Daniele Zinni ha giustamente preso sul serio i meme e ne ha scritto un saggio: abbiamo fatto quattro chiacchiere su ironia, disagio e sensazioni di “mondo falso”.
Penso di aver scoperto i meme tra il 2010 e il 2011, e neanche sapevo avessero un nome. Sembravano un modo per esprimere ironicamente concetti complessi, ma anche per segnalare la propria appartenenza a una nicchia: mostrarsi comunicativamente all’avanguardia rispetto agli altri, con delle immagini che «vabeh, poi te la spiego, forse non puoi capire».
Ho cominciato a salvarli tutti sul mio computer. Avevo la febbre, mi ricordo, ed è stato fulminante: ero sicuro di essermi imbattuto in qualcosa di così accidentale da sembrare solo mio – mio, di qualche spiegone in stile Wiki, e di pochi altri. Internet era Facebook, e Facebook era principalmente “amici” e “amici di amici”. Un piccolo mondo antico ricoperto da un fitto nebbione di guerra.
Poi mi sono trasferito a Venezia per un periodo, e in giro per le strade ho scoperto che i rage meme delle mie cartelle, degli scarabocchi antropomorfi che esprimevano principalmente rabbia e sconforto, campeggiavano già sulle t-shirt dei negozi di souvenir per turisti. Tradito, mi accorgevo che i meme erano atterrati sulla Terra e io mi ero perso tutte le manovre di parcheggio.
Arrivati al 2024 è ancora complicato definire cosa siano. Sono immagini o video a carattere spesso ironico, che vengono condivisi, reinterpretati e modificati in rete – si dice spesso. Ma anche un formato comunicativo che nasce per pochi, e finirà per essere declinato dall’industria pubblicitaria, persino dalla televisione – penso per esempio al “Cosa sta cucinando questo demone” citato di recente nelle telecronache calcistiche.
È per questo che, com’era doveroso, l’esistenza di fenomeni digitali tanto radicati e sfuggenti ha stimolato negli ultimi anni diversi autori italiani a domandarsi attraverso articoli e saggi quale sia il loro portato culturale, il loro riflesso sulle nostre vite quotidiane, e il loro l’eventuale lascito. Uno di questi è Daniele Zinni: tra i più interessanti e dotti a cercare di farne una foto, autore di Meme del sottosuolo – Distopia, follia, orrori artificiali e la ricerca dell’autenticità, recentemente uscito per i “Quanti” di Einaudi. Abbiamo fatto due chiacchiere.
Approfitterei della tua presenza per spiegare cosa sia un “meme” meglio di come possa aver fatto io.
Secondo me, la descrizione più ampia che si può dare oggi dei meme è che sono modi di partecipare a una conversazione. O ancora meglio, come nella definizione di Seong-Young Her, fondatore di The Philosopher’s Meme, delle “genealogie di contenuti”, delle catene di oggetti multimediali tenute insieme da un qualche elemento di significato.
Per esempio: oggi basta scrivere qualunque cosa sopra una foto con il font Impact perché venga presa, a ragione o meno, per un meme. In questo senso, l’elemento che si aggancia a una genealogia è il proprio font, che pur essendo una pura scelta estetica è sufficiente a posizionare il contenuto come meme.
Da un punto di vista culturale, è una forma di comunicazione estremamente versatile, che comprende di tutto, dalla vignetta umoristica all’invettiva, e permette di partecipare a conversazioni approfittando di strutture già pronte, modificandone singoli pezzetti.
Proprio per questo, sono il modo più facile per dire qualsiasi cosa. Anche solo dopo un pranzo con amici, per fare un esempio, ti potrebbe venire in mente di postare la foto scrivendo la frase “I pranzi, quelli belli” – e rendere chiaro un messaggio attraverso una frase che di fatto è un meme. Un meme che non fa ridere, in questo caso. Ma non è che i meme debbano far ridere per forza.
Mi spieghi che lavoro fai?
Il copywriter, in realtà. Ma il mio rapporto coi meme ha una sua storia.
Ho iniziato a fare meme una decina di anni fa guardando alle esperienze di Raffaele Alberto Ventura e della pagina Facebook Bispensiero. All’epoca, tra l’altro, forse non pensavo a quello che facevo come a “meme”.
Non sapevo ci fosse una vera e propria sottocultura intorno ai meme – e non l’ho saputo per anni. Poi ho letto La guerra dei meme di Alessandro Lolli (effequ, 2017), ho scoperto questo mondo, e da lì ho cominciato a interessarmene.
Dopo alcuni anni, mi sono ritrovato a fare meme anche per conto dell’agenzia di comunicazione con cui collaboravo, pubblicandoli attraverso diverse pagine di realtà editorial-culturali. Su una di queste, si sono fatti notare. Facendo meme per lavoro ho sviluppato una discreta conoscenza delle basi e dei personaggi, una certa determinazione a ritrovare e riconnettere i fili, una buona memoria, una cartella piena di screenshot e l’abitudine a catalogarli.
Un po’ alla volta mi sono trovato a parlarne in pubblico, e poi a scriverne.
Ho preso i meme sul serio nello stesso modo in cui prenderemmo sul serio i film o i dipinti: credo che ormai abbiano tutta la dignità, la profondità per meritarselo.
E come sei arrivato a questo saggio?
Francesco Guglieri, editor Einaudi, mi ha proposto di scrivere un ebook per la collana dei “Quanti”, e ho iniziato a chiedermi di cosa avrei potuto parlare.
Visto che scrivere non è il mio primo lavoro, sono disposto a farlo solo se mi sento davvero motivato a farlo, ho bisogno di avere a che fare con cose che non capisco al cento percento. Fare divulgazione di cose che già sapevo non l’avrei trovato interessante.
Ho cercato prima di inseguire una sensazione, un tipo di disagio che avverto in relazione alle nostre vite sui social. Da lì, trovare delle figure memetiche capaci per me di evocare questa sensazione – il Patrick Bateman di American Psycho, l’Unabomber americano Ted Kaczynski, o Ryan Gosling, in particolare – e intorno a loro aggregare meme affini. Quando ho avuto uno sguardo complessivo di ciò che stavo trattando, ho deciso che potevo definirli meme “horror”, ma anche questo è stato un mio tentativo di dare un ordine e un senso.
Alla fine, di fronte alla necessità di scrivere una conclusione, mi sono trovato a fare ex novo una riflessione complessiva su quella che descrivo – e che i meme fanno emergere – come sensazione di un “mondo falso”. Una riflessione sul perché i meme sono uno dei fenomeni con le antenne più dritte nel mondo social.
Ti fermo: cosa intendi quando parli di “mondo falso”?
Intendo quella sensazione che emerge quando si ha a che fare con quel tipo di contenuti sui social media attraverso cui si prova a costruire un’autorappresentazione di sé. Quel senso di falsità pervasivo, costante e diffuso che si trova su tutte le piattaforme.
Mi spiego: ogni cosa che pubblichi sui social diventa un’occasione per autorappresentarsi, in qualche modo. E in ogni autorappresentazione, alla fine, c’è sempre una componente di “mitomania” – per dirla con una parola che ha acquisito un certo ruolo all’interno del mondo social italiano a causa della pagina Io, professione mitomane.
Per non parlare, poi, dei contenuti istituzionali: quelli non creati dai semplici utenti, ma da brand o aziende che vogliono farti credere di essere tue amiche. Se sei una persona almeno un po’ scettica ti accorgi subito dell’insincerità, se non addirittura dei tentativi di manipolazione, dietro queste operazioni social. E i social, vale la pena ricordarlo, sono i luoghi dove si forma il discorso pubblico oggi.
Mi racconti un meme?
Oddio. Beh, un meme che ho provato a interpretare – provando a mantenere la prospettiva di cui ti parlavo prima, ossia quella di ragionare su ciò che non comprendo e forse non si può comprendere appieno – è quello dei commenti “Letteralmente io” sotto alle foto di Ryan Gosling. Solo una volta arrivato a fine saggio, ho sentito di capire perché succede.
Ci vedo questa specie di dissociazione rispetto al teatrino della vita e del mondo, resa ancora più straniante dal fatto che Gosling stesso ha un’espressività difficilmente leggibile, questa gestualità inafferrabile. Poi, chiaramente non tutte le persone che partecipano a questo meme lo fanno animati da ciò che scrivo in Meme del sottosuolo o dal tema del “mondo falso” di cui parlavamo.
Però ecco, l’idea che i meme che non capiamo possano diventare interessanti, magari anche grazie al saggio che ho scritto, mi stimola intellettualmente. Per tutto il resto c’è Know Your Meme, o al limite Google.
Hai citato Gosling, Bateman e Ted Kaczynski. Come si fa a parlare di una cosa che probabilmente, per la maggior parte delle persone oggi è “video di Gerry Scotti”, ma che è – fortemente – anche il manifesto sull’industrializzazione di un serial killer come Kaczynski?
Interessante. È un problema aperto. Nel senso: nel giro di persone che parlano di meme, tendiamo a discutere più dei meme su Kaczynski e le frasi tratte dal suo manifesto contro l’industrializzazione che di Gerry Scotti – e potrebbe essere benissimo anche una questione linguistica.
Ci conosciamo un po’ tutti, e la mia impressione è che nessuna delle persone che conosco della rete, o che fanno meme, segua pagine da milioni di follower. Il che è effettivamente strano, perché sono molto più rappresentative della scena memetica – pensa a Pastorizia Never Dies, che ha due milioni e mezzo di follower. Io ne ho diecimila, per esempio, però vengo invitato in giro a parlare di meme.
Poi sì, c’è un gruppo di persone che cerca di vivere i meme come esperienza intellettuale, e di portare avanti un discorso, mentre altre preferiscono aggregare un pubblico che ride e discute intorno alle stesse cose. C’è chi ha un vero talento comico, e crea meme per esprimerlo, e chi li usa come diario allo stesso modo in cui io avevo nel 2003 un blog.
I social, vale la pena ricordarlo, sono i luoghi dove si forma il discorso pubblico oggi.
Ecco: c’è un modo per stratificare – layerare! – il mondo dei meme? Nel senso, diciamo che sulla punta dell’iceberg c’è Gerry Scotti, ok? I video con le AI, le canzoni di Natale, il canale su TikTok. Gerry Scotti genera meme che diventano spesso virali. Prima “organicamente”, coi video e con le gif di cui era protagonista. Oggi direttamente dai suoi canali.
Diciamo che questa è la punta. Se provassimo immergerci, verticalmente, dove andremmo a finire? Dove comincia l’intellettualismo? E cosa c’è in fondo? I meme schizo?
Allora, non so se l’iceberg sia la rappresentazione migliore. Però sì, forse in fondo all’iceberg ci sono i meme schizo e gli schizoposter.
Li possiamo raccontare in due modi, che talvolta si sovrappongono. Nella prima accezione, parliamo di una nicchia di memer che cerca di non aggregare troppi utenti intorno al proprio progetto, per poter restare volutamente piccoli, evitare ban e poter dire quello che vogliono – magari con qualche layer di ambiguità.
Nella seconda, parliamo di chi ha opinioni “minoritarie” sul mondo, spesso legate a quelle che vengono definite “teorie del complotto”: lo stereotipo del “pazzo” che però dice la verità – una dinamica che si è probabilmente riaccesa in questi anni in cui la narrazione della realtà, la percezione di ciò che è vero e ciò che è falso, è diventata sempre meno unitaria.
Il termine schizo, che circola nel giro di chi fa meme, si riferisce appunto ad alcuni tratti stereotipici della schizofrenia, e viene usato tanto in senso dispregiativo verso altri, quanto per autoritrarsi come eroici parresiasti. Certo questa abitudine non aiuta la comprensione della schizofrenia reale, ma fa parte dei termini usati nell’ambiente.
Tornando all’iceberg: non dovendo necessariamente far ridere, lì in fondo c’è anche chi usa i meme per creare narrazioni vicine persino alla propaganda religiosa, o chi posta deliri – e più ci si infila nei rabbit hole, più ci si imbatte in questo genere di contenuto.
Quanto a Gerry Scotti, poi, spero che i meme non diventino l’Isola dei famosi, cioè il modo con cui alcuni personaggi cercano di farsi una seconda giovinezza. E non mi riferisco a lui, in particolare, ma alla tendenza che il suo successo social potrebbe stimolare.
Mi preme segnalarti che Ezio Greggio ha da poco lanciato un podcast.
Questo me l’ero perso.
A tal proposito, vado a un punto.
In questi anni, anche un po’ sulla scorta delle esperienze americane, in Italia si è creata questa colonna di autori – di cui sono avido lettore, e tra i quali metto dentro sia te che me – che cerca di tracciare una specie di cosmogonia dei fenomeni e delle estetiche di internet, di interpretarli con lenti intellettuali, ognuno al proprio livello di profondità dell’iceberg.
Provo a fare una provocazione: riusciamo davvero a creare dibattito su questi temi? E ha senso consumarsi dietro a certi fenomeni, se rischiano di non essere rilevanti nella quotidianità, o in un discorso culturale?
L’approccio che ho cercato in Meme del sottosuolo è esattamente questo: usare i meme per arrivare a parlare d’altro. Di libri che definiscono i meme ce ne sono già a sufficienza. L’aspetto più interessante del discorso che faccio è il finale, quando parlo del rapporto che le persone hanno con la propria autorappresentazione – e quindi con la propria identità sui social media. Per arrivare a quel discorso, però, mi è stato necessario analizzare i meme.
È come se accompagnassi il lettore in un museo pieno di quadri del primo Novecento di autori austro-ungarici e intanto raccontassi l’avvicinarsi della caduta dell’impero asburgico: è un fenomeno di cui i pittori non erano consapevoli quanto noi che guardiamo alla vicenda da lontano, ma le loro opere ne sono sintomatiche. Ho preso i meme sul serio, nello stesso modo in cui prenderemmo sul serio i film o – appunto – i dipinti come segni di un’epoca: credo che ormai abbiano tutta la dignità, la profondità per meritarselo.
La mancanza di dibattito critico, quella magari dipende dal fatto che siamo troppo gentili tra noi, perché siamo le stesse persone che dovrebbero fare la critica e il dibattito. Più o meno ci conosciamo tutti, forse questo ha un suo ruolo. Ci sono senz’altro delle prospettive con cui posso non essere d’accordo, ma di solito mi sembra interessante dire la mia, piuttosto che mettermi a smontare gli altri.
In questo senso, comunque, mi piace citare Memissima, il festival di cultura memetica organizzato dall’Off Topic a Torino, che è un esempio interessante del tentativo di mettere in comunicazione parti diverse dell’iceberg di cui parlavamo, e di creare un contesto in cui si incontrino le sperimentazioni più assurde e i contenuti su Gerry Scotti.
I meme che cito nel saggio probabilmente non fanno ridere. Anzi, fanno ridere proprio perché, in un certo senso, mettono profondamente a disagio.
Nel libro richiami la famosa citazione attribuita a Tesla sugli “orrori artificiali” con cui saremo destinati a convivere al di là della nostra comprensione. Cosa abbiamo da ridere, allora?
Quelle che sento più mie, più contemporanee, sono le risate nervose davanti alll’overload informativo – sia in termini di news che di immagini. In questo senso, fare meme diventa anche un modo per trovare un proprio orientamento in questo flusso, riguadagnare il controllo rispetto a quello che vediamo scorrere davanti ai nostri occhi.
Rispetto agli orrori artificiali, alle distopie, c’è pochissimo da ridere – certo. I meme che cito nel saggio, infatti, probabilmente non fanno ridere, se non in pochissimi casi, o fanno ridere malgrado il contesto – pensa a quelli su Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho, fatti di fantasie violentissime e deliri paranoidi.
Anzi, fanno ridere proprio perché – in un certo senso – mettono profondamente a disagio.