L’era dell’immersività di massa

Cosmin Serban

Reverenza 3.0, experience economy e consumo interattivo.

Da Quants numero 14, 2024

Chiunque abbia mai varcato la soglia di una cattedrale gotica porterà con sé il ricordo indelebile delle maestose vetrate che sovrastano gli interni e che permettono alla luce di diffondersi attraverso le loro superfici colorate, bagnando la chiesa di un prisma cangiante di sfumature suggestive. A distanza di secoli dalla loro creazione, le vetrate policrome infondono ancora un magnetismo quasi ultraterreno in chi si ritrovi inondato dai loro riverberi variopinti, testimoniando una delle più antiche forme di manipolazione della luce mirata a trasfigurare lo spazio in una narrazione visiva che confina con il surreale. Da questo punto di vista, le vetrate policrome sono considerate una delle prime forme di esperienza immersiva nella storia dell’arte.

Oggi, immersività è soprattutto sinonimo di realtà virtuale, di visori e di metaverso, di intrattenimento tematico e di mostre interattive che celebrano i più grandi artisti del passato con esposizioni-evento che raccolgono migliaia di visitatori in tutto il mondo: “Inside Monet”, “Dalì Cybernetics” e poi le “Immersive Experience” di Frida Kahlo, Klimt e, ovviamente, Van Gogh. I percorsi espositivi propongono sempre lo stesso tipo di esperienza: c’è la “stanza immersiva” in cui ammirare le opere proiettate a 360° animate da luci e suoni, l’itinerario di realtà virtuale che permette di “visitare” le ambientazioni dei quadri più iconici e poi attività esclusive come corsi di yoga tra le proiezioni, laboratori di disegno e momenti di pedagogia interattiva. Fuori dai musei, vengono proposti tour immersivi per rivivere gli eventi leggendari che hanno segnato la storia di una città, oppure spettacoli 3D nei centri commerciali, nei ristoranti e in sale evento pop-up per risvegliare “il sognatore che è in noi” grazie ad animazioni ed effetti speciali che valorizzano i nostri pasti, la ricerca di un nuovo paio di pantaloni o un semplice momento di svago. Se nelle chiese gotiche la costruzione di ambienti immersivi poteva essere considerata come uno strumento per rinvigorire la devozione dei fedeli, infondendo loro un senso di timore reverenziale nei confronti del divino, oggi è il principale mezzo attraverso cui rianimare i consumatori dimostrando loro che il capitalismo immateriale ha ancora tanto da dare. L’utilizzo dell’immersività nelle esperienze contemporanee di massa testimonia una nuova forma di rapporto spirituale con il consumo, un particolare tipo di relazione che sfrutta la tecnologia per costruire intimità, abbattere i confini sensoriali, ispirare stupore e generare infinite esperienze individuali.

L’utilizzo dell’immersività nelle esperienze contemporanee di massa testimonia una nuova forma di rapporto spirituale con il consumo, un particolare tipo di relazione che sfrutta la tecnologia per costruire intimità, abbattere i confini sensoriali, ispirare stupore e generare infinite esperienze individuali.

L’allusione al sentimento religioso non è casuale. In un’intervista rilasciata al New Yorker, Marc Glimcher, amministratore delegato di un’azienda produttrice di esperienze immersive, ha spiegato come uno dei principali elementi alla base del successo di questa nuova forma di intrattenimento sia proprio la “fame di trascendenza” del pubblico urbano a cui questi eventi si rivolgono. Le metropoli sono sempre più inospitali e inquinate, le chiese hanno perso il loro ruolo sociale, le persone non ricordano più la magia di un tramonto nella natura: le esperienze immersive si presentano come una forma di terapia per curare il progressivo senso di insoddisfazione nei confronti della realtà, l’evasione perfetta dall’ambiente cittadino e un efficace strumento per rivitalizzare il nostro bisogno di stupore.

In inglese, questo sentimento di incanto e reverenza si traduce nel verbo “awe”, un termine che ha recentemente guadagnato terreno tra le tendenze di marketing per aziende che mirano a “reincantare” il proprio pubblico, sfruttando l’induzione di un senso di disorientamento e meraviglia per costruire un rapporto più intimo con il consumatore. È in questo contesto che le tecnologie di realtà virtuale svelano il loro vero potenziale. L’esperienza immersiva che esse generano annulla ogni distanza fisica tra lo spettatore e lo spazio (o l’opera), attivando la risposta dei neuroni specchio e la sensazione di una completa immedesimazione nella simulazione che si sta vivendo. Come spiega la critica e curatrice d’arte Chiara Canali nel suo saggio Tecno-socialità. Partecipazione e interattività nell’arte contemporanea (postmedia books, 2019), le videoinstallazioni producono uno «choc percettivo che mette lo spettatore nelle condizioni di essere coinvolto emotivamente». Leggendo il compendio di Canali sulla nascita e lo sviluppo delle prime forme d’arte virtuale, non è difficile osservare come l’industria dell’intrattenimento abbia assimilato le istanze delle avanguardie elettroniche finendo per sfruttarle per i propri scopi: l’idea di opera d’arte come evento, la fine del dominio audiovisivo attraverso la multisensorialità, la partecipazione attiva degli utenti e la contaminazione delle pratiche e dei supporti. L’installazione interattiva “The Legible City”, realizzata da Jeffrey Shaw tra il 1989 e il 1991, è un ottimo esempio di questo processo di appropriazione. L’opera si presentava come una cyclette su cui era installato un piccolo schermo, grazie al quale il partecipante poteva pedalare ed esplorare contemporaneamente le ricostruzioni digitali di città come New York o Amsterdam. Oggi, lo stesso tipo di esperienza viene proposta dal colosso di attrezzature per lo sport Technogym attraverso i suoi tapis roulant di ultima generazione. Si tratta solo di un piccolo esempio, ma se ne potrebbero citare diversi: le video-ambientazioni di Studio Azzurro, con le loro immagini interattive proiettate direttamente sulle superifici degli spazi espositivi o sugli oggetti di scena, le installazioni oniriche e polisensoriali di Pipilotti Rist, gli “environment” interattivi di Piero Gilardi.

Le metropoli sono sempre più inospitali e inquinate, le chiese hanno perso il loro ruolo sociale, le persone non ricordano più la magia di un tramonto nella natura: le esperienze immersive si presentano come una forma di terapia per curare il progressivo senso di insoddisfazione nei confronti della realtà, l’evasione perfetta dall’ambiente cittadino e un efficace strumento per rivitalizzare il nostro bisogno di stupore.

In un altro passaggio di Tecno-socialità, viene raccontata la prima opera di realtà virtuale immersiva inaugurata in Italia: “Satori”, realizzata nel 1993 dal collettivo artistico Correnti Magnetiche. L’installazione permetteva al visitatore di immergersi in un universo parallelo, un labirinto onirico suddiviso in dieci paesaggi virtuali esplorabili attraverso l’utilizzo di un casco, un joystick e una poltrona girevole, grazie ai quali scoprire un mondo ricco di effetti sonori, simbolismi e stimoli sensoriali. Lungi dal presentarsi come una mera dimostrazione dei prodigi delle nuove tecnologie elettroniche, “Satori” si proponeva come il primo esperimento in Italia di contaminazione dell’esperienza umana con la realtà virtuale, segnando la nascita di una nuova dimensione cognitiva e sensoriale resa possibile dall’interazione con l’ambiente elettronico. Il nome “Satori”, evocativo degli stati di illuminazione della filosofia zen, svelava infatti l’intento profondo dell’opera: indurre negli spettatori uno stato di epifania generato non dalla negazione, ma dal rinnovato apprezzamento del mondo materiale al “ritorno” dall’esperienza virtuale. Riemergendo dal loro viaggio, i visitatori erano invitati a riscoprire la realtà tangibile con occhi nuovi, come al risveglio da un sogno lucido.

Le sensazioni prodotte da “Satori” ricordano le parole di Glimcher: la fame di trascendenza, la ricerca di nuove pratiche di ammirazione del reale, il bisogno di ritrovare un senso di incanto nella vita moderna. Solo pochi mesi prima dell’inaugurazione di “Satori”, il collettivo Correnti Magnetiche aveva partecipato a un’importante assemblea di artiste e artisti italiani che si erano riuniti negli spazi della Fondazione Mudima di Milano per discutere e presentare i nuovi connotati che l’opera d’arte avrebbe assunto nell’era della rivoluzione elettronica: partecipativa, interattiva, multisensoriale, fluida, dinamica. Oggi le stesse qualità sono sciattamente riciclate negli slogan delle mostre immersive di massa e nelle esperienze di consumo interattive: c’è sempre un pubblico da coinvolgere, un’avventura straordinaria da intraprendere ai confini della realtà e delle emozioni uniche che aspettano di essere vissute grazie alla magia delle migliori tecnologie multisensoriali. La parola d’ordine è sempre la stessa: esperienza. Immersiva, stupefacente e, soprattutto, personale.

In inglese, questo sentimento di incanto e reverenza si traduce nel verbo “awe”, un termine che ha recentemente guadagnato terreno tra le tendenze di marketing per aziende che mirano a “reincantare” il proprio pubblico, sfruttando l’induzione di un senso di disorientamento e meraviglia per costruire un rapporto più intimo con il consumatore.

“Experience economy” è il termine che incarna con precisione la progressiva centralità che la costruzione di eventi intangibili e memorabili ha assunto nel mercato contemporaneo. Il termine è stato coniato nel 1998 dagli studiosi B. Joseph Pine II e James H. Gilmore in un articolo per la Harvard Business Review che descrive la nascita di una nuova tipologia di scambio tra marchio e pubblico, basata non tanto sull’utilizzo pratico di un bene tangibile, ma sul consumo di una situazione, un momento immateriale in grado di imprimersi interiormente ed essere riprodotto all’infinito. A differenza dei beni e dei servizi tradizionali, che sono esterni al compratore, «le esperienze sono intrinsecamente personali, in quanto esistono solo nella mente di un individuo quando viene coinvolto sul piano emotivo, fisico, intellettuale o spirituale. Così, due persone non possono avere la stessa esperienza, perché ogni esperienza deriva dall’interazione tra l’evento in scena (come un gioco teatrale) e lo stato d’animo dell’individuo». Appropriandosi del valore dell’esperienza e del suo portato individuale, ambiguo e precario, il mercato ha generato uno dei paradossi più significativi del nostro tempo: ciò che era nato come strumento di emancipazione e democratizzazione per un pubblico che rifiutava l’etichetta di consumatore passivo, ha finito per trasformarsi nel cavallo di Troia di una forma di dominio commerciale ancora più subdola e pervasiva. 

Il capitalismo dell’esperienza è ovunque e in continua evoluzione: come spiegano Pine e Gilmore nel loro studio, non si tratta solo di offrire uno spettacolo in cambio del prezzo di un biglietto, ma di trasformare qualsiasi occasione di consumo in un veicolo di esperienze «sensazionali e memorabili». Nonostante le tecnologie di realtà virtuale non fossero ancora impiegate nell’intrattenimento di massa mentre Pine e GIlmore scrivevano il loro articolo, i due studiosi citano una serie di occasioni che possono essere considerate alla stregua delle attività immersive contemporanee: i festival e le fiere stagionali in costume presso i centri commerciali, la “città” della Nike, Niketown e, ovviamente, Disneyworld. Oggi, oltre al settore dell’edutainment museale, si possono vivere esperienze immersive nei negozi e negli hotel, nei ristoranti e nelle architetture urbane. Mentre Netflix lavora per lanciare nel 2025 una serie di centri commerciali tematici dedicati alle atmosfere di Stranger Things, Bridgerton e Squid Game, una nicchia di firme di architettura e “tech factory” si prepara all’espansione della “media architecture”, che prevede l’uso della tecnologia virtuale come parte integrante della progettazione di edifici e residenze e, chissà, un domani di interi quartieri.

Ciò che era nato come strumento di emancipazione e democratizzazione per un pubblico che rifiutava l’etichetta di consumatore passivo, ha finito per trasformarsi nel cavallo di Troia di una forma di dominio commerciale ancora più subdola e pervasiva.

Come sarà vivere in città immersive dove la “fame di trascendenza” viene implacabilmente saziata dalla riproduzione di tramonti virtuali? L’arte virtuale, liberando lo spettatore dall’aura di sacralità legata all’originalità e all’autenticità (sia nella natura che nell’arte), prometteva di sovvertire la gerarchia della singolarità, proiettandoci in uno spazio nuovo, libero e condiviso. Attraverso il consumo e l’intensificazione dell’esperienza personale, l’immersività di massa si è invece evoluta in una forma di reverenza 3.0. Proprio come i social media, il turismo e il commercio al dettaglio, l’incanto riesce solo quando l’attenzione dei consumatori è completamente catturata, assorbita in un ambiente variopinto e cangiante, carico di meraviglia e stupore. In questa dimensione dimentichiamo le nostre città inospitali, la decadenza che ci circonda, l’inquinamento, le guerre e le crisi economiche. Bagnati dai raggi della Notte stellata sul Rodano consumiamo con devozione la nostra passeggiata al museo, il nostro piatto di spaghetti al sugo, il quartiere che cambia sotto i nostri occhi.

Autrice e studiosa di Environmental Humanities. Scrive per diverse riviste culturali, cartacee e online. La sua newsletter "Una goccia" raccoglie essay personali su cultura digitale e società. Ha pubblicato un saggio per la collana Quanti di Einaudi intitolato "Al centro dei desideri. Nostalgia, consumo ed estetiche digitali".