Poche cose sono in continuo movimento come il mondo del marketing. Proviamo ad analizzare quali sono le ultime tendenze, tra franchising, app, privacy, advertising, tv, influencer, microbrand e anche tanta incertezza.
da Quants numero 11, marzo 2024
La filiera del marketing vive di novità: il problema principale per chi se ne occupa in qualità di marketing manager è filtrare, distinguere ciò che è luccicante ma fatuo da quello che potrebbe essere un segnale ancora debole di un futuro smottamento importante. La tecnologia in effetti ogni anno ci propone qualcosa che cambierà per sempre il modo di fare marketing. Siamo passati indenni per il meteorico metaverso, gli ormai dimenticati NFT, l’eterna promessa Realtà Virtuale e/o Aumentata. Anche la presunta rivoluzione degli assistenti vocali come Alexa e co. per la maggior parte ha sostituito più che altro vecchie sveglie e radio e ha reso un po’ più domotica la casa, ma non ha certo intaccato il settore e-commerce. Il mio personale mantra è attendere che ogni tecnologia dimostri di avere un impatto su una fascia di consumatori che non siano early adopter, quel segmento di mercato che adotta la novità perché è una novità. Insomma, nel marketing reale, più che interrogarsi sul metaverso, si tratta più spesso di capire, per esempio, perché il padel – il tennis «per pippe», come l’ha impietosamente marchiato Nicola Pietrangeli – ha conquistato l’Italia in pochi anni fino alla remota provincia. La stessa superstar del 2023, ChatGPT e l’intelligenza artificiale generativa (di testi e foto), va valutata più su quello che potrà fare nei processi operativi (segmentare meglio i clienti, automatizzare la pubblicità online, personalizzare i messaggi, migliorare il customer care ecc.) che nelle sue manifestazioni più appariscenti – la capacità sempre migliore di creare immagini realistiche, per esempio. L’osservazione della realtà, e di come la tecnologia modifica la realtà, è una tecnica forse sottovalutata ma efficace. A partire da questo metodo vi propongo dunque alcuni punti che, secondo me, dovete tenere d’occhio nel corso di quest’anno e oltre. Non tutti diventeranno davvero delle rivoluzioni riuscite o si consolideranno come trend, ma l’esperienza – che è soprattutto accumularsi di sbagli passati di valutazione – mi dice che lì, qualcosa, si sta muovendo. Partiamo dal mondo fisico, consapevoli che oggi, fisico e digitale, in realtà, si intersecano in modo quasi indistricabile.
Ancora più franchising?
Non è un fenomeno nuovo: da sempre – almeno nell’epoca contemporanea – i nostri centri città, ma anche i centri commerciali (in senso lato, stazioni, aeroporti, ecc.) sono delle fotocopie l’uno dell’altro. Ognuno contiene le stesse “insegne”, o almeno la maggior parte di un pool di marchi che sono quasi in simbiosi con l’ambiente dello shopping stesso, quasi a plasmarlo più che semplicemente a farne parte. Il franchising sembra un po’ la classica gallina dalle uova d’oro, incurante dei tempi incerti e della rivoluzione e-commerce. Ovviamente non tutti hanno sempre successo, o almeno un grande successo, ma hanno un pregio notevole: quando funzionano poi sono replicabili, come fotocopie. Qualcuno, a proposito, ha scritto che riesci a fare davvero business solo quando la tua operatività ha bisogno solamente di studenti e lavoratori part-time per essere portata avanti. Pensava al più iconico dei franchising, McDonalds, ovviamente. La formula forse non è esattamente così semplice ma l’insegnamento è potente: è la macchina (o il sistema) che vince, non isolati apici di eccellenza. E a volte essere “prevedibili” (il cliente sa perfettamente cosa può aspettarsi e cosa no) è perfino preferibile all’essere “sorprendenti”: un secondo grande insegnamento. Ma soprattutto il franchising ci insegna che sì, probabilmente lo spazio con più valore al mondo (almeno per il business) sarà la schermata dello smartphone, ma il secondo è, e rimane, il luogo in cui le persone, per necessità, svago, logistica, si trovano a trascorrere tempo fuori casa, possibilmente in un atteggiamento propenso all’apertura del portafoglio. O meglio del proprio smartphone, come vedremo nel prossimo paragrafo. L’occupazione dello spazio fisico (non è un caso che spesso queste catene vengano lanciate e supportate da gruppi con forte competenze nell’immobiliare) si somma all’esistenza di risorse per l’occupazione del tempo digitale, attraverso campagne social e televisive. La pubblicità costa, creare un marchio conosciuto costa ancora di più, e spalmare gli investimenti su molti punti vendita, identici, è estremamente conveniente.
Nel marketing reale, più che interrogarsi sul metaverso, si tratta più spesso di capire, per esempio, perché il padel ha conquistato l’Italia in pochi anni fino alla remota provincia.
Ancora più app?
Quando sono in coda alla cassa osservo le modalità con cui le persone pagano. In pochi anni siamo passati dal contante al wallet dello smartphone. Difficilmente qualcuno sotto i quarant’anni oggi estrae la carta di credito dal portafoglio. La mia non è solo un’impressione: ogni osservatorio indica come dal Covid in poi non si sia più tornati indietro – avremo anche smesso di fare palestra e infornare il pane in casa, ma le banconote non ci piacciono più. Anzi, il momento del pagamento diventa esso stesso marketing: la grande avanzata del Buy Now Pay Later, online e offline, con cui i consumatori possono pagare gli acquisti in tre rate a tasso zero, incentiva le vendite e, non secondariamente, trasmette a Klarna, uno dei principali operatori del settore, e similari informazioni preziose sui nostri acquisti. E vedremo poi come questo sia oggi fondamentale. Satispay, una app “borsellino”, ha consolidato la propria diffusione territoriale e generazionale: in questi anni ha diffuso nel pubblico il concetto di cashback, anche dopo che quello di stato è terminato. Si acquista oggi anche scegliendo tra gli esercizi “in cui ti restituiscono una parte dello scontrino”.
E da quando ci siamo, usiamo di più anche la app per le carte fedeltà. Ogni catena commerciale che si rispetti ne ha oggi una – omnicanale, cioè in grado di tenere conto (e di premiarci) per gli acquisti online e in negozio – questo favorisce ancora di più la formazione di brand “pluridimensionali”: le piadine in franchising sono in vendita in ogni centro commerciale e centro città, ma anche sulle app di delivery. I brand di abbigliamento maschile in franchising dai nomi english-sounding (ma al 100% italiani) sono in vendita sui loro siti e app online e ovviamente nei centri di consumo. Scegli tu come, ci dicono. Un altro punto a favore di aziende che spaziano dall’online al fisico senza troppe “frizioni” di esperienza cliente: siamo come tu ci vuoi, ci adattiamo a te. Anche se l’e-commerce (dati 2023) non aumenta più così rapidamente, noi siamo nelle vie cruciali, negli snodi cruciali della tua giornata, è la strategia di brand oggi. Stamattina guardi una gonna in vetrina, poi stasera lo compri online. O domani leggi una notifica sulla nostra app, e uscendo dal lavoro la passi a ritirare in negozio. Non ti piace? Non è la taglia giusta? Riportala in negozio, così proviamo a farti cambiare prodotto anziché ridarti i soldi. Così vinciamo comunque.
Non è lontano il momento in cui compreremo 30 secondi all’interno di uno stream TV allo stesso modo in cui oggi sponsorizziamo un post su Facebook.
Ancora più privacy?
Non è un caso se la maggior parte delle catene di vendita vi chieda oggi i dati, come facevano i supermercati anni fa per potervi regalare i famosi bollini al superamento di soglie di acquisto, da scambiare in premi vari a fine anno. Le motivazioni della raccolta dati sono oggi sostanzialmente diverse: varie ondate di leggi a tutela della privacy stanno portando le aziende ad avere sempre meno informazioni sugli utenti “non registrati”. Chrome sarà l’ultimo dei browser a cancellare i famosi cookie di terze parti (quelli che provocano l’odiato e ubiquo clic sull’eponimo cookie-banner). In pratica, il marketing non saprà più così precisamente caratteristiche e interessi degli utenti online. Quindi dovrà capire con altri mezzi chi sono i clienti, per servirli meglio – che nel gergo del marketing spesso coincide con un più prosaico vendere di più – e contattarli più efficacemente. Le app, sevizio clienti, e-commerce e carta fedeltà tutto in uno, sono perfette per questo scopo: oltre alle classiche email, SMS, si aggiunge la rinnovata efficacia di notifiche mobili e chat-commerce potenziate finalmente da qualcuno che capisce cosa stiamo scrivendo, grazie a ChatGPT e affini. Il tempo dei chatbot che non comprendevano quello che stavamo scrivendo potrebbe essere alla fine. «Ehi Kiko, quale rossetto mi consigli per la mia pelle chiara e il mio stile indie fashion?» «Ti propongo questo, questo, oppure questo». E via, il problema è risolto.
Ancora più advertising?
Tuttavia, l’uso interno di questi dati raccolti direttamente dai propri clienti non è l’unico scopo. Le sirene delle grandi piattaforme stanno avvolgendo i marchi con un canto che all’incirca suona così «Noi non abbiamo più tanti dati, ok, ma tu portaci i tuoi, li incrociamo con i nostri utenti, e te ne forniamo dei nuovi, simili in tutto e per tutto a quelli che hai tu, pronti ad acquistare – o quasi». Chi può resistere a questa promessa? Mettici che alla base di questo processo di ricerca c’è – eccola che ritorna – il superpotere della AI, ed ecco di nuovo un potenziale strumento per quello che è il mantra del marketing: il messaggio giusto al momento giusto, per il target giusto.
Ma cosa è oggi davvero una piattaforma di advertising? Non solo le conosciute Meta o Google. C’è anche Amazon (azienda), che promuove perfino e-commerce che non sono su Amazon (store). Mettiamoci dentro anche Tiktok – ormai a tutti gli effetti anche una superpotenza della pubblicità, dopo anni di crescita impetuosa degli utenti attivi. Ma c’è di più: nel 2024 si sta verificando un fenomeno chiamato retail media. In pratica ogni spazio munito di un monitor e connesso in rete potrà diventare “un banner”. Il marketing potrà comprare spazi all’interno di spazi di vendita: immaginate Barilla che compra spazi advertising dentro a Coop, a cui non è indifferente un nuovo filone di ricavo. Ma man mano che tutto questo diventa automatizzato e digitale, questa opportunità potrebbe essere accessibile a molte piccole aziende. E se il marketing può unire i dati personali dei clienti che i brand posseggono (quelli della app di prima) con quelli del retailer, incrociandoli, l’efficacia di queste operazioni potrebbe essere molto alta. Vendere la (tua) pasta a chi (già) compra pasta, è la promessa del retail media per il 2024. E dove funziona meglio che non nel luogo in cui le persone già stanno comprando, cioè il negozio, online o fisico che sia?
Ormai non più tanto “social” media, ma vere e proprie micro-TV personalizzate, in cui i ruoli di creazione e fruizione sono di nuovo nettamente differenziati, e in cui il consumo di contenuti è passivo ma, come per la TV, con una forte influenza sui consumi.
Ancora più TV?
Qual è oggi lo schermo connesso più diffuso, dopo lo smartphone? La risposta è facile. La smart TV, naturalmente. Nonostante la fruizione di Netflix e simili sia ancora minoritaria, la crescita delle TV connesse, che accedono a canali on demand ma gratis – YouTube, Twitch, fruiti in buona parte su grande schermo, ma anche RAI Play, Mediaset e la new-entry Samsung TV – è già qualcosa difficile da ignorare, per estensione (il numero di famiglie che raggiungono), per capacità di segmentazione (ancora i famosi dati incrociabili) e per accessibilità tecnica ed economica: non è lontano il momento in cui compreremo 30 secondi all’interno di uno stream TV allo stesso modo in cui oggi sponsorizziamo un post su Facebook. La vecchia cara TV, proprio quando sembrava ormai un mezzo agé, con un’iniezione di digitale e di dati ha ripreso una sua centralità: in un mondo in cui ogni messaggio è personalizzato, è necessario per molti brand lanciare un messaggio unico (o unificante), qualcosa in cui molte persone possano riconoscersi e creare di nuovo “cultura” attorno al lifestyle in cui vogliono inserirsi. C’è ancora bisogno di spot “alla Coca-Cola” ma su canali più anagraficamente contemporanei, e concentrando minimamente il target rispetto alla TV disconnessa tradizionale – con un vantaggio ulteriore: misurare le visualizzazioni effettive, o quasi. Di sicuro il metodo Auditel finirà in soffitta. E speriamo di non dover cliccare sul banner della privacy ogni volta che ci sintonizziamo su di un canale.
Ancora più influencer?
Vado controcorrente, me ne rendo conto. Ma i dati sono dalla mia parte: nonostante il caso Ferragni, l’uso degli influencer per promuovere prodotti non è in calo, anzi. Anche qui, ricerche sulla spesa di marketing futura vedono il canale influencer ancora in crescita. Certo lievita anche la necessità di usare più accortezza (viene da dire: finalmente) nella scelta dei personaggi con cui collaborare e nella sostenibilità dei costi associati. Misurabilità e impatto sono le parole chiave del 2024. Alla fine, se l’influencer marketing è pubblicità, l’output deve essere confrontato attraverso parametri confrontabili: quanto il brand è più conosciuto? Quanto è aumentata la propensione all’acquisto? Quanto traffico e vendite portano nel breve periodo? E non ultimo, ovviamente, l’impatto dell’associazione di un personaggio sulla percezione, in tutti i sensi, di un marchio. In alcuni casi il problema di misurazione non si pone: l’ultima onda di “famosi su Tiktok” non cerca di vendere prodotti di altri, ma di creare un proprio brand. Fenomeni “dal basso” come New Martina e le sue cover o Donato Di Caprio e i suoi panini “con mollica o senza”, ma anche megatrend come #Booktok – l’hashtag sulla divulgazione di libri su Tiktok, con un miliardo di visualizzazioni – mostrano la potenza virale di fenomeni su queste piattaforme, ormai non più tanto “social” media, ma vere e proprie micro-TV personalizzate, in cui i ruoli di creazione e fruizione sono di nuovo nettamente differenziati, e in cui il consumo di contenuti è passivo ma, come per la TV, con una forte influenza sui consumi. Potremmo quasi considerare questi influencer-imprenditori di Tiktok dei nuovi tipi di franchising, una variante nativa digitale dal basso: da un profilo si crea un format esclusivo e riconoscibile, che poi viene traslato sul negozio/ristorante/brand. A partire (spesso) da Napoli, luogo centrale della “scena Tiktok”, si aprono poi cloni di punti vendita a Bologna, Milano, Roma, in cui si formano le ormai iconiche file per accedere alla vista dell’idolo creator. Dureranno nel tempo? Non lo sappiamo. È la mia curiosità principale per il futuro.
«Lo metto su Vinted» al posto di «lo vendo come usato» è diventato come “googlare” al posto di «lo cerco sul motore di ricerca». Ridotte tariffe di spedizione, un sistema di protezione degli acquisti che rafforza il meccanismo dei rating incrociati per venditori e acquirenti, una rete di punti di ritiro e spedizione che beneficia dell’estremo ampliamento della capillarità post-Covid: quello che solo parzialmente era riuscito a eBay oggi è un fenomeno di massa.
Ancora più microbrand?
È quello che chiamo il paradigma della birra artigianale: a un certo punto un mix spesso inesplicabile di moda, emulazione e fascinazione per la novità crea un loop, in cui la domanda di un certo bene sviluppa una corsa alla produzione, che a sua volta induce altri a entrare nel mercato, e così via. Il punto cruciale del loop è che oggi è sempre più facile crearsi i propri prodotti, anche se in realtà prodotti da altri. Ogni estetista si fa la propria linea di creme, anche se il produttore effettivo è in realtà un’industria del distretto specializzato di Crema e dintorni. I laboratori artigianali di sartoria, spesso recuperando tessuti in modalità circolare, si diffondono e soprattutto diffondono post su Instagram, attirando un proprio following. Un surplus di ceramisti è esploso negli ultimi anni: a partire da un forno semi-amatoriale, vendono online tazzine, piattini e brocche rigorosamente artigianali. La maggior parte di queste imprese finisce nella migliore delle ipotesi a vendere sul marketplace online di Etsy, una specie di infinito mercatino di Natale. Nel settore delle bevande alcoliche, dopo l’ondata di amari industriali-artigianali, oggi è di scena sul palco principale il gin. I produttori del distillato si moltiplicano, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di gente che ha più che altro creato una propria ricetta che poi fa produrre a un’industria specializzata nel white-label, nella quale coesistono i gin prodotti per il discount e quelli prodotti in duecento bottiglie dal bartender social star che vuole monetizzare la sua community. Perfino chi alleva api non mette più il miele in anonimi barattoli ma si crea una propria linea, con tanto di logo, etichetta, eccetera. Il ristoratore si fa creare dal suo fornitore la propria linea di salse, da vendere a prezzo maggiorato agli avventori. In pratica, quella che era una tattica riservata alle grandi catene della distribuzione che replicavano a proprio marchio i prodotti di marca (per esempio, i Pan di Stelle vantano innumerevoli imitazioni a marca del retailer) è diventata alla portata di tanti business. Qualcuno ce la fa a diventare un vero brand, quasi mai per l’originalità della formula del prodotto in sé ma soprattutto per notorietà televisiva e/o bravura nel personal branding ai tempi dell’algoritmo. Gli altri annegano nell’inevitabile eccessiva offerta che nello stadio finale del paradigma della birra artigianale supera di gran lunga la domanda di mercato – che magari, nel frattempo, si è spostata altrove, volubile e veloce come le tendenze ai tempi di Tiktok.
Ancora più pre-loved?
Non sappiamo se sia stata la crisi economica, il senso di colpa collettivo verso un’industria, quella del fashion, tra le più inquinanti al mondo o l’ubiqua accessibilità agli stili del passato che rimbalza fino al terzo millennio da YouTube e tutte le altre piattaforme: fatto è che il mercato dell’abito di seconda mano (pre-loved è il nome carino che il settore ha trovato al posto del freddo “usato”) è stato il grande protagonista del 2023 senza nessuna intenzione di rallentare nel futuro. Il sito principe di questo fenomeno (che peraltro è fortissimo anche e soprattutto offline) è diventato popolarissimo: «lo metto su Vinted» al posto di «lo vendo come usato» è diventato come “googlare” al posto di «lo cerco sul motore di ricerca». Ridotte tariffe di spedizione, un sistema di protezione degli acquisti che rafforza il meccanismo dei rating incrociati per venditori e acquirenti, una rete di punti di ritiro e spedizione che beneficia dell’estremo ampliamento della capillarità post-Covid. Quello che solo parzialmente era riuscito a eBay oggi è un fenomeno di massa, tant’è che spesso gli stessi marchi ospitano sul sito un mercato “secondario” di propri prodotti usati, scambiati direttamente tra clienti, oppure ricondizionati, consapevoli che è meglio cavalcare un fenomeno, anche non gradito, che esserne esclusi. È forse uno dei primi concreti cambiamenti di prospettiva generazionale: mentre per baby boomer e generazione X avere libri e abiti usati era uno stigma, per millennial e generazione Z è una modalità normale di acquisto, anzi spesso arricchita dell’intrattenimento nello shopping dato dalla (ri)scoperta, la ricerca, la ricombinazione di stili originali e a volte sconosciuti o visti solo in video online, fattori che nell’epoca in cui è possibile raggiungere qualsiasi prodotto in vendita online in dieci secondi restituisce un po’ di magia all’atto dell’acquisto. E certo, anche il prezzo ha la sua importanza nella crescita, anche se a osservare alcune vetrine di vintage (un termine che ha avuto un grande ruolo nello sdoganare l’acquisto dell’usato) nei centri cittadini, sembra che l’effetto collezione/pezzo unico (e prezzo adeguato) ne stia facendo declinare la convenienza in senso stretto. I tempi sono maturi per un nuovi format, magari in franchising, per il pre-loved di alto livello nelle strade dello shopping.
Ancora più incertezza?
Ogni trend è connesso, e sgomita assieme agli altri creando quell’entropia che sfocia in quella che chiamiamo era dell’incertezza o più pessimisticamente permacrisi. Peraltro è proprio questo che rende interessante fare e leggere previsioni: quello che si avvera ti sorprende sempre, perché il margine di errore degli esperti su “cosa succederà” è molto alto. E forse davvero – almeno nel marketing – l’importante è continuare a osservare i trend, più che indovinarli.