 che iniziano a lavorare a opere a quattro mani, dando l’avvio a uno dei sodalizi artistici e sentimentali forse tra i più celebri di sempre. «La collaborazione tra Jean e me, la convergenza della nostra opera, è un dono degli dei. Le nostre attività in comune sono state vividamente colorate dal nostro amore, dalla nostra separazione, dalla nostra amicizia e dalla rivalità sempre esistita tra di noi», affermerà nel 1987.

Esplodendo sotto i proiettili, questi rilievi-bersaglio, e insieme i loro personaggi, si caricano di cromatismi nel momento stesso in cui Niki preme il grilletto: così l’arte diventa «un’arma che ferisce solamente chi la usa, una moltiplicatrice di rischi, una scavatrice di vuoti».

A seguito dunque di un percorso dove tecniche e linguaggi iconografici procedono come vortici travolgenti di una metamorfosi in atto, e dove le opere fungono da cassa di risonanza per stimoli e sensazioni, arriva a maturazione quella che Niki amava definire una rinnovata “società matriarcale” che vede come protagoniste in un primo momento spose, streghe, prostitute e madri divoratrici che si “evolvono” poi in guerriere, muse e paladine della giustizia che nelle sale del Mudec si susseguivano all’interno di tre stanze. «Dopo gli spari la rabbia non c’era più, ma restava la sofferenza; poi la sofferenza è sparita e mi sono ritrovata di nuovo in studio a fare creature gioiose per la gloria della donna», dirà l’artista qualche anno più tardi. È questo il periodo delle Nanas, figure femminili realizzate inizialmente in cartapesta e tessuto e successivamente in resina dipinta che Niki non smetterà più di creare. Rivisitazioni moderne della Venere di Willendorf o versioni pop della Grande Madre dei miti arcaici, le Nanas trasbordano consapevolmente dalle concezioni plastiche accademiche, omaggiando l’universo femminile in tutte le sue forme gioiose e rassicuranti. Queste eroine hanno un corpo spesso danzante che si espande morbidamente fino a diventare una sorta di contenitore dell’intero universo. In loro Niki riflette la possibilità di mettersi nuovamente in gioco, alla ricerca di quella leggerezza tipica di un’infanzia che le è stata strappata. La sua è una donna che da oggetto represso diventa soggetto attivo, pronto a liberare una forza creatrice e catartica, quella che ben presto si identifica con il “Nana Power”, il movimento di liberazione delle “ragazze” che comincia ad attirare l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori per la sua immediatezza espressiva. È così che nel 1996 Pontus Hulten, direttore del Moderna Museet di Stoccolma, invita Niki, Tinguely e l’artista finalandese Per Olof Ultvedt a concepire una Nana monumentale, penetrabile e incinta. Su diretta ispirazione del celebre L’Origine du monde (1886) di Gustave Courbet, nasce così Hon (in svedese “Lei”), opera-emblema di tutta la serie e la più grande mai realizzata prima. Lunga ventotto metri per sei di altezza, giace sul dorso, a gambe divaricate. Nel suo grembo i visitatori possono accedere solo attraverso il suo sesso, per ritrovarsi catapultati in una sorta di parco divertimenti che ospitava una mostra di quadri falsi di Paul Klee, Matisse e altri artisti, un planetario, un bar che distribuiva latte in un seno e un cinema nell’altro. Sopra al pancione, una terrazza accessibile tramite delle scale permetteva di ammirare la fila di persone in coda per entrare, come una sorta di cordone ombelicale umano. «La Nana cattedrale continua a essere molto importante per me perché era una cattedrale del nostro tempo, un luogo dove la gente poteva riunirsi. Questa Nana cattedrale è stata la più grande puttana del mondo: ha ricevuto centomila visitatori in tre mesi», afferma Niki qualche anno più tardi. Oltre a Hon, i due artisti lavorano ad altre Nanas monumentali commissionate per spazi pubblici (Tinguely si occupa principalmente della parte meccanica e logistica). Si ricordano quelle ideate per l’Expo di Montreal nel 1967, alle quali seguono la Fontana Stravinsky (1983) a Parigi, accanto al Centre Pompidou e quella a Château-Chinon (1988) in Borgogna, fino ad arrivare agli ultimi lavori di impianto ancora più solenne, come il Giardino dei Tarocchi a Garavicchio, vicino Capalbio, in Toscana: un vasto parco di sculture ergonomiche realizzate in cemento armato e ricoperte di specchi e mosaico ceramico che rappresentano i ventidue Arcani Maggiori dei tarocchi. Immaginato e costruito sempre con l’aiuto di Tinguely, il progetto ha impegnato Niki dal 1978 fino alla sua morte (il giardino è stato ufficialmente aperto al pubblico nel 1998). In questo Eden l’immaginario dell’artista conquista per la prima volta un impianto di portata cosmica. È la scala monumentale e di carattere magico a rendere l’opera “totale”: scultura, pittura, architettura, meccanica e artigianato prendono forma in un’installazione che restituisce in forma concreta idee, temi e iconografie che Niki ha maturato nel tempo ma inseguito da sempre.

Rivisitazioni moderne della Venere di Willendorf o versioni pop della Grande Madre dei miti arcaici, le Nanas trasbordano consapevolmente dalle concezioni plastiche accademiche, omaggiando l’universo femminile in tutte le sue forme gioiose e rassicuranti. Queste eroine hanno un corpo spesso danzante che si espande morbidamente fino a diventare una sorta di contenitore dell’intero universo. In loro Niki riflette la possibilità di mettersi nuovamente in gioco, alla ricerca di quella leggerezza tipica di un’infanzia che le è stata strappata.

Nel 1991 Tinguely muore a Berna a 66 anni (nello scorso numero abbiamo dedicato un articolo alla retrospettiva milanese per il suo centenario, ndR) e un paio di anni dopo, su suggerimento dei medici, Niki si trasferisce in California, nella sua tenuta a La Jolla, non lontano da San Diego. Decide che è giunto il momento di dedicarsi alla cura della sua malattia ai polmoni e di stare vicina alla figlia e alla nipote. Le aspetta un decennio di riflessione, tra scrittura e disegni, durante il quale però non viene mai a mancare la necessità di riconnettersi con la mitologia e simbologia indiana o mesoamericana che l’artista scopre in quegli anni e che, come era accaduto in passato con i miti del mondo mediterraneo, le ha permesso di «sentirsi collegata agli esseri umani e alla altre culture». Un fervore creativo mai placato la porta a imbarcarsi in un nuovo e ultimo progetto testimoniato nelle sale conclusive della mostra: un parco sculture intitolato Queen Califia’s Magical Circle nel Kit Carson Park, a Escondido, inaugurato nel 2003. Dedicato a Califia, figura femminile forte e spietata che secondo la leggenda era alla guida di un popolo di donne guerriere che abitavano l’isola di California, questo complesso scultoreo ricoperto di mosaici, pietre e ceramiche non ha mai smesso di sprigionare una miriade di riflessi caleidoscopici che ogni giorno brillano sotto il sole californiano, fino a unirsi, in un’immaginazione planetaria, a quelli di Capalbio.

Curatrice indipendente, dal 2018 al 2022 è stata editor della rivista Mousse. Tra le collaborazioni recenti: Museo Madre, Napoli; Associazione NEL, Lugano; Clima, Milano; Chiostri di S. Eustorgio, Milano; La Triennale di Milano; Nouveau Musée National de Monaco, Montecarlo; Pro Helvetia, Zurigo e Viafarini DOCVA, Milano. Vive e lavora a Milano.