«Essendo giapponese, sei comunque minimalista»

Amedeo Benestante

Il valore esistenziale del lavoro e della ricerca artistica di Kazuko Miyamoto, in mostra al Museo Madre di Napoli.

da Quants numero 8, dicembre 2023

Senza titolo, 1982, è un ritratto emblematico dell’artista giapponese Kazuko Miyamoto. L’opera – una fotocopia creata a partire da una fotografia scattata da Humiko Hasegawa – ritrae l’artista giapponese nel suo studio completamente nuda, con il volto coperto solo da una maschera simile a quelle del carnevale veneziano. È a testa in giù, con le spalle e i gomiti per terra, le mani sostengono il bacino e le gambe aperte a forbice sopra la testa. Sullo sfondo svettano due sculture griglia di Sol LeWitt, per il quale a partire dal 1968 Miyamoto ha lavorato come assistente. La geometria analitica e le linee precise e fredde delle sculture minimaliste sono nettamente in contrasto con l’arco sinuoso della sua schiena e la morbidezza del suo corpo. Miyamoto guarda dritta nell’obiettivo, soggetto e allo stesso tempo oggetto dell’opera, cristallizzando in un’immagine alcuni dei principali temi su cui lavorerà in oltre cinque decenni di pratica artistica: l’interesse per le composizioni geometriche e le idee minimaliste; la spontaneità della creazione e l’importanza del gesto performativo, il ruolo delle donne non occidentali nell’arte.

Kazuko Miyamoto nasce nel 1942 a Tokyo, dove rimane fino al 1964. Dopo aver concluso i suoi studi in arte tradizionale giapponese al Gendai Bijutsu Kondankai (Gruppo di discussione sull’arte contemporanea), appena ventenne si trasferisce a New York. Qui inizia a integrarsi nella scena artistica di Downtown, studia all’Art Students League e al Pratt Graphics Center fino al 1968. Nello stesso anno, il destino fa scattare un allarme antincendio e lei è costretta ad evacuare dal suo studio-casa al numero 117 di Hester Street. È in tale occasione che fa conoscenza del suo vicino, l’artista Sol LeWitt, già noto per la sua ricerca all’interno del movimento minimalista. È uno scambio, una influenza reciproca e una profonda amicizia che punteggiano l’arco delle loro carriere: basti pensare che la Collezione Sol LeWitt possiede il maggior numero di opere di Miyamoto.

Miyamoto guarda dritta nell’obiettivo, soggetto e allo stesso tempo oggetto dell’opera, cristallizzando in un’immagine alcuni dei principali temi su cui lavorerà in oltre cinque decenni di pratica artistica: l’interesse per le composizioni geometriche e le idee minimaliste; la spontaneità della creazione e l’importanza del gesto performativo, il ruolo delle donne non occidentali nell’arte.

Sin dai suoi esordi Miyamoto mette in dubbio le tradizionali metodologie vigenti nel sistema dell’arte, il valore della creazione artistica, così come le possibilità di fruizione, il consumo, la disponibilità e le modalità espositive. Nei primi anni Settanta queste esigenze iniziano a confrontarsi con le idee del Minimalismo e dell’architettura, e portano l’artista a sperimentare con le string construction, composizioni dinamiche composte da una serie di chiodi congiunti di loro da fili di cotone industriali, manualmente tesi. Uno dei primissimi casi prende forma proprio nello studio di LeWitt, dove Miyamoto posiziona i chiodi a intervalli regolari seguendo gli incroci delle fughe dei mattoni sul muro. Le serie delle string construction rimane una pratica in costante evoluzione nella sua carriera artistica e primo tramite della sua personale declinazione del Minimalismo. Miyamoto utilizza infatti il vocabolario comune ai suoi colleghi, contraddistinto da serialità, ritmo geometrico, monocromia, minandone però i rigidi schemi tramite l’introduzione del fattore umano: questo porta inevitabilmente con sé la possibilità di errore, elementi di imprecisione che le consentano di enfatizzare il gesto performativo e sottolinearne il suo essere effimero. Una riflessione che si genera dall’incontro tra la sensibilità che Miyamoto sviluppa nella sua nuova patria, New York, e la centenaria cultura tradizionale giapponese di cui è figlia.

L’universo artistico di Miyamoto è andato in scena al museo Madre di Napoli, dove per quattro mesi è stato possibile visitare la prima ricognizione storiografica dedicata all’artista da un’istituzione pubblica europea. La mostra, che ha inaugurato il nuovo programma triennale, è stata curata da Eva Fabbris, neo direttrice del museo e ha posto in primo piano un’artista rimasta eccessivamente nell’ombra negli scorsi decenni, nonostante l’innegabile influenza che essa ha apportato al discorso artistico contemporaneo. Il percorso espositivo si è articolato su due piani, per l’esattezza il secondo e il terzo del museo. Al secondo piano l’approccio narrativo era di tipo cronologico e permetteva di esplorare l’evoluzione artistica di Miyamoto lungo l’arco di cinquant’anni, mostrando al contempo la gamma di medium – installazione, performance, pittura, disegno, lavori su carta e in carta, ready made con materiali naturali e oggetti di recupero – con cui si è confrontata nella sua carriera. Al terzo piano, invece, l’accostamento delle opere libere da criteri temporali ha permesso di intraprendere una riflessione sulla dimensione effimera ricercata dall’artista, costante necessità nella sua pratica a prescindere da forma e mezzo utilizzati. 

Sin dai suoi esordi Miyamoto mette in dubbio le tradizionali metodologie vigenti nel sistema dell’arte, il valore della creazione artistica, così come le possibilità di fruizione, il consumo, la disponibilità e le modalità espositive.

L’indagine prendeva avvio da due dei primi tentativi bidimensionali di string construction, entrambi senza titolo e realizzati nel 1972, creati seguendo un ritmo semplice in cui si alternano linee nere e chiodi, che riprendono le traiettorie e i pattern dei disegni degli stessi anni, anch’essi esposti al Madre. Sempre del 1972, nella sala tre, un dipinto, anche esso senza titolo, in cui è possibile notare già la linea sovversiva dell’artista nei confronti della rigida composizione minimalista: Miyamoto introduce, nelle intersezioni di una griglia disegnata a mano, una serie di punti in vernice  spray. Questa scelta tecnica le permette di creare dei contorni poco definiti, di smussare la linea, in un’apertura verso una forma libera e di cui non può controllare a pieno il tratto. Il dipinto è un sottile omaggio alla cultura del suo paese in quanto il pattern creato ricorda la scacchiera di un popolare gioco da tavola, il Go, di invenzione cinese ma molto noto in Giappone; al contempo però l’opera rimanda alla sua storia personale: infatti durante la sua infanzia, la madre di Miyamoto gestiva una sala da gioco. Nella stessa sale il dipinto dialoga con Male I (1974-2023), opera esposta per la prima volta nel 1974 presso il 574 Broadway studio, che mostra come Miyamoto abbia gradualmente personalizzato sempre di più gli stilemi del Minimalismo. Come nota il critico Lawrence Alloway nel 1977: « […] Lei ha preso parte alla realizzazione dei disegni [di LeWitt] per il Guggenheim Museum nel 1971, e la definizione di muro come superficie di LeWitt ha sicuramente influenzato il suo lavoro. Il suo però non era un semplice atto di imitazione: al contrario ha perseguito, con implacabile sottigliezza, una potenziale tridimensionalità implicita nei disegni ma non realizzata da LeWitt. Kazuko nasce come pittrice e conserva il senso dell’illusione dello spazio di un pittore nelle sue costruzioni».

La ricerca di una maggiore costruzione e tridimensionalità porta l’artista a composizioni più complesse ed intricate, in cui la componente performativa e la centralità del corpo assumono sempre più spazio. Ne è un esempio String around a cylinder of my height (1977), un cilindro di compensato della stessa altezza dell’artista sulla cui superficie ha riprodotto un motivo circolare con chiodi e filo nero. L’opera era stata originariamente concepita come parte di una coppia: il secondo elemento, purtroppo attualmente perso, rappresentava l’altezza del compagno di Miyamoto all’epoca. La scultura non era presente come opera in mostra, ma visibile tramite una delle tante immagini d’archivio che accompagnavano il visitatore nel racconto. Il dialogo con l’architettura tanto caro all’artista era infatti riproposto tramite un gioco di corrispondenze tra la ricostruzione per immagini della sua vita, che fluiva sulle finestre del museo trasformandole così in vetrate istoriate, e la città che si anima oltre i vetri.

La sperimentazione spaziale rende le string maggiormente organiche nella loro forma e le connota di una vibrazione optical e tattile. Il movimento creato dagli intrecci stordisce inizialmente lo spettatore, che è portato così ad andare oltre il semplice rilevamento visivo dell’ingombro della scultura e a interagire con essa nello spazio. Dal dialogo motorio tra spettatore e string, la dimensione di punti e linee diventa sempre più evanescente, gli occhi percepiscono un intreccio fluido e cangiante, in un movimento perpetuo quasi fastidioso alla vista, ma ipnotizzante. Un esperienza immersiva che è stato possibile provare al terzo piano osservando Archway to Cellar (1978-2023) e Sail, (1978-2023). Le due opere in cotone bianco invadono completamente lo spazio del museo che le accoglie, portando allo scoperto la ricerca di Miyamoto di una dimensione monumentale. Tale monumentalità suggerisce inoltre il minuzioso lavoro di installazione che si nasconde dietro a opere realizzate con un materiale così umile, intrecciato tramite un susseguirsi di passaggi con il fine ultimo di creare una scultura transitoria ed effimera, così capace però di enfatizzare l’importanza del processo e del gesto. La scelta di materiali poveri come il cotone è una sottile critica alla mascolinità del Minimalismo, che predilige invece materiali industriali come acciaio, alluminio, legno e cemento. I suoi gesti da moderna Penelope, ripercorsi al Madre dalle precise mani degli allestitori, sottendono inoltre una riflessione sull’importanza del lavoro manuale rispetto a quello intellettuale.

È però solo negli anni Ottanta che si concretizza il vero superamento del Minimalismo nella ricerca di Miyamoto. La sua pratica si lega ancor più a una dimensione performativa, e la riflessione sul fare la spinge ad accogliere maggiori suggestioni dal mondo esterno. La serie di lavori prodotta per la sua personale Nesting presso A.I.R. Gallery nel 1980 ne è un chiaro esempio. In tale occasione usa materiali naturali come betulle, foglie, corde e carta per creare opere che ricordano dei nidi, intrecci abitabili da un corpo. Fatatabi, 1987, presente al secondo piano del Madre, rimanda esattamente questa suggestione: una scultura in cui è possibile intravedere un tradizionale kimono giapponese – topos ricorrente nei lavori più recenti dell’artista – creato dall’intreccio di carta da pacchi e rametti. Sono gli anni che coincidono con la maternità di Miyamoto, un’esperienza che la porta a riscoprire una realtà primitiva e legata a materiali naturali, come fa notare Luca Cerizza in un articolo scritto nel 2015 per e-flux.

Sono gli stessi anni in cui esce dallo studio e si apre alla street life di Downtown. I materiali poveri sono spesso recuperati per strada o nei parchi cittadini, poi incorporati in opere per lo spazio pubblico, che prendono forma a volte proprio nel luogo del ritrovamento. Materiali di questo tipo sono infatti rintracciabili nella performance Twig Woman (1983) per cui l’artista indossa, dalla testa ai piedi, un costume di carta intrecciata; o in Bell Bridge (1980), un ponte che congiunge le chiome di due alberi. Di quest’ultima era possibile apprezzare il processo di ricerca, costruzione e installazione all’interno del Wards Island Sculpture Garden di New York tramite le fotografie d’archivio presenti in mostra. Una serie di scatti in bianco e nero, realizzati in esterna, da cui emerge chiaramente il dialogo instaurato dall’artista tra l’ingombro dell’opera e lo spazio in cui si innesta.

Il dialogo con l’architettura tanto caro all’artista era infatti riproposto tramite un gioco di corrispondenze tra la ricostruzione per immagini della sua vita, che fluiva sulle finestre del museo trasformandole così in vetrate istoriate, e la città che si anima oltre i vetri.

L’apertura verso il mondo esterno non coinvolge unicamente la sua pratica artistica, ma anche la sua sfera relazionale. Nel corso degli anni Ottanta Miyamoto intensifica i suoi legami con la scena artistica newyorkese e instaura nuovi rapporti con numerosi artisti, tra cui Louise Bourgeois, Adrian Piper e Ana Mendieta. Quest’ultima sarà un’interlocutrice rilevante per Miyamoto. Le due artiste condividono un vissuto simile: essendo entrambe straniere in terra americana si interrogano attraverso la loro arte su temi diasporici e su come sia possibile coniugare la loro cultura d’origine con il fare arte in Occidente. Sono entrambe immerse nei fermenti femministi del panorama artistico di New York, che in quegli anni è animato da una discussione e presa di coscienza critica e politica sulle disuguaglianze in atto nel mondo dell’arte. Nel 1972, in un clima di contestazione e atti di guerriglia contro le istituzioni e i loro programmi che marginalizzano donne e minoranze, nasce A.I.R. Gallery. Si tratta di uno spazio no-profit fondato da Susan Williams e Barbara Zucker con l’intento di dare maggiore visibilità e supporto alle artiste donne. Il duo iniziale verrà presto affiancato da altre diciotto co-fondatrici, tra cui Dotty Attie, Maude Boltz, Mary Grigoriadis e Nancy Spero. Miyamoto sarà invitata a prendere parte al gruppo nel 1974, una collaborazione che durerà circa dieci anni durante i quali allestirà cinque personali; lo spazio sarà palcoscenico della sua evoluzione artistica e del suo distanziamento dagli iniziali motivi minimalisti. Nel 1983 l’artista decide di allontanarsi però dal collettivo, poiché in quanto madre single e ancora assistente di LeWitt trova impossibile partecipare attivamente al programma di A.I.R. come richiesto dalle colleghe, e apre la sua galleria Onetwentyeight. Un spazio lontano dalle logiche del mercato e delle tradizionali gallerie basate su un sistema di rappresentazione degli artisti, ma che prova a dare una forma fisica al concetto di comunità: un luogo in cui artisti, amici e curatori ospiti possano esprimere la loro ricerca, contaminandosi a vicenda in una serie di jam session. Una galleria creata a immagine e somiglianza della sua fondatrice che scardina l’idea classica di esibizione e curatela, portando a un altro livello il concetto di incroci di culture e contaminazione reciproca, tramite la creazione di un perimetro sicuro all’interno del quale la commistione di saperi e tradizioni potesse essere concretizzata.

Il terzo piano del Madre ha ripercorso le tappe di un altro importante sodalizio per l’artista giapponese, ovvero l’amicizia con Marilena Bonomo. Già gallerista di LeWitt, inviterà su suo suggerimento la sua assistente a esporre nella sua galleria di Bari. Il loro legame continuerà nei decenni successivi e condurrà l’artista più volte in Italia. Molte delle opere esposte sono parte della collezione Marilena Bonomo e vengono per la prima volta mostrate al pubblico. Senza titolo (door) (1973) è una string che Miyamoto ha realizzato la prima volta sulla porta della galleria in via Nicolò Dell’Arca 19 e al Madre riproposta con un allestimento simile, che riprendeva il suo collocamento originario.

La ricerca dell’effimero, portata avanti dall’artista lungo tutto l’arco della sua carriera, contrasta con il disegno, medium che l’artista non riuscirà mai ad abbandonare. È attraverso la matita che prendono forma i suoi soggetti ricorrenti, spesso legati alla sua cultura d’origine: ombrellini, kimoni e corde. Mina e carta sono elementi umili di un rituale quotidiano, che le permette di mantenere vivo il legame con la sua tradizione: sarà in carta uno dei primi kimoni che realizza nel 1987. Il tema del kimono rimarrà caro a Miyamoto, che lo reitererà fino agli anni Duemila: un indumento tradizionale giapponese che l’artista impara a cucire a mano sin da piccola, durante i suoi studi di danza, e che a più riprese sarà la tela su cui esprimerà i temi maggiormente legati al suo vissuto personale.

Al terzo piano la mostra chiude con un’ultima conversazione tra LeWitt e Miyamoto, ponendo in dialogo gli Scribbles (Wall Drawing #1271, scribbles 12. Wall Drawing #1272, scribbles 16. Wall Drawing #1269, scribbles 9. Wall Drawing #1273, scribbles 18. Wall Drawing #1270, scribbles 10. 2012) di LeWitt, ovvero una serie di gradienti che vanno dal nero al bianco, con Cat Cape Kimono (1990-2018), un kimono cucito a mano dall’artista, che ricorda la pezzatura bianca e nera del suo gatto. Le due opere, che condividono sia la palette colori che l’ampio approccio grafico, ci accompagnano alla conclusione della scoperta della complessa figura di Kazuko Miyamoto, ricordandoci il punto di partenza di una ricerca artistica così varia e complessa, durata cinquant’anni, che ha saputo coniugare in sé occidente e oriente. Come ironicamente ha dichiarato la stessa Miyamoto, alla fine «Essendo giapponese, sei comunque minimalista».