In principio era la logistica

LUISS University Press

Una conversazione con Cesare Alemanni, autore di La signora delle merci. Dalle caravelle ad Amazon, come la logistica governa il mondo (Luiss University Press, 2023), sull’architettura invisibile del commercio internazionale.

da Quants numero 6, ottobre 2023

Non avrei mai pensato di mettermi un giorno a citare Il piccolo principe, però ecco, evidentemente Antoine de Saint-Exupéry sapeva qualcosa della logistica quando ha scritto che l’essenziale è invisibile agli occhi. Fitte reti di commercio internazionale, elaborate tecnologie gestionali, un mondo di sigle e di codici che regge, come un’architettura occulta, questo nostro mondo di abbondanza. Essenziale. Ma invisibile. Forse la logistica è Dio?

Non si spinge fino alla teologia Cesare Alemanni, scrittore e giornalista, nel suo La signora delle merci, che reca come sottotitolo Dalle caravelle ad Amazon. Come la logistica governa il mondo. Ma fornisce un racconto inedito e appassionante di come l’umanità ha sviluppato poco a poco, su diversi secoli e con una netta accelerazione nella seconda metà del Novecento, il più perfetto sistema di stoccaggio, circolazione e distribuzione della merce. Se già ai tempi delle caravelle, appunto, c’era chi traeva profitto dal semplice trasporto da una parte all’altra del mondo – prendendo quei grandissimi rischi di cui racconta Shakespeare nel Mercante di Venezia – oggi parrebbe che muovere – più che produrre – sia il modo migliore per spremere super-profitti. Come insegna, appunto, Amazon. D’altronde lo diceva anche Saint-Exupery (fermatemi): è il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Ma soprattutto il tempo che hai guadagnato grazie alla logistica.

Alemanni racconta le trasformazioni tecnologiche, le idee, le innovazioni, che fanno da sfondo a questa rivoluzione permanente, ancora inconclusa, ma anche le svolte ideologiche, le teorie economiche, le concezioni del capitalismo che si succedono per rendere possibile il miracolo logistico. E continua a farlo nella sua consigliatissima newsletter Macro. Sono letture imprescindibili per capire il capitalismo contemporaneo, assieme ai libri dei coetanei Alessandro Aresu e Lorenzo Castellani.

In principio era la logistica. Come suggerisci anche tu l’analogia con il logos – quello del vangelo di Giovanni e più profondamente quello di Platone e Aristotele – è inevitabile, dal momento che questa branca dell’ingegneria realizza il programma con cui è nata la filosofia: mettere ordine del mondo. Goethe in Italia, osservando le piante e i frutti, si era convinto di avere finalmente capito il come dell’organizzarsi delle cose; tu hai fatto un altro tipo di viaggio, la tua Logistische Reise, attraversando l’intero globo terracqueo, per arrivare a una conoscenza simile, quella del modo in cui l’umanità ha organizzato la totalità delle cose e dei flussi per permetterci di avere tutto sottomano. Il tuo libro è molto pragmatico e documentato ma io comincio con una domanda molto astratta, poi sarà tutto in discesa: se la filosofia nasce, in un certo senso, con l’idea dirompente che sia possibile tradurre la complessità del mondo in un insieme di oggetti classificati, possiamo dire che la logistica è il compimento della metafisica occidentale?

Beh, del resto cos’è l’Apeiron di Anassimandro se non un grande magazzino di Amazon da cui le cose escono una dopo l’altra? Scherzi a parte, non so se definirei la logistica il compimento di alcunché. Specie dato che, in sé, è una disciplina (ma è la parola giusta?) di cui è persino difficile dire esattamente i confini e le prerogative esclusive.  
Per altri versi, è assolutamente vero che la logistica, come tutto ciò che ha per principio ispiratore l’ordine e per scopo la razionalizzazione, sembra in effetti una precisa manifestazione tecnica di quella fame di catalogazione e affabulazione del caos, che è una delle specificità della metafisica dell’Occidente e che, appunto, è espressa in alcune accezioni ed evoluzioni del concetto di Logos.

Il titolo del libro, fino all’ultimo, doveva essere La ragione delle cose, proprio per suggerire l’idea che la logistica non sia solo trasporti e dintorni ma che, nel suo essere una forza ordinatrice, è parte integrante di quel processo di sintesi razionale del mondo che è il progetto culturale dell’Occidente. Purtroppo il titolo dava problemi a livello di marketing e distribuzione e l’ho dovuto abbandonare a malincuore.

Così, in compenso, suona come il titolo di una canzone di Leonard Cohen o il nome di un gruppo goth. Non credo che si possa discutere di logistica senza dire innanzitutto questo: la logistica è un’invenzione bellissima. Lo è nello stesso senso in cui sono bellissime altre invenzioni come il denaro, il commercio, l’industria, le energie fossili, il cioccolato. Dico bellissime perché è grazie a queste invenzioni che abbiamo prima smesso di morire di fame, poi di malattia, poi che abbiano potuto iniziare a permetterci qualche lusso, conquistare i diritti umani, dedicarci alla cultura, successivamente sono state emancipate le donne, conquistato la libertà sessuale, e oggi (con la logistica appunto) possiamo accedere a una quantità incredibile di merci capaci di soddisfare dei bisogni sempre più inclusivi. Ma naturalmente c’è anche un lato oscuro. Queste invenzioni bellissime stanno, di fatto, distruggendo il pianeta. Accelerando gli scambi e annientando i rischi, abbiamo accelerato il consumo di risorse e ci siamo consegnati a rischi più grandi. Perfezionando la divisione del lavoro, gli abbiamo sottratto ogni umanità. Vale anche per la logistica?

Lasciami dire che la ragione per cui mi sono interessato alla logistica è precisamente perché è un’ “invenzione bellissima”, al pari di altre che hai citato e per le ragioni che hai citato. Sono invenzioni “bellissime”, e affascinanti, soprattutto per noi che, purtroppo, abbiamo il tarlo dell’intellettualità. Sono “bellissime” perché nel tentativo di comprenderne il senso e il funzionamento, entri in contatto con le forze vive – in pratica delle leggi fisiche – che hanno determinato l’evoluzione della Storia umana in un verso piuttosto che in un altro.

Il problema è che quasi tutti, ogni giorno, ce le dimentichiamo queste invenzioni, e ci convinciamo che contino meno delle opinioni, delle manovre politiche o della polemica “culturale” di turno. Quando la verità è che, spesso, anche la querelle culturale di turno, risulterebbe più comprensibile se messa in relazione ai sistemi materiali del mondo.

Detto questo: come tutte le invenzioni, bellissime e terribili, dell’umanità, anche la logistica con una mano ci dà ordine e progresso e con l’altra ci restituisce, come materiali di scarto, alienazione, problemi di sostenibilità e di resa decrescente. Problemi che, inevitabilmente, ci conducono a nuovi disequilibri, caos, rischi etc. Quindi sì, il discorso del “lato oscuro” vale anche per la logistica. Anzi, soprattutto per la logistica.

In un certo senso, il tuo libro – sebbene, lo ripeto, non primariamente filosofico – è il capitolo che mancava alla Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, o ad altri libri del Novecento che denunciavano le conseguenze totalitarie dei processi di razionalizzazione, seguendo l’ispirata profezia di Max Weber sulla “gabbia d’acciaio” del capitalismo. Profezia che il tuo libro sembra confermare a ogni pagina. E d’altra parte è difficile immaginare i benefici della logistica – in termini di approvvigionamento e abbondanza, e quindi anche di lotta alla povertà – senza i suoi effetti collaterali sul lavoro e sull’ecologia. Esiste un’alternativa alla logistica, o una logistica sostenibile?

Sì… ed è la logistica. Come scrivo nel libro, dai problemi di sostenibilità ambientale (quella sociale è una faccenda diversa) della logistica si può uscire, quantomeno nell’attuale paradigma di società, solo con una logistica più avanzata. Del resto la logistica e la sostenibilità convergono verso punti comuni: maggiore efficienza, minore uso di risorse (o uso di risorse con una resa migliore)…

Specie in un’epoca in cui esiste molta attenzione sugli strumenti con cui questa efficienza viene raggiunta, tale comunione d’intenti dovrebbe, almeno in teoria, fare della logistica un alleato e non un nemico della sostenibilità.

La realtà, tuttavia, è che ogni volta che la logistica fa un salto in avanti dal punto di vista dell’efficienza, esso diviene il presupposto per un’ulteriore intensificazione delle operazioni che governa. È la classica “coazione a ripetere” del capitalismo, che ha, appunto, le radici nella logiche inesorabili della razionalità strumentale.

In un certo senso potremmo andare avanti all’infinito con questa dialettica. Il “problema” è che, da qualche decennio, abbiamo scoperto di avere un vincolo esterno, ovvero il pianeta. E infatti oggi una delle frontiere della logistica – che è sempre disciplina di frontiera – è alacremente al lavoro per permetterci di “superare” anche tale vincolo esterno. Parlo ovviamente della logistica spaziale.

La logistica non è solo trasporti, nel suo essere una forza ordinatrice è parte integrante di quel processo di sintesi razionale del mondo che è il progetto culturale dell’Occidente.

Negli anni Sessanta e Settanta, Guy Debord denunciava che il mondo si era “allontanato in una rappresentazione”, ovvero era stato progressivamente messo a distanza dall’esperienza diretta degli individui attraverso una serie di mediazioni legate alla divisione del lavoro: il mercato, la burocrazia… Insomma viviamo in uno “spettacolo” perché tutto quello che consumiamo arriva a noi dopo innumerevoli passaggi, e questo rende invisibile il modo in cui è stato prodotto. La logistica realizza questa condizione all’ennesima potenza, perché oltre a essere una mega-macchina che ci fa arrivare le merci è anche una macchina per invisibilizzare il lavoro che contengono. Quindi, tra le altre cose, i rapporti di sfruttamento lungo la catena del valore. Questo lo mostri molto bene. In questo senso, se ci pensi, la logistica contribuisce alla produzione d’ignoranza, ci rende più stupidi o perlomeno inconsapevoli. È già stato notato, da studiosi e attivisti, come questo distanziamento tra i vari attori delle catene del valore renda più difficile ogni forma di cooperazione e sindacalizzazione in seno alla forza lavoro. Potresti dirmi come funziona secondo te questo processo di occultamento e se, anche in questo caso, è possibile immaginare un suo superamento?


Va detto che questo processo di occultamento non è strettamente contemporaneo. Ogni volta che un mezzo di trasporto colma una distanza tra il luogo di produzione (o di estrazione) di una cosa e il suo mercato finale, c’è, implicita, una dinamica di rimozione dei modi in cui quella cosa è stata fatta od ottenuta. Tale dinamica peraltro è, quasi sempre, parte dello stesso processo di valorizzazione della cosa in questione (il fascino dell’esotico). Un caso esemplare è la seta in età antica, una merce che a Roma risultava costosissima proprio in virtù della “frizione della distanza” e di tutti i costi accessori al suo trasporto e alle sue varie transazioni. E tuttavia quando una patrizia romana la indossava, per lo sdegno bacchettone di Plinio, non immaginava certo quale complessa, e spesso brutale, filiera eurasiatica ci fosse dietro. E neppure poteva sapere che, in fin dei conti, ciò che stava strapagando era letteralmente “bava di baco”. 

È invece senz’altro un fatto nuovo, tipico dell’età moderna, la consapevole e deliberata “finanziarizzazione” della distanza. Essa comincia quando le compagnie commerciali del Seicento trasformano l’accesso privilegiato a merci di luoghi distanti in un mercato “secondario” che produce rendimenti (anche) indiretti. Di cui non godono più solo i mercanti e compratori delle merci, ma un numero sempre maggiore di individui: nuove classi con nuovi bisogni e nuove culture.
Come scrivo nel libro, con la distribuzione dei primi dividendi della Compagnia olandese delle Indie orientali anche tra la medie e piccola borghesia locale: «da privilegio di pochissimi, in virtù degli sviluppi logistici, la dissociazione spaziale tra il modo in cui il benessere era goduto e quello, spesso brutale, con cui si riproduceva divenne esperienza di un numero sempre più grande di individui».

La logistica fu protagonista assoluta di quel processo – che poi è la nascita del capitalismo occidentale moderno – non solo perché i galeoni, le caracche o i fluyt sono mezzi di trasporto, e quindi apparecchi logistici. Lo fu perché furono delle innovazioni manageriali/logistiche (debitrici della cartografia di Mercatore e influenzate da spore di pensiero baconiano) sulla forma e la struttura delle reti di trasporto coloniale a rendere così redditizio quel mercato. C’è un enorme salto di qualità, proprio nel pensiero organizzativo-spaziale-geografico dei mercati, tra il primo colonialismo spagnolo e portoghese e quello Nordatlantico.

Nell’Ottocento e nel Novecento questa dinamica di messa a mercato delle distanze è stata accelerata dalle nuove tecnologie di trasporto (dal treno all’aereo) e di gestione/coordinazione di processi complessi (dal telegrafo ai software gestionali). Le quali fanno sì che oggi si sia in grado di gestire la produzione dell’oggetto forse più complesso mai prodotto serialmente dall’uomo – il microchip – attraverso filiere che, tutto considerato, coinvolgono migliaia di aziende e attraversano l’intero pianeta. Il tutto con le conseguenze sul lavoro e sulla politica che citavi tu: la possibilità di spazializzare i processi permette di polverizzare la forza lavoro e quindi anche la sua coesione politica. Il che è una rivoluzione di cui, secondo me, non si è davvero compresa la portata. Tutta la storia (non solo occidentale) dell’Otto e Novecento sembrava andare nella direzione del problema/governo/”ricatto” delle masse e poi improvvisamente, in meno di trent’anni, per una serie di innovazioni tecniche, legali, economiche, si è ribaltata completamente l’inerzia di due secoli.
Ma torniamo a quell’oggetto strabiliante che è il chip, il quale, oltre a basarsi su una specie di nano-logistica, è la matrice del funzionamento di tutte le tecnologie apparse dal tardo Novecento in poi. Tecnologie di cui facciamo uso quotidiano e di cui solo pochi prestigiatori comprendono davvero il funzionamento, la complessità e le implicazioni. Abbiamo un’intera società che ogni giorno produce, consuma, dibatte, litiga, usa forme d’intelligenza… sprigionate da strumenti completamente opachi per il 99,99% di noi. Weber ci avrebbe visto una sorta di reincantamento (alienato) del mondo? Credo di sì.

Cosa c’entra tutto questo con la logistica? Moltissimo, visto che senza gli specialization gains delle catene del valore degli ultimi quarant’anni probabilmente saremmo ancora all’Amiga (esagero, ma insomma). Ma, del resto, senza i computer non avremmo mai potuto gestire le catene del valore. Ma senza le catene del valore…. E così via in un loop un po’ vertiginoso.

All’inizio del libro spieghi nel dettaglio il rapporto tra guerra e logistica, o di come le tecnologie militari siano spesso state precorritrici dei progressi della logistica. Questo corrisponde alla tesi, secondo me convincente, che Hayek formulava nella Strada per la servitù, ovvero che l’economia di guerra rischiava di trasformarsi nel paradigma dell’economia di pace. Era il 1941 e la profezia si avverò. Hayek non è un autore molto amato, e al netto delle sue posizioni ultraliberali molto ingenue per non dire settecentesche, aveva intuito il legame tra il capitalismo reale, stato e guerra – quel legame che molti progressisti sembrano non vedere. Qui mi viene da farti due domande. La prima è se i processi di razionalizzazione delle politiche pubbliche – come si vede in alcuni degli ultimi film di Ken Loach, come Io, Daniel Blake – non rispondano precisamente a una logica di “logisticizzazione” della burocrazia e che cosa implica. La seconda domanda riguarda precisamente la guerra: quali saranno gli effetti sulla catena internazionale del valore dei conflitti in corso e dei potenziali conflitti futuri?

A partire dal tardo Seicento, logistica e burocrazia hanno avuto sviluppi molto contigui e in fondo rispondono allo stesso bisogno di organizzare sistemi complessi. Non è quindi sorprendente che una tragga ispirazione dagli sviluppi dell’altra.

Riguardo alla seconda domanda: le guerre sono discontinuità che sicuramente turbano la “pax logistica”, perlomeno a livello commerciale-industriale. Ergo le catene del valore ne soffrono, come stiamo del resto vedendo. D’altro canto, come racconto nel libro, le guerre sono grandi acceleratori di tecnologie e di pensiero logistico.

Oggi forse questa ultima frase è un po’ meno “vera” di quanto fosse fino agli anni Sessanta. Questo perché, nel frattempo, il ritmo di sviluppo della logistica di alcuni operatori “civili” è diventato tale che, in alcuni casi, sono loro a fornire consulenze agli eserciti e non viceversa, ma la logistica resta un’arte di origine militare. Prevedo anzi che, nell’attuale congiuntura, assisteremo a un ritorno del primato militare anche in questo campo.

Nel tentativo di comprenderne il senso e il funzionamento, entri in contatto con le forze vive – in pratica delle leggi fisiche – che hanno determinato l’evoluzione della Storia umana in un verso piuttosto che in un altro.

La logistica è in qualche modo una lingua mondiale, una koiné, una Weltliteratur per citare di nuovo Goethe, ma soprattutto una grande maglia che copre l’intero pianeta.  Come credi si realizzeranno le prospettive di decoupling delle economie nazionali? In che modo la logistica sopporta le frontiere, le dogane, le regole? La sua volontà di potenza finirà comunque per prevalere? E se invece non lo farà, è possibile che si impongano dei “linguaggi logistici” concorrenti, degli standard diversi e incompatibili che manderanno in corto circuito la rete mondiale degli scambi? Perché la logistica è davvero una lingua, e la torre di Babele non sembra poi tanto lontana dal crollo.

Credo non si debba pensare che la logistica sia solo trasporti o solo globalizzazione. Non c’è soltanto una logistica del macro e del globale ma anche una logistica del piccolo e del locale. Come cerco di mostrare nel libro c’è, per esempio, un retroterra di pensiero logistico non solo dietro i flussi internazionali ma anche dentro i processi interni alle singole aziende. È il pensiero che, a inizio Novecento, ha portato alla formazione delle catene di montaggio, ovvero il fatto socio-economico più importante dello scorso secolo almeno fino agli anni Settanta, nonché la matrice delle odierne filiere.

Detto ciò, è innegabile che per la logistica dei flussi internazionali, i periodi d’incertezza e interregno non siano l’ideale. Tuttavia è proprio durante queste fasi che la logistica, darwinianamente, soprattutto evolve.

Il seme dell’idea (fondamentalissima!) del container non viene, per esempio, gettato nel terreno già arato della seconda globalizzazione ma molto prima, negli anni Trenta, in una fase di grande incertezza geopolitica, di ritorno del protezionismo, di forte competizione tra nuovi e vecchi sistemi di trasporto. Poi…certo, per cominciare a crescere quel seme ha avuto bisogno di climi più miti – la prima Pax Americana – ed è infine sbocciato nella parentesi dell’unipolar moment, ma se guardiamo alla sua storia ci accorgiamo che, anche in quel contesto, sono stati soprattutto i traumi e le discontinuità a farlo maturare: la crisi di Suez, la guerra in Vietnam, lo shock energetico degli anni Settanta…
Riguardo agli standard. Nuovi standard stanno già affermandosi. Banalmente perché la potenza logisticamente più attiva al mondo, la Cina, lavora da anni per esportarne il più possibile (in tutti i campi, non solo la logistica). È il primo caso, credo, di una potenza che, ancora prima di essere egemone, si pone in modo deliberato l’obiettivo di impadronirsi di più “network power” possibile attraverso l’imposizione di standard. L’America, per esempio, comprese tale potere solo negli anni Cinquanta, quando ormai era già diventata la prima potenza dell’Occidente. Come in molti altri ambiti i cinesi insomma hanno studiato il playbook delle grandi potenze del recente passato e prendono ispirazioni dalle loro mosse ma bruciando un po’ le tappe.

Data questa volontà strategica della Cina, è inevitabile che quando usciremo dall’attuale fase (sempre che ne usciremo “vivi” e purtroppo non ne sono così sicuro), ci troveremo in un mondo dotato di nuovi strumenti e di nuovi linguaggi, decisi non più “qui” ma altrove.

Prima dell’eventuale avvento di questo nuovo equilibrio, è indubbio che ci sarà (ci siamo già dentro) una fase di frammentazione delle sfere e di sovrapposizione degli standard, che sicuramente alimenterà anche delle frizioni logistiche.

Tuttavia non parlerei di corto circuito totale dei flussi e non prenderei parole come “decoupling” troppo sul serio. Di fatto al momento “decoupling” non è altro che un modo “educato” di urlare “fermiamo la Cina”” da parte (principalmente) degli Stati Uniti. E tuttavia gli stessi Stati Uniti si sono dovuti rapidamente rendere conto che un totale decoupling non è praticabile.

Noi continuiamo a pensare che il rapporto tra grandi aziende occidentali e Cina sia una cosa primitiva, e paternalista, del tipo: grande azienda occidentale manda le portiere e il manuale delle istruzioni dell’auto X nello Jiangsu e dei poveri operai cinesi la montano. Non è proprio così: negli anni le aziende occidentali hanno costruito in Cina, con le aziende locali, delle partnership estremamente sofisticate e complesse (anche perché il governo cinese le ha plasmate in quel modo, attraverso una serie di politiche molto focalizzate). Queste partnership coinvolgono processi, strutture di filiera, figure professionali altamente formate e macchinari costosi e sofisticati. Non parliamo di fabbrichette in mattoni costruite in mezzo alle risaie.

È una situazione da cui non esci semplicemente riportando a casa i pezzi di portiera e lo specchietto della macchina per rimetterli in mano a un operaio dell’Alsazia, dell’Iowa o della Calabria. Ci sono ormai intere porzioni di processi fondamentali per le quali o resti in Cina… o resti in Cina, oppure te ne vai e torni indietro di dieci anni o triplichi tutti i costi ed esci dal mercato (lasciandolo quindi… alla concorrenza della Cina).

È per questo che Apple non si sogna nemmeno lontanamente di mollare le sue partnership cinesi o che i grandi dell’auto tedesca hanno fatto pressioni su Scholz affinché modulasse il più possibile la retorica sul decoupling.
Ma anche ammettendo che si possa uscire nettamente dalla Cina, o persino dall’Asia, non è che se ne esce con l’idea di rifare la Detroit di Ford, la Fiat Mirafiori e l’integrazione verticale novecentesca, se ne uscirà semplicemente andando a produrre altrove, in un estero più vicino, ma in ogni caso il tema dei flussi industriali orizzontali, e il bisogno di una logistica per gestirli, non sparirà mai del tutto.

Spesso anche la querelle culturale di turno risulterebbe più comprensibile se messa in relazione ai sistemi materiali del mondo.

Volevo terminare con Goethe, che nel Wilhelm Meister dà la parola al cugino Werner, un imprenditore, incarnazione dell’uomo nuovo del mondo a venire, membro di “coloro che, con ogni sorta di spedizioni e di speculazioni, sanno attirare a sé una parte di quel danaro e di quel benessere, che hanno nel mondo la loro massima circolazione”. Il poeta prefigura non soltanto la globalizzazione, che era già in moto dagli albori del capitalismo alla fine del Medioevo, ma anche la logistica, la scienza esatta della circolazione delle cose, dell’intreccio tra spedizioni e speculazioni. La logistica si lega indissolubilmente al sistema dei bisogni della società moderna, che ha assorbito il lusso nel necessario: «Getta uno sguardo sui prodotti naturali e artificiali di tutte le parti dell’universo e considera come sono diventati, uno dopo l’altro, indispensabili!». Ma per garantire questa soddisfazione, questa necessità seconda, è necessario razionalizzare al massimo grado la nostra concezione del mondo, dare un nome e un’etichetta a ogni singola cosa, ripetendo di fatto il gesto di Adamo che nomina tutto quello che vede nel Paradiso terrestre. Di nuovo il cugino Werner, novello Adamo: «E che operazione piacevole e spirituale è quella di conoscere tutte le cose che al momento sono più ricercate, e ora mancano, ora sono difficili da avere: fornire facilmente e rapidamente a ognuno ciò che desidera; approvvigionarsi con previdenza e godere in ogni momento il vantaggio di questa gran circolazione!». Insomma, da Adamo a Goethe a noi, è stata solo una lunga parabola?

Più che prefigurare la logistica, nella prima citazione mi pare che Goethe parli precisamente di ricchezza prodotta tramite la logistica commerciale (vedi la risposta di prima sulla Compagnia delle Indie). Solo che a fine Settecento non c’era, per molte ragioni, ancora bisogno di distinguere tra commercio, trasporti e finanza (il che ci riporta al tuo discorso sulla necessità di dare un nome o un’etichetta a ogni singola cosa per “appropriarla” più profondamente e così via).

È molto interessante, e assolutamente vero, quel che dici sul fatto che «la logistica si lega indissolubilmente al sistema dei bisogni della società moderna, che ha assorbito il lusso nel necessario». Aggiungerei che il lusso, in questo caso, non è solo il “bene di lusso” in sé (dove per “lusso”, nella prospettiva storica degli ultimi quattromila anni, non si intende lo yacht… ma il petto di pollo) ma è la logistica stessa a essere un lusso. Non ci rendiamo conto di quale assurdo e precarissimo privilegio sia il fatto di vivere in un tempo in cui esistono intere infrastrutture progettate per avvicinarci, o addirittura portarci a casa, le cose essenziali (non solo merci ma anche energia) a costi così bassi. È chiaro che però tutto questo, come dicevamo, ha un costo. Produce la sua “materia oscura” in termini di alienazione e insostenibilità, e ne abbiamo già parlato.

Tuttavia ogni tanto faremmo bene a ricordare che, per migliaia e migliaia e migliaia e migliaia di anni tra la rivoluzione agricola e il Novecento, l’idea del Giardino Dell’Eden per i nostri antenati (incluso, probabilmente, anche Goethe) corrispondeva più o meno a un’Esselunga.

Scrive su Domani, Esprit, Le Grand Continent, Equilibri. Il suo ultimo libro è "La regola del gioco. Comunicare senza far danni" (Einaudi, 2023).