Per quanto il loro periodo di gloria sia durato solo dieci anni, questi luoghi ormai dimenticati hanno rappresentato la prima porta d’accesso al cyberspazio.
Nella mia memoria, gli Internet café sono legati a due momenti, che sono anche la prima e l’ultima volta in cui mi è capitato di entrare in questi luoghi ormai rimossi dal nostro immaginario. E pensare che, nonostante il breve periodo di gloria, gli Internet café hanno rappresentato una tappa fondamentale della transizione digitale in cui oggi siamo immersi.
Il mio primo ricordo risale all’inizio dei Duemila: avevo appena iniziato a frequentare l’università e da poco conquistato l’accesso a Internet da casa, sfruttando un elefantiaco modem 56k (quelli dell’indimenticabile rumore emesso durante la connessione). Durante l’estate ero però andato in Liguria: dal momento che gli smartphone erano ancora di là da venire, non avevo modo di accedere alla Rete.
Ed è così che, passeggiando per le strade di Levanto, mi infilai per la prima volta in un Internet point (o Internet café, o un futuristico cybercafé). Ricordo benissimo il senso di straniamento causato dal fatto che, appena seduto davanti al pc che mi era stato assegnato e aperta l’homepage di Hotmail (al tempo dominante), mi ritrovai davanti alla casella email dell’utente che mi aveva preceduto, che non si era nemmeno degnato di fare logout.
Erano il luogo che, più di ogni altro, incarnava ciò che fino a poco prima esisteva soltanto nei romanzi cyberpunk di William Gibson: un posto in cui recarsi fisicamente per entrare nel mondo digitale.
È stata la prima volta in cui mi è capitato di pensare ai potenziali rischi legati a un utilizzo distratto di Internet e delle misure di sicurezza nel mondo digitale, tema che di lì a poco sarebbe diventato di cruciale importanza. Un po’ perplesso, ho sbirciato qualche secondo l’elenco delle mail, poi sono uscito da quella casella, sono entrato nella mia e ho controllato quello che dovevo controllare (se ricordo bene, era in corso una corrispondenza con la mia ragazza dell’epoca, che si trovava all’estero, e forse dovevo anche iscrivermi a qualche esame).
Avanti veloce di dieci anni circa e mi trovo, sempre d’estate, insieme a due amici in viaggio in Indonesia. È il 2011 e non ho ancora uno smartphone (cederò nel 2013). Ma se anche lo avessi avuto, dubito che all’epoca avrei potuto collegarmi agevolmente a Internet: un po’ per i costi, un po’ perché la connessione non era certo capillare come oggi.
E così, mentre in macchina raggiungevamo la nostra destinazione percorrendo una terrificante strada sterrata, approfittammo della comparsa di un cartello “Internet point” per fare una sosta e mandare una mail alle fidanzate e ai genitori. Non era esattamente un Internet point: era in realtà un minimarket, bar, ristorante, infopoint, Internet point e chissà quante altre cose, nel cui cortile vagavano parecchie galline e il cui business sembrava legato soprattutto alla vendita di bottigliette d’acqua in un luogo in cui trovarle non era affatto facile.
Il cyberspazio che avevamo sognato leggendo Gibson o guardando Matrix era diventato realtà, ma il prezzo da pagare era una prosaicità distante anni luce dai nostri sogni sci-fi.
Mandate le mail per avvisare chi di dovere che tutto procedeva per il meglio e comprata l’acqua, ci siamo rimessi in cammino. A distanza di dieci anni dalla prima volta in cui ero entrato in un Internet café in Liguria, quella è stata invece l’ultima volta che mi è capitato di metterci piede. Curiosamente, la traiettoria dei miei ricordi, che va da occidente verso oriente nell’arco di un decennio, è esattamente quella che, come vedremo, è stata seguita dagli Internet café e dalla loro ascesa e declino.
Nonostante siano luoghi ormai dimenticati e il cui periodo di gloria – come tutto ciò che si verificava in quegli anni di rapidissima, fulminante evoluzione tecnologica – è stato di breve durata (circa un decennio, per l’appunto), gli Internet café meriterebbero uno spazio decisamente più importante nella nostra memoria digitale.
Gli Internet café – come scrive Cesar Cantu su Near Shore – «promettevano di democratizzare l’accesso al sogno tecnologico della connettività globale». Gli anni della loro ascesa erano anche gli anni del galoppante tecno-ottimismo e della bolla delle dotcom, in cui il web iniziava a diffondersi assieme al sogno del “villaggio globale digitale”, segnalando l’arrivo del futuro.
La fine degli Internet café – e la diffusione degli smartphone – segna anche la fine della dicotomia online/offline.
Oggi saranno anche una reliquia di un passato tanto lontano nelle abitudini digitali quanto vicino cronologicamente, ma negli anni a cavallo tra i Novanta e i Duemila gli Internet café erano il luogo che, più di ogni altro, incarnava ciò che fino a poco prima esisteva soltanto nei romanzi cyberpunk di William Gibson: un posto in cui recarsi fisicamente per entrare nel mondo digitale. Gli Internet café erano la porta d’accesso a quel cyberspazio che ancora negli anni Ottanta era solo fantascienza.
È una descrizione che compare anche in un articolo del Washington Post del 1993, all’interno del quale Wayne Gregori, fondatore del primo Internet café della storia e che ritroveremo tra poco, afferma: «È il migliore esempio di cyberspazio. C’è qualcosa di spirituale nel recarsi in un mondo che vive solo attraverso le parole (com’era la rete nei primi Novanta, ndA). È come un romanzo vivente che prosegue ventiquattro ore al giorno. C’è davvero di che perdersi in questa cosa».
Certo, questo mix di riferimenti immaginifici e fantascientifici stride quando si ripensa alla realtà degli Internet café: luoghi spesso popolati da computer lenti e strapieni di virus, in un’epoca in cui acquistare un biglietto del treno online era un’impresa e in cui le immagini che avevamo bisogno di visualizzare si mostravano davanti ai nostri occhi a una lentezza esasperante.
Il cyberspazio che avevamo sognato leggendo Gibson o guardando Matrix era diventato realtà, ma il prezzo da pagare era una prosaicità distante anni luce dai nostri sogni sci-fi. Sogni sicuramente condivisi dal già citato Wayne Gregori: l’uomo che ha innescato la rivoluzione di un luogo fisico pensato per accedere a quello digitale.
È infatti il 1991 quando Gregori, trentacinquenne di San Francisco, lancia SF Net: il primo bar al mondo a offrire anche delle postazioni informatiche, consentendo di accedere alla rete (al costo di 50 centesimi ogni otto minuti) in una fase in cui solo l’1% della popolazione statunitense era connessa a Internet da casa.
Tre anni dopo, il designer Ivan Pope partecipa a un evento organizzato dall’Institute of Contemporary Art di Londra, intitolato Towards the Aesthetics of the Future. Qui, per la prima volta, viene lanciata e dettagliata l’idea di un vero e proprio Internet café, all’interno del quale tutto ruota attorno alla rete e alla possibilità di sfruttare il nuovo mondo digitale per scoprire l’arte e la cultura contemporanea di tutto il mondo.
Non è evidentemente un caso che sempre a Londra, e sempre nel 1994, nasca il primo Internet café del mondo: il Cyberia, situato nel quartiere di Fitzrovia. È un successo immediato, che ne genera una rapida moltiplicazione e che attira anche l’attenzione dell’allora 27enne Stelios Haji-Ioannou, fondatore di easyJet.
E così, nel 1999, gli Internet café compiono un altro salto: nasce la prima catena a loro dedicata – easyEverything (tutte le aziende di Haji-Ioannou sono “easy Qualcosa”) – e iniziano ad aprire negozi nel Regno Unito e in giro per il mondo. Il più grande di questi, situato a Londra a due passi da Victoria Station, è dotato di 400 monitor in uno spazio di mille metri quadrati.
A garantire, soprattutto in Estremo Oriente, maggiore longevità agli Internet café è anche il contemporaneo boom del gaming,
Un anno dopo apre anche il primo easyEverything di New York, a Times Square: è la definitiva consacrazione degli Internet café. Inevitabilmente, il momento in cui si raggiunge l’apice è però anche quello in cui inizia il declino. Se nel 1991 la penetrazione casalinga di Internet era, negli Stati Uniti, all’1%, dieci anni dopo questa percentuale aveva superato il 50%, arrivando invece al 33% nel Regno Unito (in Italia è al 27%). Nello stesso periodo inizia anche a diffondersi la banda larga nelle abitazioni, viene introdotto il 3G (la prima connessione mobile in grado di tenere il ritmo di quelle fisse) e nubi nere compaiono all’orizzonte degli Internet café.
Già nel 2004, solo dieci anni dopo l’inaugurazione del Cyberia, il Guardian pubblica quello che – almeno stando alle mie ricerche – rappresenta il primo necrologio degli Internet café: «Declino terminale: erano tra i simboli più visibili del boom delle dot-com, ma adesso i cyber café sono a rischio estinzione». «Quasi il 50% delle case ormai ha accesso a Internet», si segnala nell’articolo. «Di conseguenza le persone non usano più così tanto gli Internet café: un trend destinato a continuare adesso che stanno venendo lanciate le connessioni veloci per telefoni cellulari».
A mettere l’ultimo chiodo sulla bara degli Internet café – almeno in Occidente – ci pensa pochi anni più tardi Steve Jobs, che il 9 gennaio 2007, parlando dal palco del Moscone Center di San Francisco, presenta il primo iPhone, trasformando i telefoni cellulari in computer tascabili sempre connessi.
Da allora, come aveva affermato lo stesso Jobs, nulla è più stato come prima. Soprattutto, l’avvento del primo smartphone ha rappresentato un enorme passo verso la fusione tra il mondo fisico e quello digitale, e tra il corpo umano e la macchina. Attraverso lo smartphone, il mondo online non è più separato da quello offline. Al contrario, siamo costantemente connessi a Internet, in qualunque momento e in qualunque luogo: una condizione a cui il filosofo Luciano Floridi ha dato la celebre definizione di “onlife”.
Osservandolo da questo punto di vista, il significato degli Internet café si arricchisce ulteriormente. Entrare negli Internet café significava, come già detto, entrare nel cyberspazio: immergerci momentaneamente nella rete e poi, una volta usciti, scrollarci di dosso il mondo digitale e riaffiorare in quello fisico. La fine degli Internet café – e la diffusione degli smartphone – segna anche la fine della dicotomia online/offline.
Ma ciò che stava avvenendo in Occidente non era lo stesso che accadeva in molte aree dell’Oriente e del Sud globale. Negli stessi anni in cui in Europa e negli Stati Uniti iniziano a chiudere, gli Internet café esplodono in Asia, in Africa e in Sud America. Nel 2011 se ne contano 350mila in tutta l’Asia, mentre in Sud America ce ne sono centomila nel solo Brasile. In Messico, ancora nel 2006, il 40% di tutto il traffico web proveniva dagli Internet café. In Cina, l’espansione dei wangba (come lì sono chiamati) prosegue fino al 2016, quando raggiungono quota 152mila.
A garantire, soprattutto in Estremo Oriente, maggiore longevità agli Internet café è anche il contemporaneo boom del gaming, che fa intuire a molti proprietari le potenzialità economiche di convertire i loro vecchi esercizi in quelli che in Corea del Sud vengono battezzati “PC Bang”: luoghi in cui le postazioni sono dotate di computer dalle prestazioni elevate e di confortevoli sedie da gamer (oltre che di snack e bevande di ogni tipo), e in cui gli appassionati spesso si ritrovano in gruppo.
Si stima che circa quindicimila persone – soprannominate Net Café Refugees – vivano negli Internet café (che sono aperti 24/24) solo nella città di Tokyo.
Ma anche la reinvenzione in PC Bang per giocare a League of Legends e simili giunge gradualmente al termine. Un po’ per la stretta su questi luoghi decisa da molte nazioni asiatiche (in primis, ma non solo, in Cina), preoccupate dai casi di malore, e addirittura morte, provocate da sessioni di gioco troppo lunghe e troppo intense, e un po’ per la maggior disponibilità casalinga di computer ad altissime prestazioni, il numero degli Internet café inizia a declinare anche in Asia.
In Cina, la presenza degli wangba si riduce di quasi il 40% tra il 2016 e il 2020, in Corea del Sud si passa dai ventimila del 2010 agli ottomila del 2022. Anche in America Latina il calo è simile per entità e velocità: in Messico, il traffico proveniente dagli Internet café passa dal 30% del 2014 al 14% del 2016. Nel 2017 crolla a un misero 5%.
Attorno alla fine dello scorso decennio, e complice anche il Covid, un’epoca si chiude: quello che alla fine degli anni Novanta era un simbolo del futuro collocato nelle zone più prestigiose delle metropoli, adesso è una reliquia del passato, della preistoria di Internet.
Un’analisi degli Internet café che ancora sopravvivono mostra in tutta la sua evidenza questo declino: in Cina vengono visitati – come racconta The World of Chinese – soprattutto da giovani in cerca di un «brivido nostalgico» e che vogliono ritagliarsi un po’ di spazio privato, «lontani dai dormitori affollati in cui vivono con altri studenti o lavoratori». In Giappone, a causa dell’insostenibile situazione abitativa delle grandi città, si stima che circa quindicimila persone – soprannominate Net Café Refugees – vivano negli Internet café (che sono aperti 24/24) solo nella città di Tokyo, dove per pochi yen possono avere a disposizione anche una zona relax con branda (caratteristica nata proprio per far fronte agli eccessi da gaming).
Negli Stati Uniti, a partire dalla metà degli anni Dieci, molti Internet café sembrano invece essere stati clandestinamente “riconvertiti” in sale per il gioco d’azzardo illegale. E in Italia? Una rapida ricerca degli Internet café segnalati da Google Maps a Milano ne restituisce circa una quindicina, nella maggior parte dei casi collocati in periferia e associati a minimarket o a servizi di money transfer destinati principalmente alla popolazione straniera.
In particolare, l’immagine presente su Maps del Jiayin Internet Point di via Padova simboleggia nella maniera più evidente possibile il loro declino. Dove un tempo c’erano i luoghi associati all’idea stessa di cyberspazio, oggi c’è una vetrina a cui è attaccato un cartello: «Vietato sputare. No alcool. No ubriachi».