Parthenope e l’eterno mito della decadenza

Piper Film

Parthenope, ultimo film di Paolo Sorrentino, è il racconto di una giovinezza estetizzata e idealizzata, in cui il mistero si lega con la bellezza. E ci dà qualche spunto per riflettere sull’ossessione del cinema italiano per le immagini del suo passato.

Da Quants numero 14, 2024

Napoli nasce dalle viscere del cadavere di una sirena: secondo il mito si tratta del corpo di Parthenope, la terribile sirena che perde la vita dopo non essere riuscita a sedurre Ulisse con il suo canto. Una città che sorge dal corpo esanime di una creatura capace di ammaliare ogni uomo, trascinandolo verso una fine infausta. 

Un mito fondativo lugubre e funereo, che parla di nascita a partire dalla morte e di creature splendide e terribili, affascinanti e spaventose. Paolo Sorrentino con Parthenope, il suo ultimo film presentato al Festival di Cannes, parte proprio dal mito: la sua protagonista non solo condivide il nome con la famosa sirena, ma nasce proprio tra quelle acque dove la creatura mitologica aveva trovato la morte. Interpretata da Celeste Dalla Porta e durante l’età adulta da Stefania Sandrelli, Parthenope nasce nel 1950, e la storia della sua vita è destinata a rispecchiare quella della città di Napoli, ma è anche l’incarnazione di una gioventù idealizzata: mentre È stata la mano di Dio è il racconto semi-autobiografico di un percorso di formazione realmente vissuto, Parthenope rappresenta invece gli aspetti mancati della giovinezza, è l’evocazione di ciò che rimane al di fuori del perimetro del vissuto rappresentato da quei desideri giovanili mai realizzati. Raccontando di una giovinezza che non si è mai vissuta ma si è sempre sognata non può che essere una storia che si nutre di mitologie, di simboli e di residui di ingenuità infantili: «Ho iniziato con La mano di Dio dove mi interessava descrivere la mia giovinezza, e ho continuato con quest’altra cosa che mi interessava, che è parlare della mia giovinezza mancata, una giovinezza sognata, più che una giovinezza vissuta»dichiara il regista, mettendo in relazione due film accomunati dall’avere come nucleo il percorso di formazione di un giovane, ma divisi dai modi diversi e radicali con i quali decidono di trattare la materia del reale.

Paolo Sorrentino con Parthenope, il suo ultimo film presentato al Festival di Cannes, parte proprio dal mito: la sua protagonista non solo condivide il nome con la famosa sirena, ma nasce tra quelle acque dove la creatura mitologica aveva trovato la morte.

Sorrentino stesso anticipa alcune caratteristiche centrali del ritratto mobile della giovinezza di Parthenope, un ritratto che intende cogliere gli aspetti più astratti e romantici, più vicini al sogno che alla realtà: «Questo non è un film sul rimpianto, la malinconia, la nostalgia, ma sul passaggio dell’età. Il fatto è che la verità non riguarda i giovani, la loro caratteristica è l’insincerità. Si è spensierati, ci si abbandona, si ha a che fare con il sogno e il desiderio, si fa un racconto epico di sé, ci si guarda allo specchio e si balla, ci si immagina di esser qualcosa. Ma questo racconto si interrompe quando si passa dalla vita estetica a quella etica, si diventa responsabili, s’interrompe il racconto epico di sé. Diventi quel che sei, spesso non ti piaci, fai decine di tentativi di uscire da te stesso e non ci riesci». Parthenope si presenta fin da subito come racconto del riflesso della giovinezza più che della giovinezza in sé, più interessato alla narrazione con cui essa si restituisce al mondo che alla rappresentazione di un’esistenza individuale e verosimile. 

Il regista decide di raccontare la storia di Parthenope rimanendo sempre ad altezza di sguardo, scegliendo di utilizzare la macchina da presa non per scandagliare l’invisibile o per scavare in profondità, ma per rimanere costantemente sulla superficie, per osservare ossessivamente ciò che è più evidente.

Se in È stata la mano di Dio abbiamo visto un Sorrentino intimista, in cui Napoli è sempre protagonista ma come lo spettro di un ricordo, osservata attraverso le lenti deformanti dell’interiorità che il regista ha riversato nella storia di Fabietto, in Parthenope il focus si sposta. Stavolta abbiamo come protagonista un personaggio femminile, la giovane Parthenope: la sua storia ambisce a racchiudere molteplici esistenze, a diventare narrazione di un’intera condizione esistenziale, quella della giovinezza, e a ergersi come simbolo di un’intera città e delle sue stratificazioni storiche, culturali, spirituali. In Parthenope è tutto fugace, sfuggente, così tanto sfuggente da lasciare a tratti un’impressione di vacuità: l’elemento che caratterizza Parthenope è la sua bellezza fuori dall’ordinario, capace di «spalancare le porte» come sentenzierà il John Cheever di Gary Oldman durante una conversazione con la giovane. Una bellezza intrisa di mistero: Parthenope comanda lo sguardo di chi la circonda ma non si svela quasi mai. Quando qualcuno tenta di valicare quella soglia segreta guardando oltre la sua maschera, Parthenope si scosta, si sottrae e si rifugia dietro un paio di frasi a effetto che portano l’interlocutore fuori strada, allontanandolo dal magma indecifrabile e contraddittorio della sua vita interiore. 

Il regista decide di raccontare la storia di Parthenope rimanendo sempre ad altezza di sguardo, scegliendo di utilizzare la macchina da presa non per scandagliare l’invisibile o per scavare in profondità, ma per rimanere costantemente sulla superficie, per osservare ossessivamente ciò che è più evidente.Sorrentino non travalica il mistero, non scosta il velo che ha intessuto intorno alla figura di Parthenope per farci intravedere il suo segreto: il racconto è tutto esteriore, si nutre di bellezza, di sagaci frasi a effetto e di fulminee battute di spirito tipicamente sorrentiniane, così persistenti da suscitare facile ironia (il film stesso ne è a tratti consapevole: diversi personaggi fanno notare a più riprese la tendenza della giovane a utilizzare risposte pronte per deflettere da domande scomode).

La tragedia è il genere prediletto del mito: gli eroi sono tutti giovani e belli, e Parthenope non è esente da questa massima.

Il personaggio di Celeste Dalla Porta si muove attraversando i decenni del Novecento con passi carichi di leggerezza e di gravità al tempo stesso, mossa da una spensieratezza perenne che si avviluppa attorno al nucleo di un dolore segreto, persistente e ostinato, che le appesantisce lo sguardo. La vita di Parthenope è intensa, soggetta a profonde trasformazioni e segnata dai cambiamenti esterni: seguendo i suoi passi attraversiamo l’ambiente universitario con la nascita dei movimenti di contestazione del ’68, assaggiamo l’atmosfera cosmopolita e glamour delle feste private sull’isola di Capri, per poi discendere nelle zone d’ombra della città, dove si consumano rituali arcani e si stringono alleanze di sangue tra i clan. Parthenope arriva, osserva, assorbe ciò che vede e se ne va, senza darci di modo di comprendere i suoi pensieri o le sue emozioni, incarnando una sorta di fatalismo giovanile, dove tutto passa ma niente passa davvero, dove il cambiamento perenne è l’unica insostenibile certezza. 

Lo spirito della sua storia è quello della tragedia, dove tutto è definitivo e ogni scelta può condurre a un esito fatale, irrimediabile: e la tragedia è il luogo della gioventù, quel periodo dove a dominare è quel senso di irrevocabilità, di sofferenze solenni e patetiche, tanto teatrali nelle loro esternazioni quanto oneste nella loro sostanza.E la tragedia è il genere prediletto del mito: gli eroi sono tutti giovani e belli, e Parthenope non è esente da questa massima. Il connubio classico tra tragedia, mito, gioventù e bellezza regola anche l’esistenza di Parthenope e la forma narrativa in cui ci vengono restituite le diverse tappe della sua vita: attraverso immagini cariche di simbolismo, dalla nascita nelle acque del Golfo di Napoli fino al rito dello scioglimento del sangue di San Gennaro, Parthenope si mostra attraverso i simboli di un passato cristallizzato, immutabile. Ma il mito di Parthenope si ripropone in una forma degradata, una tragedia sclerotizzata: nel loro ripetersi ossessivo queste formule estetiche e narrative dal sapore classicista perdono il loro mordente. Un racconto mitico agonizzante, in stato di decadenza, per raccontare una figura e una società decadenti: la bellezza di Parthenope è intaccata da una sensazione mortifera, di squallore, da qualcosa di dozzinale che si contamina con il sublime. Questo intreccio tra bellezza e degradazione è un filo che attraversa il lavoro di Sorrentino, da La grande bellezza a Youth: il senso di decadimento verso cui la gioventù si sente irresistibilmente attratta, quegli scarti di morte che diventano il cuore pulsante della storia e il mistero ultimo di Parthenope.

Cos’altro è la Roma pomposa e cervellotica de La grande bellezza se non un enorme cadavere che indugia nella dolce vita degli anni Sessanta? Il barocchismo nevrotico delle immagini restituisce la sontuosità di un passato fossilizzato: la Roma di Fellini non esiste più, e nemmeno le sue incarnazioni precedenti. Rimane una fotocopia sbiadita, una versione farsesca, una piccola società la cui degradazione altro non è che un calco ridicolo dell’immagine patinata di una degradazione passata, un’imitazione funerea che rievoca lo spettro di un passato che fatichiamo a lasciar andare. 

Così come è una farsa anche la riproposizione del miracolo di San Gennaro che coinvolge Patrizia, il personaggio di Luisa Ranieri in È stata la mano di Dio, dove la donna viene condotta da un santo poco raccomandabile nelle grandi stanze abbandonate di Villa del Cardinale per farsi benedire da o’ munaciello. Le sontuose sale segnate dal tempo e dalle calamità naturali della villa settecentesca denunciano uno sfarzo ormai sbiadito: al centro dell’edificio campeggia un enorme lampadario acceso conficcato nel terreno. Intorno a questa spettacolare decadenza il sacro e il profano, San Gennaro e il piccolo monaco, una delle tante figure che popolano il folclore partenopeo, si uniscono per mettere in scena un miracolo che non salva ma condanna, la parodia smunta di un rituale millennario. 

Ma anche quella commistione tra nobilità e miseria, tra farsesco e divino, reca con sé qualcosa di sfuggente e imperscrutabile che risiede nell’impossibilità di stabilire quale sia la verità: Patrizia potrebbe aver davvero visto San Gennaro accompagnato dal piccolo monaco dispettoso, oppure è solo una proiezione dei suoi desideri, la manifestazione di uno dei suoi deliri? E come ci poniamo noi rispetto alla coesistenza di queste due realtà? A quale delle due diamo più valore?

La scena iniziale di È stata la mano di Dio è un controcanto a una delle scene centrali di Parthenope, dove vediamo la giovane adornata dai gioielli del tesoro di San Gennaro sotto lo sguardo concupiscente del vescovo di Napoli (Peppe Lanzetta): il sottile fil rouge è dato dal legame tra carne e spiritualità, tra religione e desiderio, tra purezza e corruzione. Tutte queste coppie antonimiche si articolano sull’equilibrio precario e incostante dei rapporti di potere, altro elemento tematico ricorrente in Sorrentino, e sul rapporto tra sguardo e potere. 

La gioventù ideale dipinta da Sorrentino è pura e ostinata: la ricerca di Parthenope è tanto più pura quanto più è fine a sé stessa, una tensione continua verso qualcosa di irraggiungibile, verso una forma di conoscenza che si sublima nella sua eterna incompiutezza.

Parthenope non è solo oggetto dello sguardo, ma è anche soggetto: è il suo sguardo a guidarci nelle diverse Napoli che si susseguono nei decenni e a farci esplorare le sue zone d’ombra e le sue viscere marine, così come è sempre il suo sguardo a interrogare le persone che incontra, a cercare perennemente risposte. Il percorso di formazione di Parthenope è un lungo apprendistato all’acquisizione della vista: crescere significa imparare a vedere, saper diventare osservatori della vita, agire attraverso lo sguardo, così come le insegna il professore di antropologia interpretato da Silvio Orlando.  

La gioventù ideale dipinta da Sorrentino è pura e ostinata: la ricerca di Parthenope è tanto più pura quanto più è fine a sé stessa, una tensione continua verso qualcosa di irraggiungibile, verso una forma di conoscenza che si sublima nella sua eterna incompiutezza. La purezza della gioventù di Parthenope sta nel non avere mai le risposte, compresa quella alla domanda «Che cos’è l’antropologia?» che si sovrappone alla domanda «Che cos’è l’umanità?». Ma se la giovinezza è pura ed eroica, ingenua e ingannevole, trasparente e opaca al tempo stesso, il cinema invece è sguardo impuro, visione contaminata, arte che si nutre della sua stessa decadenza. All’interno di Parthenope abbiamo due personaggi appartenenti al mondo dell’industria cinematografica: Flora Malva (Isabella Ferrari), vecchia diva che nasconde il volto sfigurato dalla chirurgia estetica, e Greta Cool (Luisa Ranieri), star dall’appeal internazionale che nasconde il suo disfacimento dietro un travestimento pacchiano e artificioso, e ritorna a Napoli per insultare gli abitanti in un monologo pieno di rancore e disillusione. Queste sono le uniche figure chiamate a rappresentare la macchina del cinema, nei suoi aspetti più cinici e disincantati: in questo mondo morente non sembra esserci spazio per la giovane e vitale Parthenope, la quale viene prontamente dissuasa dall’intraprendere la carriera d’attrice. 

Il cinema italiano vive guardando al passato: ossessionato dalle antiche glorie della stagione d’oro del neorealismo prima e dei grandi autori in seguito, rimugina continuamente su come replicare quello splendore, come riprodurre fedelmente quelle immagini per recuperare un’autorevolezza perduta.

Ma la riflessione che suscitano queste due figure decadenti figlie di un’epoca al tramonto può estendersi anche al di fuori dei confini del film e applicarsi alla riflessione portata avanti dalle immagini del cinema di Sorrentino. Un cinema fatto di inquadrature che, pur rifacendosi al grande cinema italiano del Novecento (Fellini in primis) e radicando il suo orizzonte iconografico in una realtà nazionale ben determinata, in realtà attua un’opera di riappropriazione e rielaborazione estetica che restituisce immagini segnate da un’identità transnazionale. Come osserva Russell J.A. Kilbourn, «quello di Sorrentino è un transnazionalismo decisamente cosmopolita, che riflette un insieme di valori specifici di una soggettività tardo-moderna che sa si di trovarsi sull’orlo dell’estinzione (metaforica) ma non fa nulla perché paralizzata dallo spettacolo autoriflessivo di vedere la propria fine come una strana tipologia di grande bellezza». 

Il cinema italiano vive guardando al passato: ossessionato dalle antiche glorie della stagione d’oro del neorealismo prima e dei grandi autori in seguito, rimugina continuamente su come replicare quello splendore, come riprodurre fedelmente quelle immagini per recuperare un’autorevolezza perduta. Quest’ossessione si incrocia con le aspettative del mercato internazionale, che accoglie con benevolenza forme visive e narrazioni italiane che aderiscano all’immaginario stereotipato così popolare nel mondo, fatto di Vespe che ronzano per strade ciottolate e monumenti che si ergono in tutto il loro splendore sulle vite di personaggi glamour e tormentati. Sorrentino ha giocato con quest’immaginario e con questi bisogni riuscendo a dare vita a immagini che, se da un lato strizzano l’occhio a un’estetica italiana spendibile all’estero, dall’altro sanno giocare all’interno di questi confini, creando nuove stratificazioni di significato e ponendosi in un dialogo conflittuale col contemporaneo. 

Se quest’operazione è più sottile in La grande bellezza, uno dei film italiani di maggior successo internazionale degli ultimi anni, in Parthenope la situazione è più complessa e contraddittoria, con un’oscillazione perenne tra i segni di una maggiore volontà di sperimentazione e l’autocitazionismo esasperato che rischia di scivolare nel parodistico, e lascia aperto l’interrogativo su quali direzioni prenderà il percorso estetico e tematico del regista. Di certo Parthenope rimane un mosaico complesso e ambizioso di una figura femminile che si fa metonimia di una città carica di simboli e di pulsioni come Napoli, dove carne e metafora si uniscono in una forma di spiritualità volitiva e rivoltosa e dove, per citare Jep Gambardella, «tutto è sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza». 

Laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Torino, al momento sta conseguendo una laurea in Cinema e Media. Collabora, tra gli altri, con diverse testate di critica cinematografica come Cinefilia Ritrovata, NPC Magazine, ODG Magazine e Fatamorgana Web.