Dall’immaginario brulicante di Marlene Dumas, alle sculture che respirano di Rebecca Horn, fino alle fragili tessiture pittoriche di Miriam Cahn.
da Quants numero 1, aprile 2023
C’è un olio su tela del 1985 di Marlene Dumas che esprime in modo sorprendente la ricerca urgente di quel corpo a corpo con la pittura e la materia che l’artista di origine africana non ha mai smesso di indagare nel suo processo di dipingere. Si tratta di Die Baba (Il bambino), un ritratto da piccolo del fratello Pieter, di sei anni maggiore di lei. Sospeso in una luce insalubre dai toni blu e giallastri, l’immagine del fanciullo appare prima dolce, per poi “slittare” su un piano più emotivo dove il volto e l’espressione si fanno sovversivi – allarmante manifestazione caratteriale che avrebbe connotato la personalità del fratello negli anni a venire. Gli occhi piccoli e neri fissano lo spettatore, un sopracciglio è più marcato dell’altro. I capelli sono accuratamente sistemati e la camicia bianca con il collo stondato è ben allacciata. Sembra un bambino prematuramente adulto, che vive in un mondo di fatiche e delusioni. È proprio nelle parole di Pieter, infatti, che si può cogliere quanto la sorella avesse probabilmente un’innata intuizione nella comprensione della psicologia umana: «Anche quando ero solo un bambino, Marlene fu in grado di discernere un aspetto fondamentale della persona che sarei diventato: quel mio sguardo di critica e sfiducia nel genere umano, e lo sforzo di far corrispondere parola e azione».
Die Baba è una delle oltre cento opere che tracciano il percorso di open-end, la grande mostra monografica dedicata a Dumas conclusasi lo scorso 8 gennaio a Palazzo Grassi, Venezia. Uno tra gli appuntamenti più attesi e di successo in laguna durante la 59a edizione della Biennale d’Arte, l’esposizione è stata curata da Caroline Bourgeois in collaborazione con l’artista stessa, e ha raccolto nelle trentatré sale del museo una selezione di dipinti e disegni dal 1984 a oggi, oltre che una serie di opere inedite realizzate negli ultimi anni. Come sottolinea Ivan Carozzi in Una specie di tenerezza – la serie di podcast di Chora Media promossa da Palazzo Grassi e Pinault Collection – il titolo del progetto rimanda a una soglia mutevole tra una cosa e l’altra, evocando «l’instabilità della vita e l’incertezza del tempo che tutti noi stiamo vivendo. Indica anche la condizione di apertura e indefinitezza dell’opera d’arte, e in questo senso si rivolge direttamente ai visitatori. Non può che essere un suggerimento, un fermo invito all’interpretazione, e a ragionare con la propria testa».
Non è un caso che tutta l’opera di Dumas riesca sempre a catalizzare lo spettatore e a chiamarlo a raccolta in un coinvolgimento quasi “forzato”, che non gli consente “libertà” di estraniamento. Nei suoi quadri, infatti, è evidente l’attivazione di un gioco di sguardi tra il soggetto e colui o colei che lo guarda. Questo accade sempre, anche quando i modelli dipinti sono ritratti con un’espressione del tutto assente, o addirittura evitante, personaggi oscillanti tra stati di desiderio, piacere, dolore, godimento o agonia, come accade in Longing (2018) o in Mamma Roma (2012), opere entrambe presenti in open-end. È come se, non riuscendo a voltarci dall’altra parte, l’opera ci chiedesse di agire come uno “spettatore emancipato”, per dirla con Jacques Rancière. E non è nemmeno un caso che per i suoi dipinti di grandi volti isolati in primo piano, l’artista preferisca utilizzare la parola “situazioni”, piuttosto che ritratti, ponendo le basi per una lettura molto più profonda e complessa del soggetto in analisi e svelando talvolta la falsità e l’inadeguatezza umana radicata nelle costrizioni sociali.
I suoi oli su tela e inchiostri su carta condensano i temi fondanti di una ricerca artistica profondamente vissuta, nonché le ossessioni di un’intera vita: la frantumazione del sociale e del personale, i tabù, i vizi e le dipendenze. I miti dell’arte, del cinema, della letteratura, delle scienze. Le questioni razziali e di genere, l’apartheid. Ma anche l’erotismo e la sessualità, l’amore, l’estasi e la passione.
Nata nel 1953 in una cittadina a venticinque chilometri da Cape Town, Dumas è cresciuta nella vigna di famiglia vicino al fiume Kuils, nel sud-ovest del Sudafrica, tra le galline e gli agnelli della fattoria del padre. Dopo gli studi in pittura presso la Michaelis School of Fine Art negli anni Settanta, nel 1976, all’età di 23 anni, decide di trasferirsi in Olanda, ad Haarlem, in seguito al conseguimento di una borsa di studio che le avrebbe permesso di frequentare per due anni l’Atelier ‘63, una scuola d’arte indipendente, per poi trasferirsi ad Amsterdam, dove ancora oggi vive, e dove nel 1980 si iscrive alla facoltà di psicologia. Nei primi anni di attività, il lavoro di Dumas si avvicina molto al concettualismo, ma con una vena sperimentale che prende la forma di collage e testi. È dal 1984 che torna a dipingere corpi, come nel primo periodo di formazione in Sudafrica. Da quell’anno non smetterà più. «I miei dipinti raccontano storie […] io mi mossi lentamente dai volti ai corpi. Dagli occhi alla pelle. Dalla parola alla carne», afferma l’artista nel 1989.
Definito dalla scrittrice e poetessa sudafricana Marlene van Niekerk come un “labirinto”, il mondo di Dumas è un’immersione totale in una dimensione quotidiana e universale animata da un immaginario inquieto e brulicante, in costante ebollizione. Combattuta tra il «desiderio di una forma semplice, che aspira a restare per sempre, e una sparizione nell’assenza di forma», Dumas dipinge corpi e volti relegati ai margini della cornice, soggetti presi in prestito e isolati dalla cultura popolare di massa. Essi traggono ispirazione da immagini preesistenti, ritagli di giornale, fotogrammi cinematografici o polaroid che Dumas ha scattato ad amici e famigliari. «Sono un’artista che utilizza immagini di seconda mano ed esperienze di primo ordine», afferma. I suoi oli su tela e inchiostri su carta condensano i temi fondanti di una ricerca artistica profondamente vissuta, nonché le ossessioni di un’intera vita: la frantumazione del sociale e del personale, i tabù, i vizi e le dipendenze. I miti dell’arte, del cinema, della letteratura, delle scienze. Le questioni razziali e di genere, l’apartheid. Ma anche l’erotismo e la sessualità, l’amore, l’estasi e la passione. La violenza e la morte. Il disagio psichico e il corpo con le sue mutazioni nel tempo. Un’arte «erotica, sensuale, tenera, e piena di un’oscurità meravigliosa, ma non malata», dichiara nel 1994.
Il corpo per Dumas è un intreccio di implicazioni fisiche, comportamentali, psicologiche, culturali, sociali e politiche, è uno strumento di resistenza, decadimento e forza di liberazione.
«Stanare il male dentro di sé e farci i conti senza sconti è un rito di passaggio tanto traumatico quanto imprescindibile per divenire artisti che non hanno paura di smascherare la realtà, a cominciare dalla propria realtà interiore», afferma Jonny Costantino sul blog Antinomie. Questo è particolarmente vero per Dumas, soprattutto alla luce della sua abitudine a partire da sé come oggetto di osservazione, analisi e autocritica. C’è infatti un’opera giovanile non esposta a Palazzo Grassi che trovo fondamentale per comprendere la sua poetica e per riflettere sull’atto fisico del dipingere: si tratta di Selfportrait, un autoritratto a inchiostro su carta del 1973 di marcata matrice concettuale, in cui l’unico elemento presente è una grafia meccanica, una scrittura quasi automatizzata, tesa e rigida nel suo procedere sul supporto materico. Questo lavoro è stato il primo modo attraverso il quale Dumas ha messo in luce quanto la superficie dell’opera sia un paesaggio politico, una dimensione aperta e disposta ad accogliere l’incrocio tra un soggetto e il mondo, con le tensioni che inevitabilmente ne derivano. Il corpo per Dumas è un intreccio di implicazioni fisiche, comportamentali, psicologiche, culturali, sociali e politiche, è uno strumento di resistenza, decadimento e forza di liberazione. E le superfici della tela o della carta sono da sempre il campo di indagine prediletto, spazio primordiale e ultimo nel quale far confluire quel gesto di concentrazione assoluta che la pittura non ha mai smesso di richiederle, dalle prime sperimentazioni più concettuali, sino a oggi. Un processo che si inscrive in modo indelebile nei corpi e nei volti dei suoi soggetti, magazzini di angosce emotive e gioie, i quali, aprendosi davanti ai nostri occhi, rivelano sulla loro pelle e nella carne la complicatissima mappa del loro vissuto personale e collettivo.
«Le emozioni hanno conseguenze fisiche?» si chiedeva Susan Sontag in Malattia come metafora (1978, ristampato nel 2020 da nottetempo), domanda che pone, nuovamente, Olivia Laing in Everybody (Il Saggiatore, 2022), il suo ultimo romanzo «sui corpi in pericolo e sui corpi come motore di cambiamento» che in alcuni passaggi delle vicende narrate sembra riecheggiare i toni lividi e cerei che Dumas ha espresso in pittura. Riuscendo a mantenere al centro il corpo come strumento di controllo e spazio di liberazione, Laing intreccia qui la sua storia personale – «avevo ventidue anni quando cominciai a frequentare lo studio di Anna e il corpo era al centro dei miei interessi. […] L’elemento che mi interessava di più era l’esperienza di viverci dentro, di abitare un veicolo catastroficamente fragile, preda inaffidabile di piacere e dolore, odio e desiderio» – con un mosaico abilmente composto da racconti di altrettante esperienze fisiche e intellettuali di noti personaggi come Agnes Martin e Ana Mendieta, Susan Sontag, Nina Simone e il marchese de Sade. Scintilla di questa riflessione è l’incontro durante i suoi studi giovanili (ripresi nel 2016) con Wilhelm Reich, «uno degli intellettuali più strani e preveggenti del Novecento», ci dice Laing, geniale discepolo di Freud che dedicò la sua vita a comprendere il «legame controverso tra corpo e libertà».
Colpita da una grave forma di tubercolosi causata dai danni provocati dalle fibre tossiche contenute nel materiale vitreo che utilizzava per i suoi lavori, nel 1968 Horn vive immobilizzata in un sanatorio, dove resta per un intero anno. Questa esperienza di malattia e isolamento la porta a forzare i confini tra il sé e ciò che lo circonda, mettendo in discussione la «fine del corpo e l’inizio di ciò che lo contiene»
Pensando a queste storie e al corpo come motore di sofferenza capace di attuare un cambiamento, al corpo come spinta verso la ricerca di una condizione altra, mi viene in mente la storia di Rebecca Horn. Artista, regista e performer tedesca classe 1944, Horn è una di quelle figure poco conosciute al pubblico italiano, nonostante a soli 28 anni, nel 1972, fu invitata a Documenta, una delle più importanti manifestazioni internazionali di arte contemporanea a cadenza quinquennale che si svolge in Germania, a Kassel. Sviluppati tra memorie e aneddoti personali, la maggior parte suoi lavori toccano la tematica del corpo, i simboli e le metafore che esso incarna, ma anche il ricordo che ne abbiamo attraverso i sensi, gli organi e le funzioni interne, come il battito cardiaco o lo scorrere del sangue nelle vene. Per questo motivo le sue sculture spesso “respirano”, anche quando mettono in luce il loro aspetto più meccanico: «Reagiscono come reagiamo noi. Si innervosiscono e a volte devono fermarsi». Ma non è sempre il corpo a essere visibile, semmai la possibilità di vedere e sentire come un corpo: «Il corpo come rifugio e campo di battaglia contemporaneamente, unica proprietà e unica cosa da condividere». Colpita da una grave forma di tubercolosi causata dai danni provocati dalle fibre tossiche contenute nel materiale vitreo che utilizzava per i suoi lavori, nel 1968 Horn vive immobilizzata in un sanatorio, dove resta per un intero anno. Questa esperienza di malattia e isolamento la porta a forzare i confini tra il sé e ciò che lo circonda, mettendo in discussione la «fine del corpo e l’inizio di ciò che lo contiene». Ma è proprio qui che la sua ricerca inizia ad ampliarsi: oltre alla realizzazione di performance di “estensione corporale” nelle quali utilizza protesi e oggetti come guanti con dita fuori misura, l’artista produce sculture cinetiche, installazioni e film. In Kiss of the Rhinoceros, scultura del 1989 in mostra ne Il latte dei sogni alla Biennale d’Arte 2022 curata da Cecilia Alemani, due grandi bracci metallici percorsi da una scarica elettrica fanno avvicinare e allontanare due corna di rinoceronte posizionate alle loro estremità. Esposta nel 1989 nella storica e controversa mostra Les Magiciens de la Terre organizzata al Centre Pompidou e la Grande Halle de la Villette a Parigi, questa scultura imita nelle sue aperture il movimento in due tempi che coincide con l’inspirazione e l’espirazione umana, avvicinando il corpo che incarna a una figura cyborg, tema sviluppato in una delle capsule storiche alla Biennale di Alemani.
Se con Horn il corpo e le dinamiche legate al dolore fisico vengono rielaborati ma restano espressi a un livello confinato su un piano personale che solo successivamente si apre all’universale, con l’artista svizzera Miriam Cahn la rappresentazione del corpo e delle sue vulnerabilità diviene uno strumento di riflessione per indagare a fondo la storia europea e globale. Influenzata agli inizi degli anni Ottanta dalla performance art e dalla scia dei movimenti femministi, a partire dagli anni Novanta, Cahn, classe 1949, si dedica interamente alla pittura, abbandonando quei disegni monumentali che l’avevano lanciata a livello internazionale e che nel 1982 le assicurarono la partecipazione a Documenta e l’assegnazione del padiglione svizzero alla Biennale d’arte di Venezia del 1984. Nelle sue tele, le esperienze personali, i ricordi di famiglia e le riflessioni sull’attualità si combinano con eventi socio-politici. Ma anche la femminilità, le questioni di genere, l’amore, la sessualità, la violenza, l’antisemitismo, la guerra e la fuga sono temi che scorrono nelle cromie e nei soggetti che animano le superfici. È come se il suo immaginario «risucchiasse l’osservatore in paesaggi da incubo che evocano la violenza percepita a livello umano e corporeo, a causa delle politiche globali, della guerra e dell’oppressione». Cahn, insomma, mette lo spettatore di fronte alla sua visione dell’indicibile, richiedendo uno sguardo attento e profondo verso le molte contraddizioni del nostro mondo, anticipando e specchiando nei suoi lavori decenni di violenza che hanno sporcato la nostra storia sociale e infranto i nostri corpi. Recentemente esposto da ICA Milano nel progetto Gezeichnet a cura di Alberto Salvadori e Luigi Fassi, il lavoro di Cahn è stato anche scelto da Cecilia Alemani per Il latte dei sogni. Il suo unser süden sommer 2021, 5.8.2021 (2021), installato presso il Padiglione Centrale dei Giardini, raccoglie tredici dipinti, nove disegni a tecnica mista e sei taccuini d’artista. Forse tra le più evocative dell’intero gruppo di opere, un dipinto immortala due corpi, probabilmente una madre con il proprio figlio: due silhouette leggerissime e senza identità che cadono sfumate verso il basso, risucchiate dall’oscurità di un fondale oceanico, esprimendo apertamente quel senso di precarietà e fragilità che non solo connotano la figura materna, ma ogni essere umano, senza distinzione.
«Immaginate per un momento cosa significhi abitare in un corpo senza nessuna paura, senza bisogno di alcuna paura. Immaginate cosa potremmo fare. Immaginate soltanto il mondo che potremmo costruire», conclude Laing nel suo romanzo.