Nelle profondità di internet, dove si forma l’immaginario contemporaneo

Nero Editions

Intervista a Valentina Tanni, autrice di Exit Reality: vaporwave, backrooms, weirdcore e altri paesaggi oltre la soglia da poco pubblicato per la collana Not di Nero Editions.

da Quants numero 6, ottobre 2023

C’è una frase che mi assilla da un po’ di giorni.
Dice «Più usi internet, più la tua identità si trasforma in un brand». L’ha scritta Justin E. H. Smith, professore di filosofia dell’Université Paris Cité. E cattura un momento più di quanto possano fare mille foto.
Pensiamo al modo in cui gran parte di noi abita i social media, per esempio. Consumiamo per ore contenuti che si adattano ai nostri gusti grazie al lavorio di sofisticati algoritmi, e in base a questi reagiamo producendone di nostri.
Subiamo decine, se non centinaia di input ogni giorno prodotti da altrettanti creator, il cui unico scopo è quello di attirare a tutti i costi la nostra attenzione. Comunichiamo – più di tutto – il modo in cui intendiamo presentarci in questo mondo, attraverso una nostra presunta “internet persona”.
E così sembra, a volte, che non ci sia alternativa a questo destino. Che questo infinito flusso, fatto di individualità diffuse a tutti i costi, debba scorrerci addosso – perché questo è ciò di cui è fatta la rete oggi: una gigantesca mandria di personal brand a caccia di sempre maggiore consenso. Il corridoio di un ipermercato, pieno di vetrine rumorose.

Ho letto Exit Reality: vaporwave, backrooms, weirdcore e altri paesaggi oltre la soglia della storica dell’arte, curatrice e docente Valentina Tanni, appena uscito per Nero Editions. E dentro ci ho trovato le stanze vuote e i magazzini di questo gigantesco centro commerciale: è una mappatura fondamentale per tener traccia delle sottoculture contemporanee e le estetiche di internet – dalla vaporwave al traumacore. Ma è anche il compendio dei modi e dei tempi che ci siamo dati per provare a trovare una via di fuga da questo e altri futuri.
Ho raggiunto l’autrice per farle un paio di domande.

Partiamo da zero: cosa sono le estetiche, nella comune accezione di internet? Come nascono? E com’è nata l’esigenza di provare a “catalogarle”?
Non è facile definire le estetiche di internet in poche parole. Sono universi complessi, magmatici e in continua evoluzione. Nascono in maniera spontanea e spesso si intrecciano tra loro.
Secondo la definizione che ne dà l’Aesthetics Wiki, ossia la risorsa enciclopedica online che si propone di ordinarle e spiegarle, si tratterebbe di insiemi di «immagini, colori, oggetti, musica e testi che creano un’emozione, hanno un determinato scopo e aggregano una comunità specifica».
Alcune estetiche popolari in questo periodo sono ad esempio il dreamcore, il weirdcore e il traumacore. Nel libro non cerco di catalogarle, quanto di raccontarle, analizzarle e svelare alcune pulsioni importanti che mi sembra custodiscano.

In effetti è affascinante il modo in cui questi fenomeni diventano rilevanti nella nostra quotidianità, senza che a volte riusciamo ad accorgercene.
Qualche anno fa, per esempio, mi sono ritrovato a disegnare su Photoshop tavole di busti marmorei, colori fluo, scritte in giapponese e facce di Renzi: una specie di vaporwave inconsapevole, di cui in qualche modo avevo subito l’influenza.
Quali sono i confini di questi fenomeni? E quanto, alla fine, lambiscono le nostre vite?
Più siamo immersi in un ecosistema culturale, meno ci facciamo caso. E internet è l’orizzonte all’interno del quale i nostri occhi e la nostra mente abitano per molte ore al giorno da quasi tre decenni.
È perfettamente normale che riferimenti estetici, elementi formali e stili visivi e sonori vengano assorbiti in maniera (a volte) inconsapevole.
Anche per questo mi sembrava importante scrivere questo libro: per puntare i riflettori su alcuni prodotti culturali che tendiamo a sottovalutare.
Internet è l’orizzonte all’interno del quale i nostri occhi e la nostra mente abitano per molte ore al giorno da quasi tre decenni.

Per restare ancora sulla vaporwave, racconti di come a un certo punto questa estetica cominci pian piano a venir percepita come superata, fino quasi a scomparire. Come muore una wave?
La vaporwave in un certo senso “muore” quando i suoi stilemi diventano un cliché, quando i suoi elementi più riconoscibili vengono ripetuti e replicati in maniera pedissequa, quando da movimento culturale diventa meme.
Contribuisce alla morte anche la precoce adozione dei suoi elementi più riconoscibili, soprattutto dal punto di vista grafico, da parte di grandi marchi come MTV e Tumblr.
C’è da dire tuttavia che la vaporwave, come ogni fantasma culturale che si rispetti, tende a risorgere, infestando il presente.

Uno dei cardini su cui si basa il libro è quello del tentativo di uscita dalla realtà, tra backroom (foto inquietanti di stanze sul retro) e noclipping (nei videogame, sostanzialmente l’uscita da una dimensione).
Eppure, in molti casi, è il concetto stesso di “realtà” a venir messo sotto lente: vuoi perché viviamo ancora la lunga coda della post-truth era, vuoi perché in rete può essere posto in discussione persino da una torta – come può accadere all’interno di quell’estetica che riprende uno stile di pasticceria iper-realistico, e in cui ciò che sembra una sneaker è in realtà un dessert.
Come ci siamo arrivati?
In un certo senso si tratta di una conseguenza della natura stessa di internet, un ambiente disordinato, che – nonostante i tentativi di regolazione – tende a sfuggire al controllo, abitato da miliardi di entità, umane e non umane.
Al suo interno i punti di vista si moltiplicano, le informazioni si contaminano, le porte si aprono su infiniti spazi: mentali, culturali, sociali. È inevitabile che il concetto stesso di realtà, che già di per sé non è univoco né stabile, diventi oggetto di dibattito.
Inoltre, la consapevolezza della stranezza del mondo, e della vertiginosa moltiplicazione delle alternative, porta naturalmente a mettere in discussione non solo il concetto di “realtà”, ma anche gli strumenti concettuali che utilizziamo per interpretarla e abitarla.

La memoria, all’interno di questi fenomeni, gioca un ruolo essenziale: sia nella feticizzazione di certi stili estetici, sia – più in particolare – nell’esasperazione del concetto di “ricordo” (e addirittura di “ricordo del ricordo”).
Provoco: che differenza c’è, in essenza, tra questo tipo di contenuti (per esempio, quelli in cui si utilizzano immagini che richiamano immediatamente la nostra adolescenza all’interno di queste wave) e quelli in stile “Ma cosa ne sanno i Duemila?”, pieni di nostalgie per i Nokia, le suonerie con Gigi D’Agostino e le puntate di The Club?
Se guardiamo ai singoli contenuti, a volte la differenza non è nettamente percepibile, per via di questo sentimento nostalgico che li accomuna. Ma il tema della memoria è solo un trigger, poi bisogna vedere come questo stimolo viene elaborato poeticamente.
Se osserviamo e valutiamo alcune di queste estetiche in senso complessivo, possiamo riconoscere l’esistenza di un livello di elaborazione formale e concettuale molto sofisticato, che li qualifica come movimenti artistici in senso proprio.
Non si tratta tanto dei contenuti che incorporano, ma delle atmosfere e dei linguaggi visivi e sonori che riescono a generare attorno a questo sentimento nostalgico, che è chiaramente un fenomeno molto più ampio.

Se osserviamo e valutiamo alcune di queste estetiche in senso complessivo, possiamo riconoscere l’esistenza di un livello di elaborazione formale e concettuale molto sofisticato, che li qualifica come movimenti artistici in senso proprio.

In molti dei “paesaggi” che racconti trovo un elemento comune: la volontà di parlare alla porzione non conscia del nostro cervello, sollecitandola con degli input specifici.
Penso per esempio agli sludge content (video in cui si fanno cose insolitamente soddisfacenti, come scavare con un cucchiaio dentro a polveri colorate) che vengono accoppiati ad altri video per riempire in modo totale la nostra mente con più impulsi visivi simultanei.
O al poolcore, in cui l’estetizzazione di piscine scarne e squadrate ci riporta – per allusione – al liquido amniotico, al mondo onirico. Da dove proviene questo bisogno? E cosa ci racconta?
Ci racconta della necessità di esplorare, e abitare, i nostri spazi interiori. Di rivolgere l’attenzione non solo alla superficie del reale, ma anche ai suoi strati meno ovvi, più nascosti, anche più oscuri a volte.
Non si tratta di un bisogno nuovo; l’essere umano ha cercato di sondare le profondità dell’inconscio e della sfera spirituale per millenni.
Quello che colpisce, oggi, è l’attenzione sempre crescente verso questa specifica dimensione, una tendenza visibile anche nel mainstream.

Forse non a caso, uno dei fenomeni più interessanti di cui parli nel libro è quello del reality shifting: una tecnica che si basa – tra le altre cose – sulla stimolazione dei sogni lucidi per entrare in altre realtà, e che tra il 2018 e il 2020 è esplosa presso larghe comunità di giovanissimi su TikTok.
In buona parte dei casi, come riporti, l’obiettivo era shiftare dalla nostra realtà a mondi narrativi come quelli di Stranger things, Harry Potter, Legend of Zelda. Tutte realtà artificiali, però, e nate da prodotti di largo consumo. Che ne pensi?
Sì, il reality shifting è un fenomeno che nasce dalla fusione sincretica di elementi culturali molto diversi tra loro. Mette insieme tradizioni antiche, come la meditazione e il sogno lucido, con fenomeni contemporanei come il gaming e i giochi di ruolo.
È vero che molto spesso gli shifters vogliono andare ad Hogwarts o negli universi Marvel, ma all’interno di tali scenari desiderano un’esperienza estremamente personalizzata, che progettano al millimetro, trasformandosi in sceneggiatori della propria “realtà desiderata”.

Non è facile definire le estetiche di internet in poche parole. Sono universi complessi, magmatici e in continua evoluzione. Nascono in maniera spontanea e spesso si intrecciano tra loro.

Una delle quote migliori citate nel libro, per me, è quella di un utente internet che dice: «Credo che quasi tutte le persone nate tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, e che hanno avuto accesso al computer senza supervisione, siano state in qualche modo traumatizzate da internet, che lo sappiano o meno, me compreso».
Pensi sia vero, in qualche modo?
È senz’altro vero. Il web, specie nel primo decennio, quando non si era ancora consapevoli dei rischi di una navigazione non controllata, ha messo milioni di ragazzini a contatto con contenuti che altrimenti non avrebbero visto e che probabilmente non avrebbero mai dovuto vedere.

Sempre riguardo alla rete: i liminal space – luoghi di collegamento vuoti, abbandonati e desolanti, le cui foto sono diventate un filone estetico e non solo – sono tra i veri protagonisti del libro.
E se fosse internet, in fin dei conti, lo spazio liminale per eccellenza?
Internet è sicuramente uno spazio liminale; ho dedicato a questa ipotesi l’ultimo capitolo del libro, in cui analizzo anche la natura di questa “soglia” che la sua esistenza genera.
Tuttavia, a differenza degli spazi liminali che vediamo nelle foto più popolari di questa estetica, internet è tutto meno che deserto.

A tal proposito, quanto è stato complicato – se lo è stato – scrivere un libro del genere, basato su un’antologia forse ancora sparsa o poco sistematizzata?
A parte la vaporwave, sulla quale esiste una letteratura abbastanza corposa, per il resto non c’è quasi niente. Non ci sono molte fonti bibliografiche a cui far riferimento, fatta eccezione per alcuni articoli pubblicati perlopiù da testate digitali.
Sicuramente questo ha reso la scrittura del libro in un certo senso più complicata, ma se devo essere sincera, esplorare temi ancora non sistematizzati è la situazione di ricerca che preferisco. Ci sono anche abituata. La mia tesi di laurea, nel 2002, era sulla Net Art, movimento artistico che all’epoca aveva poco più di un lustro di vita.

Vincenzo Marino è autore, scrittore e content strategist. Si occupa di cultura digitale, musica e nuovi media. Collabora e ha collaborato con diverse testate (Domani, VICE, Rivista Studio, Esquire), e gestisce una newsletter attraverso la quale indaga i consumi culturali dei giovani (zio), da cui è nato il saggio "Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z" (nottetempo, 2023).