Non sarà un robot a rubarti il lavoro

LUISS University Press

Nei confronti dell’automazione e del suo potenziale impatto sul lavoro esistono da sempre visioni polarizzate: per alcuni, le macchine distruggeranno il lavoro per come lo conosciamo, gettandoci nel panico. Per altri, le macchine ci libereranno dal giogo del lavoro, rendendoci liberi. Secondo il sociologo ed economista Aaron Benanav, autore del saggio Automazione. Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo edito da LUISS University Press, non succederanno né l’una né l’altra cosa.

da Quants numero 3, giugno 2023

A lungo annunciata, l’era dell’intelligenza artificiale si sta concretizzando ora davanti ai nostri occhi. Con l’esplosione di ChatGPT come fenomeno virale, e complici le sue impressionanti funzionalità, è tornato anche in auge il dibattito attorno all’automazione e alla possibilità che questa possa causare il superamento della necessità dell’impiego umano in numerosi ambiti lavorativi: si legge da più parti, infatti, che le macchine ci renderanno presto obsoleti, causando un’ondata di disoccupazione e di povertà. Non sono certamente paure nuove e ogni avanzamento tecnologico paradigmatico ha sempre scatenato il medesimo dibattito cui assistiamo ancora oggi. Nonostante lo si senta dire di frequente e da più voci, non c’è però alcun segnale che questo possa succedere su larga scala o nell’immediato. Se da un lato è innegabile che l’intelligenza artificiale impatterà in modo significativo sul mondo del lavoro in diversi settori, lo scenario di una disoccupazione di massa (se non piena) generato dall’automazione è ancora parte della speculazione fantascientifica.

Nel suo libro Automazione. Disuguaglianze, occupazione, povertà e la fine del lavoro come lo conosciamo (edito in italiano da LUISS University Press e originariamente in inglese da Verso Books), Aaron Benanav affronta il tema dell’impatto dell’automazione sul lavoro, sfatando alcune di queste visioni più catastrofiste e criticando anche quelle più utopistiche. Secondo Benanav, docente presso il Dipartimento di Sociologia della Syracuse University, sono la stagnazione dell’economia e la conseguente bassa capacità di creazione di posti di lavoro ad aver rallentato la crescita dell’impiego, e non l’automazione, il cui impatto in questo senso è ancora limitato rispetto a quello delle crisi ricorrenti del capitalismo contemporaneo. «Il mondo non è fatto di nuove fiammanti fabbriche automatizzate e di robot-clienti che giocano a ping-pong», scrive Benanav nel suo saggio, «bensì di infrastrutture fatiscenti, città deindustrializzate, personale infermieristico stressato, addetti alle vendite sottopagati, come pure di una quantità ingente e significativa di capitale finanziarizzato e di luoghi instabili dove investirlo».

Se da un lato è innegabile che l’intelligenza artificiale impatterà in modo significativo sul mondo del lavoro in diversi settori, lo scenario di una disoccupazione di massa (se non piena) generato dall’automazione è ancora parte della speculazione fantascientifica.

Gli eccessi speculativi intorno alla portata e all’impatto dell’automazione sul lavoro, pur essendo uno dei tropi più ricorrenti nel dibattito pubblico, rischiano di essere fuorvianti. Benanav è anche dell’idea che sia meramente utopistico sperare in una piena automazione in grado di liberarci dal giogo del lavoro, come sostengono invece gli accelerazionisti: di per sé la tecnologia non andrà necessariamente in quella direzione e di conseguenza non è possibile attribuirle questo potenziale liberatorio. Come fare, quindi, per superare il neoliberismo truce”, si chiede Benanav in conclusione del suo libro, e prospettare realmente una società post-scarsità e potenzialmente quanto più post-lavoro possibile (dove il lavoro non sia il principale fulcro delle nostre vite)? Occorrerà darsi da fare. In occasione della pubblicazione della versione italiana del suo libro, lo abbiamo intervistato.

I timori più distopici e sistemici legati all’automazione sono ricorrenti, e quelli più recenti nei confronti delle applicazioni dellintelligenza artificiale sono solo gli ultimi di una storia più lunga. Perché questo atteggiamento in parte irrazionale continua a riemergere?

La parola robot deriva da un’opera teatrale scritta da Karel Čapek nel 1920, in cui i servi robotici si ribellano e si sollevano contro gli umani: è quindi chiaro come sia le speranze che le paure legate all’automazione abbiano una lunga storia. Queste reazioni emotive sono cresciute d’intensità man mano che le persone sono diventate dipendenti dalla ricerca di un lavoro per poter sopravvivere, e a vivere nel terrore di perderlo. Allo stesso tempo, i periodi di speranza e paura legati all’automazione sono altamente ciclici. Tendono a peggiorare quando anche l’insicurezza del lavoro si aggrava. Ma attribuire tale insicurezza ai robot è raramente corretto. Come sostengo nel mio libro, la distruzione di posti di lavoro indotta dall’automazione sta avvenendo oggi molto più lentamente che in passato. Il vero problema è che le nostre economie sono stagnanti — e l’Italia è un caso particolarmente grave in questo senso — e di conseguenza vengono creati meno nuovi posti di lavoro.

Il tuo libro si basa sull’idea che i timori che l’automazione possa provocare una disoccupazione di massa siano esagerati. I più recenti sviluppi nel campo dell’AI hanno accelerato questi processi o siamo ancora lontani da un mondo in cui le macchine sostituiranno gli esseri umani sul posto di lavoro in modo significativo?

ChatGPT è certamente divertente da utilizzare, ma è improbabile che automatizzi molti lavori. Il software è troppo soggetto a errori. Quando ChatGPT non conosce una risposta, ne inventa semplicemente una. Ma poiché non capisce la differenza tra vero e falso, non sa di star mentendo ai suoi utenti. Il risultato è che dà risposte sbagliate a molte domande, che gli esseri umani devono poi comunque verificare. I large language model come ChatGPT probabilmente porteranno i maggiori cambiamenti in campi come la programmazione informatica e la scrittura legale e tecnica, ma anche in questo caso non è chiaro se i lavori in questi campi scompariranno davvero o se cambieranno semplicemente in termini di modalità di svolgimento.

Sono la stagnazione dell’economia e la conseguente bassa capacità di creazione di posti di lavoro ad aver rallentato la crescita dell’impiego, e non l’automazione, il cui impatto in questo senso è ancora limitato rispetto a quello delle crisi ricorrenti del capitalismo contemporaneo.

Il Future of Life Institute ha pubblicato recentemente una strana lettera aperta per chiedere di fermare lo sviluppo dell’AI, citando scenari fantascientifici distopici e piuttosto stereotipati. Diversi esperti hanno invece sottolineato come la lettera sia problematica, in quanto sposta l’attenzione dai problemi reali che l’AI sta già causando nel mondo. Condividi l’idea che le visioni distopiche a lungo termine su queste tematiche non colgano davvero il punto?

L’intelligenza artificiale oggi è ben lontana dal raggiungere l’AGI (intelligenza artificiale generale), così come i robot sono ben lontani dal raggiungere la destrezza e l’abilità dei lavoratori umani. A volte queste tecnologie possono essere utilizzate a fin di bene. Ad esempio, i robot sono molto bravi a sollevare oggetti pesanti e a spostarli da un luogo all’altro, evitando che gli esseri umani debbano svolgere questo tipo di lavoro. Altre volte, però, i limiti di queste tecnologie portano a situazioni in cui gli esseri umani vengono trattati come robot. La guida dei camion si è rivelata molto più difficile da automatizzare di quanto venga spesso sostenuto dai suoi promulgatori. Di conseguenza, invece, vengono installate telecamere nei camion, per osservare ogni mossa dei conducenti umani. In questo modo, si può spingerli a guidare il più velocemente possibile, per il maggior tempo possibile, controllando intanto che non si addormentino e non finiscano fuori strada.

«Il mondo non è fatto di nuove fiammanti fabbriche automatizzate e di robot-clienti che giocano a ping-pong, bensì di infrastrutture fatiscenti, città deindustrializzate, personale infermieristico stressato, addetti alle vendite sottopagati, come pure di una quantità ingente e significativa di capitale finanziarizzato e di luoghi instabili dove investirlo».

Mentre si discute dell’impatto dell’AI e dell’automazione sul lavoro, spesso gli esseri umani già colpiti in modo più diretto da queste tecnologie sono anche i più trascurati in questi discorsi. Penso a quelli che addestrano questi sistemi, per esempio, e alle condizioni e circostanze di lavoro in cui devono operare. Fare luce sulla natura umana dell’AI e dell’automazione aiuterebbe a capirne le implicazioni reali?

I lavoratori in Kenya sono stati pagati meno di 2 dollari all’ora per formare ChatGPT. Il loro lavoro garantisce che, ad esempio, quando si pone una domanda a ChatGPT, il chatbot non risponda come un nazista. Non è un problema da poco: i modelli linguistici vengono addestrati su dati provenienti da Internet, compresi i suoi angoli più ignobili. Qualche anno fa, Microsoft si è sentita in imbarazzo quando il suo chatbot Tay ha dovuto essere messo offline, dopo che aveva iniziato a vomitare teorie cospirative. Per far funzionare meglio ChatGPT, i lavoratori kenioti, mal pagati, sono stati esposti a contenuti disgustosi e inquietanti per molte ore al giorno. Hanno avuto incubi ricorrenti, affinché gli studenti potessero chiedere a ChatGPT di aiutarli a copiare i compiti. Con l’aumento delle nostre capacità tecnologiche, deve aumentare anche la nostra responsabilità nei confronti degli altri. Altrimenti, diventeremo l’incubo che accusiamo le nostre tecnologie di essere.

Il tuo libro è anche una critica agli autori accelerazionisti e alle loro visioni sulla completa automazione e sull’UBI (reddito di base universale) come prospettiva di liberazione dal lavoro. Pensi che la loro visione possa almeno incarnare una qualche forma di spinta utopica verso una società in cui il lavoro non sia l’elemento più determinante delle nostre vite? Pensi che la loro visione abbia almeno il potenziale per ispirare azioni politiche concrete in questo senso?

Il lavoro non dovrebbe essere l’elemento che definisce la nostra vita. Come dimostrano le scienze sociali, le persone sono più felici quando la loro vita è equilibrata: quando si sentono sicure nel soddisfare i loro bisogni, sicure in casa e per strada, rispettate nelle loro comunità e con uno scopo nelle loro attività di vita. Molte persone passano troppo tempo della loro vita a lavorare, per insicurezza o per ambizione, e più tardi nella vita rimpiangono il tempo che non hanno trascorso con gli amici e la famiglia, o facendo altre attività significative. Tuttavia, molte persone trovano nel lavoro un significato e un legame umano. Ed è proprio per questo che, mentre costruiamo un mondo in cui le persone abbiano maggiore sicurezza nelle loro vite, dobbiamo trasformare contemporaneamente il modo in cui lavoriamo e il modo in cui trattiamo tutte le persone il cui lavoro quotidiano permette a tutti noi di vivere la nostra vita. Non possiamo aspettarci che macchine e computer facciano tutto questo lavoro al posto nostro. Ecco perché vi è una differenza importante nell’essere trattati come macchine o come esseri umani quando lavoriamo.

Come sottolinei ampiamente nel libro, le ragioni delle attuali condizioni di precarietà del lavoro nella società contemporanea e dei fenomeni correlati come la disoccupazione sono da ricercare nella stagnazione economica, nelle crisi ricorrenti e nell’incapacità del capitalismo globale di generare un numero sufficiente di posti di lavoro. Se non attraverso l’automazione, come potremo costruire una società post-scarsità?

Gli economisti ci hanno fuorviato. Ci dicono che la scarsità è una questione di potere avere o meno tutto ciò che vogliamo, date le tecnologie attuali. Ma in realtà la scarsità riguarda se e come soddisfiamo i nostri bisogni. Le persone i cui bisogni sono soddisfatti possono vivere una vita piena e felice, indipendentemente dal fatto che molti dei loro desideri e capricci restino insoddisfatti. Questi bisogni non sono solo materiali. Infatti, molti dei bisogni delle persone sono sociali e psicologici, come il bisogno di sentirsi utili o di avere un senso e uno scopo nella propria vita. Oggi, uno dei principali problemi che le persone devono affrontare, soprattutto in una società che invecchia, è l’epidemia di solitudine degli anziani. Non si tratta di problemi da risolvere solo con il denaro o con le tecnologie, piuttosto con una riorganizzazione sociale. Per arrivare a una società post-scarsità, dobbiamo concentrarci sull’utilizzo delle nostre immense risorse sociali e tecnologiche per aumentare la nostra capacità di soddisfare i bisogni delle persone. Ciò richiederà non solo un reddito di base universale, ma anche servizi di base universali, tra cui l’assistenza sanitaria, la casa, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, l’istruzione e i servizi di telefonia cellulare. Possiamo migliorare le nostre capacità di fornire questi servizi, trasformando al contempo il carattere e le ragioni per cui le persone lavorano. Ma questo richiederà grandi cambiamenti nel modo in cui organizziamo la nostra economia e in chi decide come vengono utilizzate le nostre risorse.

Ricercatore post-doc presso la School of Humanities and Social Sciences della Universität St. Gallen, Svizzera, si occupa di giornalismo investigativo, sorveglianza di Internet, black box tecnologiche e dei rapporti tra hacking e informazione. In precedenza, ha lavorato presso la London School of Economics and Political Science (LSE) e l’Università della Svizzera italiana (USI). Scrive per varie testate giornalistiche e conduce un programma su Radio Raheem. Vive a Zurigo.